Don Carlo
“Il duolo della terra / nel chiostro ancor ci insegue ;/ del core sol la guerra / in ciel si calmerà” Così canta il Frate, forse Carlo V, al principio e alla fine del Don Carlo nella versione in quattro atti in scena al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, ultimo titolo del Festival d’Autunno dedicato a Giuseppe Verdi. Il dolore appunto pervade ineluttabilmente l’intero dramma e lacera l’intimo di tutti i personaggi al pari della sorte dei popoli; una sofferenza che scaturisce da conflitti insanabili, tra padre e figlio, tra Chiesa e Impero, ma anche tra il desiderio di libertà e il potere che opprime, tra senso del dovere ed aspirazione alla felicità. Vasto cartone sperimentale in una tinta da Requiem e grande affresco del pessimismo storico verdiano, la cui complessità viene raffigurata senza aggiunte estranee o significative distorsioni dalla direzione di Daniele Gatti e dalla regia di Roberto Andò.
Inizialmente si era pensato a rappresentare l’opera in cinque atti, ma il ritardo nella consegna del nuovo palcoscenico, con conseguente riduzione del tempo per le prove, ha fatto propendere per la versione della Scala del 1884. Con questa produzione si ritorna quindi nella Sala grande con la macchina scenica interamente rinnovata. Il debutto ha però rischiato di venire posticipato a causa di uno sciopero che era stato annunciato a pochi giorni dalla prima, che si è invece tenuta regolarmente, in un clima da serata inaugurale del Festival, con il teatro gremito e la presenza di autorità civili e del mondo della cultura.
Fin dall’inizio, l’atmosfera creata da Roberto Andò è cupa e funerea, in sintonia con lo spirito dell’opera, sospesa ed inquieta con elementi evanescenti come le colonne tortili senza basamento e gli alberi spogli senza radici. L’azione è collocata in uno spazio astratto e atemporale che evoca il Cinquecento spagnolo soprattutto grazie ai costumi di Nanà Cecchi, non ricostruzioni filologiche ma evocazioni della foggia rinascimentale (Originale la vestizione di Elisabetta come doppio di Filippo e il suo abito finale scuro con le memorie del precedente in stoffa chiara). La scena è per lo più vuota o con pochissimi elementi, incorniciata da un ‘architettura squadrata ed essenziale, quasi metafisica, con aperture sul fondo, ma che tende a farsi spazio chiuso e claustrofobico con il progredire della vicenda verso il finale, che è appunto senza via d’uscita. La regia tiene insieme i molti aspetti dell’opera con l’utilizzo di simboli religiosi o del potere politico e creando durante i duetti assenze spaziali riempite dalla psicologia dei personaggi. Suggestivo il quadro delle donne nel chiostro, con luci gialle e brunite, opera di Gianni Carluccio, autore anche delle scenografie, e con le proiezioni di gigli e veli ondeggianti di Luca Scarzella: elementi che per contrasto fanno risaltare ancora di più il grigiore uniforme e la tenebra imperante in tutte le altre scene. Ben realizzati i movimenti durante la cerimonia dell’autodafé in accordo ai differenti temi musicali e quelli della rivolta che dipingono una massa irrazionale e facilmente manipolabile. Alcuni dettagli tuttavia nel corso dell’opera indeboliscono la forza e la solennità di quanto si vuole rappresentare, come i cipressini nel cimitero iniziale o le tre pietre sospese e i piccoli teschi sul sepolcro di Carlo V. Se il Grande Inquisitore risulta convincente come larva spettrale che si staglia dall’ombra, la figura di Filippo è caratterizzata, al terzo atto, in una forma troppo amletica, che più si addice invece all’edipico Infante e che comprime la statura del sovrano crudele e tormentato, qui più cortigiano che non regge al confronto con la terribilità del monaco semiparalitico. Nell’epilogo soprannaturale, l’enigmatica sparizione di Carlo viene risolta investendolo sugli ultimi accordi di un fascio di luce bianchissima in prossimità del proscenio, quasi ad offrircelo, per l’ultima volta, nel mistero della sua lacerata ed irrisolta umanità.
Il maestro Gatti legge la partitura in modo analitico, quasi a volerne scomporre ogni sezione per ricostruire meticolosamente la scenografia sonora creata da Verdi. Ogni tema viene accuratamente assemblato e sbalzato, ogni dettaglio valorizzato con particolare attenzione alle sfumature cromatiche e alle loro implicazioni drammaturgiche e psicologiche. Fin dall’attacco il gioco di contrasti tra grave ed acuto delinea una dialettica di chiaro e di scuro risolta a favore di quest’ultimo e della dimensione introspettiva; minuziose le variazioni d’intensità, qualche rallentamento per tracciare più nitidamente la frase ed evidente il rilievo conferito ai singoli strumenti associati ai differenti personaggi. Alcune parti mancano di quella forza a cui ci ha abituato la prassi esecutiva, ma ciò avviene a vantaggio della cura del particolare e della sua modulazione nel contesto dell’insieme. Incantevole l’introduzione al secondo atto, eseguita con estrema attenzione ai colori orchestrali, in uno stile francese da grand opéra, mentre il quadro successivo dell’autodafé coniuga l’aspetto più bandistico con gli eleganti concertati. Struggente il violoncello con il lamento dei violini che precede la scena negli appartamenti del re e forte la sintonia dell’orchestra con Elisabetta nella grande aria che apre il quarto atto. In generale pare tuttavia che Gatti abbia lasciato grande libertà alle interpretazioni dei cantanti, con qualche effetto di scollamento tra solisti e buca orchestrale.
