Norma–Teatro Massimo, Palermo
A Palermo conquista il pubblico del Teatro Massimo l’ammaliante splendore di Norma, la più celebre e amata delle opere di Vincenzo Bellini, in un allestimento prodotto dal Teatro Massimo e l’Arena Sferisterio di Macerata, con la regia di Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi e la direzione del maestro Lorenzo Passerini. Lo spettacolo, già proposto nel 2017, ha registrato il sold out di tutte le recite in programma, decretando un meritato successo per un lavoro teatrale di grande pregio sia dal punto di vista registico, che della messa in scena e dell’esecuzione musicale. Il cast dei cantanti è composto da stelle della lirica internazionale del calibro di Marina Rebeka nel ruolo del titolo, Dmitry Korchak nei panni di Pollione, Maria Barakova nel ruolo della rivale Adalgisa, Riccardo Fassi ( Oroveso), Elisabetta Zizzo (Clotilde) e Massimiliano Chiarolla (Flavio). Maestro del Coro, Salvatore Punturo. Le scenografie, ispirate alle opere dell’artista sarda Maria Lai, sono di Federica Parolini, i costumi di Daniela Cernigliaro, assistente ai costumi Pina Sorrentino, il disegno delle luci è di Luigi Biondi, assistente alle luci Francesco Traverso, assistente alla regia è Alessia Donadio.
Tragedia lirica in due atti, su libretto di Felice Romani, Norma è universalmente riconosciuta come il capolavoro di Vincenzo Bellini, nonché come una delle opere di riferimento di tutto il repertorio operistico. Composta in pochi mesi nel 1831 e rappresentata per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre dello stesso anno, è tratta dalla tragedia Norma ou l’infanticide di Alexandre Soumet che in quegli anni era in scena con grande successo sui palcoscenici parigini. Una storia la cui protagonista è la sacerdotessa che infrange i suoi voti per amore sullo sfondo della guerra tra Galli e Romani, legata alla tradizione classica della Medea di Euripide e all’uccisione dei figli come vendetta per il tradimento amoroso. Rispetto al riferimento letterario francese il librettista Romani apporta delle modifiche, tra le quali spicca l’ampliamento della parte di Adalgisa, per evidenziare il conflitto di passioni incarnato dai tre protagonisti, e il diverso esito del finale che esclude l’infanticidio espresso dal titolo di Soumet.
La recita cui assistiamo in un’assolata domenica pomeriggio, immersi nella maestosità regale del Teatro Massimo di Palermo, ha la grazia e l’intensa profondità di un rito poetico condiviso, ha la forza rigenerativa di arte e bellezza quali essenziali nutrimenti dello spirito. Prima dell’inizio dello spettacolo abbiamo il piacere di salutare in platea il regista Ugo Giacomazzi, il quale ci racconta di come, insieme all’altro regista Luigi Di Gangi, alla costumista Daniela Cernigliaro, alla scenografa Federica Parolini e al light designer Luigi Biondi, abbiano lavorato ispirandosi ad una sorta di nume tutelare, l’artista Maria Lai, la cui tecnica ruota intorno all’uso di materie tessili che rimandano alle antiche tradizioni del lavoro al telaio delle donne sarde.
“Essere è tessere”, il motto di Maria Lai, diventa gesto teatrale, prende vita, forma, colore, luce nello spazio scenico dove gli uomini strappano tele e le offrono alle donne che con i fili creano mappe e intrecci per il vaticinio di Norma. Tutta la scena è attraversata diagonalmente da un lungo, logorato laccio rosso, colore che con potente valore evocativo rimanda alla passione, all’amore, al fuoco, al sangue. L’elemento cromatico trasversale definisce dunque l’ambito in cui la storia accade, ma diventa anche anticipazione, narrazione simbolica degli eventi. Di un groviglio di fili, funi, corde e tessuti sfilacciati è fatta anche la foresta, come logori, lisi, laceri sono i costumi indossati dai personaggi, quasi a raccontare la fatica e l’imprevedibilità dei destini umani, i misteriosi intrecci della vita. Grazie al sapiente, suggestivo disegno delle luci di Luigi Biondi e all’essenzialità arcaica, quasi apocalittica delle scene, ci sembra di intravedere l’immagine suggestiva di una nave con i suoi alberi frantumati dal vento e le vele sfrangiate che non fanno più navigare per mare ma annunciano un naufragio. Ci piace sottolineare come la scelta di una cifra stilistica scarna, non estetizzante, risulti essere un omaggio alla natura stessa del teatro in quanto tessuti, trame, funi sono elementi costitutivi dell’espressione teatrale, materia viva di cui si sostanzia l’arte della recitazione, sono costumi, sipari, veli, teli, fondali e velluti morbidi di poltrone su cui accomodarsi per entrare a far parte dell’alchimia della rappresentazione e godersi lo spettacolo.
Quanto poi alla tessitura musicale, che è indubbiamente centrale nel teatro d’opera, particolarmente pregevole, coinvolgente e vigorosa la direzione del maestro Lorenzo Passerini, che riesce ad enfatizzare la drammaticità delle situazioni con un gesto deciso, con la bacchetta che – nell’esecuzione della sinfonia o quando irrompe il fragore di “Guerra! Guerra!” – sembra lanciare dei fendenti a ferire l’anima per poi accompagnare tutta l’orchestra con le movenze ampie e morbide delle braccia. Il giovane direttore mostra una decisa abilità nel saper misurare il peso dell’orchestra in relazione al canto, sostenuto con una concertazione policroma che supera le difficoltà esecutive della partitura belliniana, garantendo incisività, buona scelta dei tempi ed un equilibrato collegamento tra buca orchestrale e palcoscenico. L’orchestra del Massimo sfodera un’ottima forma, aderendo perfettamente al gesto che anima il podio.
Proprio da qui, dal podio, ha origine un’immagine, un fotogramma che, tra i tanti, custodiremo a lungo nella memoria: le mani del maestro in alto ad applaudire lungamente la sublime, magnifica esecuzione di “Casta Diva” da parte dell’assoluta protagonista della serata, il soprano Marina Rebeka. Il cono di luce racchiude al vertice le mani del direttore e nella dilatazione luminosa sul palco la Norma di Rebeka che, inginocchiata sul proscenio, offre un emozionante bis della lunare preghiera, l’aria più amata e attesa di tutta l’opera. La cantante lettone manifesta una preparazione tecnica ineccepibile, un timbro compatto, morbido, luminoso nell’intera tessitura, levigando le linee melodiche con il giusto equilibrio tra colorature, acuti limpidi e agevoli sovracuti, con filati e fraseggi accurati, con i ricami del vibrato, con un totale controllo del fiato. La sua voce è un diamante, uno strumento perfetto di cui Marina Rebeka è assolutamente padrona e che la rende interprete raffinata ed intelligente, capace di dare corpo e anima, emozioni e sentimenti alla sfaccettata complessità psicologica e drammatica della protagonista dell’opera. Norma è un personaggio molteplice che richiede altissimo impegno e responsabilità, una donna che è al tempo stesso sacerdotessa e guerriera, è amante appassionata di Pollione e sa diventare amica della sua rivale Adalgisa, è una madre tenera e amorevole che supera la rabbia e il dolore del tradimento per difendere la vita dei suoi figli. A questo ruolo prismatico Rebeka dedica tutto il suo talento, il lungo studio e l’autentica professionalità che le fanno dominare il palco con generosità non comune, salutata da fragorosi, palpitanti applausi.
Valida ed incisiva anche la prova del mezzosoprano Maria Barakova nel ruolo di Adalgisa, che conta su una bella voce dal colore ambrato e un’ottima gestione dei volumi negli acuti, non mancando di espressività, intensità e abilità d’interprete sia nel duetto con Pollione (sesta scena del primo atto, un crescendo di impeto amoroso cui la giovane sacerdotessa non sa resistere fino a promettere “Al mio dio sarò spergiura, ma fedele a te sarò!”) che negli impegnativi duetti con Norma.
Vertice maschile tra le due donne è il Pollione di Dmitry Korchak, che sfodera una potente e calda voce tenorile, con acuti enfatici e veementi, oltre che una spavalderia attoriale molto convincente nella caratterizzazione del personaggio. Poderosa la decima scena del secondo atto: “In mia man alfin tu sei” canta Norma davanti ad un Pollione con le braccia legate da grosse funi sdrucite che impediscono un ultimo disperato gesto e lo lasciano come un insetto catturato dalla tela di un ragno. Anche per il tenore non manca il consenso del pubblico e gli applausi a scena aperta.
Riccardo Fassi delinea un Oroveso dall’intonazione profonda e la modulazione morbida della voce che conferisce autenticità ed eleganza al personaggio. Completano il cast Elisabetta Zizzo, una convincente Clotilde, con un timbro capace di connotare di tenerezza e materna cura le scene in cui sono presenti i figli di Norma a lei affidati, e Massimiliano Chiarolla nei panni di Flavio, amico e devoto confidente di Pollione. Si segnala anche l’ottimo contributo del Coro, ben istruito dal maestro Salvatore Punturo.
All’apice di una recita che distilla emozioni intime e penetranti, ci sentiamo profondamente turbati e coinvolti in una sorta di sospensione del tempo che scaturisce dall’imprevista autoaccusa di Norma, dal suo “Son io” cui segue un teatralissimo lungo silenzio nel buio totale della scena che prelude al drammatico finale: qui torna il rosso della diagonale ormai spezzata, il rosso infuocato del rogo che inghiotte il destino di Norma e Pollione e del loro tragico amore. Al silenzio segue il fragore e l’entusiasmo grato dei lunghi applausi del pubblico.
Norma
Tragedia lirica in due atti
Libretto di Felice Romani
dalla tragedia Norma ou l’infanticide di Alexandre Soumet
Musica di Vincenzo Bellini
Norma Marina Rebeka
Pollione Dmitry Korchak
Adalgisa Maria Barakova
Oroveso Riccardo Fassi
Clotilde Elisabetta Zizzo
Flavio Massimiliano Chiarolla
Direttore Lorenzo Passerini
Regia Ugo Giacomazzi e Luigi Di Gangi
Scene Federica Parolini
Costumi Daniela Cernigliaro
Luci Luigi Biondi
Assistente alla regia Alessia Donadio
Assistente ai costumi Pina Sorrentino
Assistente alle luci Francesco Traverso
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Maestro del Coro Salvatore Punturo
Allestimento del Teatro Massimo
in coproduzione con Arena Sferisterio di Macerata