Potente e screziata l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, come il Coro diretto da Lorenzo Fratini. Trina preziosa ed elegante il coro femminile del primo atto, solenni e vibranti i cori dei monaci, festosi e sinistri quelli del popolo al secondo atto. Chiaro ed omogeneo il coro dei Fiamminghi, con una linea amplissima e morbida.
Don Carlo è Francesco Meli, con voce piena e rotonda soprattutto al primo atto. Lirico e malinconico nell’aria “Io la vidi e il suo sorriso” ed assai appassionato nel duetto con Posa, rende efficacemente l’unico momento veramente eroico del dramma. Intenso, in uno stile vario e cangiante, nel dialogo con la Regina, ben esprime il dissidio interiore del protagonista. L’interpretazione si mantiene costantemente drammatica e più approfondita rispetto al recente Ernani, pur considerando le dovute differenze del personaggio; il canto tuttavia, in alcune parti come la morte di Rodrigo e l’ultimo duetto con Elisabetta, risulta meno naturale, a tratti sforzato, rispetto alle parti iniziali.
Fin dal suo primo ingresso, Mikhail Petrenko nei panni di Filippo ci si mostra ieratico, con un declamato solenne e scandito. Ha un fraseggio scolpito e assai ordinato nel dialogo con Posa, anche se la melodia fatica ad assumere piena consistenza ed il contrasto tra le voci è piuttosto debole, così come con l’Inquisitore. Validissimo nella recitazione e trasparente nella dizione, è comunque poco incisivo in “Ella giammai m’amò”, tanto per corpo quanto per qualità vocale.
Prova di grande valore quella di Eleonora Buratto come Elisabetta. Partendo dal finale, in “Tu che le vanità conoscesti del mondo”, è prima dolentissima, poi dolce e suadente, con agili transizioni dal grave all’acuto; accelera il tempo nella ripresa del tema iniziale, in perfetto accordo con l’orchestra, e si slancia in un’impennata di indignazione e di resistenza, per poi abbandonarsi nel dolore di una preghiera rassegnata. E’ molto trattenuta nelle scene iniziali, con un contegno regale e addolorato, struggente nel dialogo con Carlo e nell’addio alla contessa, con una lunga tenuta delle note ed un sicuro governo del registro più alto. Anche con Eboli, coniuga forza espressiva con grazia belcantistica, rende efficacemente il velleitarismo eroico di Carlo al quarto atto e delinea con sognante malinconia il momento della fuga ideale “Ma lassù ci vedremo in un mondo migliore”. Infine, ci accompagna nel mistero conclusivo con un acuto straziante e luminosissimo.
Pregevole la Eboli di Ekaterina Semenchuk, soprattutto per la commovente interpretazione di “O don fatale”, prima irruenta e poi dolcissima nel passaggio “O mia regina”. Ha qualche vocalizzo non troppo appropriato nella canzone del velo, ma è piuttosto incisiva nel terzetto del giardino, anche se dopo la sua interessante Azucena ci saremmo aspettati maggiore originalità ed una più profonda caratterizzazione del personaggio.
Solido il Rodrigo di Roman Burdenko, convince soprattutto nel duetto con Carlo e poi con Filippo. Voce calda ed estesa, ha però un’emissione discontinua nel volume e ne soffrono così alcune parti come quella della morte.
Molto appropriato il Grande Inquisitore di Alexander Vinogradov, omogeneo e profondo, con un fraseggio assai modulato. E’ cupo e sinistro nella prima parte del dialogo, per mostrarsi poi aggressivo e terribile.
Suggestiva l’interpretazione di Evgeny Stavinsky nel ruolo del Frate/Carlo V, scuro, rigoroso e ricco di accenti.
L’intonato Tebaldo di Nicoletta Hertsak non si è purtroppo sentito nelle sue prime battute; luminoso e corretto il conte di Lerma/Araldo di Joseph Dahdah, traboccante di grazia la Voce dal Cielo di Benedetta Torre.
Episodio spiacevole al momento degli applausi, tra l’altro unanimi e calorosi: non si presenta la Semenchukperché – sembra- in disaccordo con l’ordine stabilito da Gatti, che prevedeva l’uscita di Filippo dopo Eboli ed Elisabetta. Sul palco nervosismo ed imbarazzo, Gatti e Andò escono dopo la chiusura del sipario. Insomma, cose che non dovrebbero accadere. E certi gesti dispiacciono ancora di più da professionisti di talento.
DON CARLO
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Opera in quattro atti
Libretto di François-Joseph Méry e Camille du Locle da Friedrich Schiller
Traduzione italiana di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini
Musica di Giuseppe Verdi
Edizione: Edwin F. Kalmus & Co., Inc., Boca Raton, Florida
Nuovo allestimento
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Maestro concertatore e direttore Daniele Gatti
Regia Roberto Andò
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Nanà Cecchi
Video Luca Scarzella
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Filippo II, re di Spagna Mikhail Petrenko
Don Carlo, infante di Spagna Francesco Meli
Rodrigo, marchese di Posa Roman Burdenko / Massimo Cavalletti (8/01)
Il Grande Inquisitore, cieco nonagenario Alexander Vinogradov
Un frate Evgeny Stavinskiy
Elisabetta di Valois Eleonora Buratto
La Principessa Eboli Ekaterina Semenchuk
Tebaldo, paggio di Elisabetta Nikoletta Hertsak / Aleksandra Meteleva
Il Conte di Lerma / Un araldo reale Joseph Dahdah
Una voce dal cielo Benedetta Torre
Deputati fiamminghi Davide Piva, Eduardo Martinez Flores, Matteo Torcaso, Matteo Mancini, Volodymyr Morozov, William Hernández, Lodovico Filippo Ravizza,
Roman Lyulkin
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
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Assistente regista Boris Stetka
Assistente scenografo Sebastiana di Gesù
Assistente costumista Veronica Pattuelli
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Foto: Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino