Il trovatore (Festival Verdi 2022)
Il Festival Verdi, per la prima volta, fa tappa a Fidenza: al Teatro Magnani Il trovatore di Giuseppe Verdi.
Un legame teatrale antico quello fra Parma e Fidenza, che inizia con la progettazione nel 1813 del teatro dell’opera a firma di quel Nicolò Bettoli, architetto di Maria Luigia d’Austria, che nel 1821 progetterà anche il Regio di Parma. L’inaugurazione della sala fidentina, dopo molti rinvii, avverrà solo il 26 ottobre 1861 proprio con Il Trovatore, titolo scelto anche per questo Festival 2022.
In una serata quasi autunnale, in una città un po’ sbigottita per il trambusto mediatico festivaliero, sotto la volta affrescata da Girolamo Magnani con le allegorie di Musica e Poesia, risuona il capolavoro verdiano, opera celeberrima e parte della cosiddetta trilogia popolare. L’allestimento scelto è quello firmato da Elisabetta Courir e nato per il Festival Verdi edizione 2016 (dove venne accolto, alla prima, da numerose e rumorose contestazioni). Lo spettacolo rivisto ora in uno spazio scenico più ridotto funziona meglio, giocando sulla dimensione essenziale del dramma dei sentimenti, asse portante della drammaturgia verdiana, ma il risultato finale pecca ancora di una certa monotonia monocroma.
La vicenda è presentata come una sorta di flashback di Leonora che, da spirito, rivive tutta la sua storia restando quasi sempre ai margini della scena mentre un suo ”doppio” vivente interagisce con gli altri personaggi.
Ben riuscite le coreografie di Michele Merola, con mimi impegnati, inizialmente, nella rievocazione del racconto del rapimento del figlio del Conte e della sua uccisione e, successivamente, come zingari ad inizio secondo atto.
Scarna la scena (a cura di Marco Rossi), occupata unicamente da pedane mobili dove si dispongono ora i protagonisti, ora il coro e i figuranti. In questo spettacolo l’unico tocco di colore è dato dalla sciarpa rossa al collo di Manrico e dai gigli bianchi che ricorrono più volte, stesi sul pavimento, o a formare un sipario, sempre simbolo di innocenza violata. I costumi, a cura di Marta del Fabbro, sono atemporali e giocati, come tutto lo spettacolo, sulle cromie del grigio e del nero. Suggestivo ed elegante il gioco luci di Gianni Pollini.
Rivisto a distanza di anni, e su un palco diverso, questo spettacolo migliora ma non conquista definitivamente; permane, piuttosto, un senso di irrisolto per la scarsa incisività del lavoro sui singoli e, sulla lunga distanza, un alone di noia complessiva.
Non convince pienamente neppure la resa musicale dello spettacolo.
Il Maestro Sebastiano Rolli, sul podio, offre una prova discontinua per una serie di motivi. In primis la mancanza di unitarietà nel racconto narrativo che sembra, al contrario, procedere per tronconi separati, alternando ritmi più distesi e rallentati ad altri più concitati. Una lettura piuttosto ingessata, dalla quale si percepiscono a stento quelle emozioni e quei palpiti che dovrebbero, al contrario, emergere da una partitura tanto passionale come questa. Si avverte, inoltre, un certo disequilibrio rispetto al palco dove, in più, occasioni, gli artisti non appaiono perfettamente sostenuti. Difficile anche il dialogo con la buca, dove troviamo la Filarmonica Arturo Toscanini che, pur a ranghi ridotti per adeguarsi agli spazi del teatro, non brilla, stranamente, per politezza o precisione sonora ma, anzi, si avvertono quà e là alcune imprecisioni negli attacchi.
La prova della compagnia vocale risulta inevitabilmente inficiata dalla direzione.
Per altro, va sottolineato come l’esecuzione segua l’edizione critica a cura di David Lawton – Casa Ricordi Srl, Milano, ma questa scelta non convince pienamente: perché, ad esempio, Azucena viene privata del “do acutissimo” nel duetto con Manrico? Perché le due strofe della “pira” appaiono identiche, salvo una piccola variazione nella ripresa, e risultano prive del “do” di tradizione lasciando poi l’Interpolazione finale?
Nel ruolo del protagonista troviamo Angelo Villari il cui timbro brunito e il colore avvolgente ben si adattano alla scrittura verdiana. Il suo è un Manrico passionale e tipicamente mediterraneo, che colpisce per il naturale squillo del registro superiore e la buona musicalità del mezzo che, per le sue caratteristiche peculiari, si sposa con una visione eroica, a tratti quasi sfrontata, del personaggio.
Anna Pirozzi viene chiamata, a pochi giorni dalla prima, a prendere il posto della collega titolare del ruolo inizialmente prevista. Il soprano possiede un mezzo imponente, ampio e naturalmente espressivo. Non è certo facile esibirsi in un teatro dalla dimensioni tanto ridotte, quale appunto il Magnani; la Pirozzi, nel costante tentativo di “addomesticare” una vocalità tanto importante, incappa in qualche asperità, specialmente nel registro acuto. È altrettanto vero, tuttavia, che i centri suonano sempre rigogliosi e sicuri; suggestivi, inoltre, i pianissimi esibiti nella celebre aria di quarto atto “D’amor sull’ali rosee”. Il fraseggio, poi,sempre curato e rifinito, è adeguatamente scolpito e rivela un personaggio accorato e passionale.
Una piacevole sorpresa il Conte di Luna del baritono Simon Mechlinski, che fa sfoggio di una linea dal caratteristico colore chiaro e dotata di buona musicalità. Una prestazione che vocalmente sembra strizzare l’occhio al retaggio belcantista della produzione operistica del primo Ottocento (dato particolarmente evidente, soprattutto, nella esecuzione delle agilità della cabaletta). Buona la resa del personaggio, grazie all’eleganza dell’accento, composto e mai sopra le righe. Una voce promettente e da non perdere di vista.
Torna a vestire i panni di Azucena, Enkelejda Shkoza, già interprete del ruolo al debutto di questo spettacolo sul palcoscenico del Teatro Regio nel 2016 e qui chiamata a sostituire la collega inizialmente prevista. La sua vocalità dal colore serotino e dal timbro screziato, sembra ideale per questo personaggio. Ad onta di un ottimo fraseggio e una partecipazione emotiva particolarmente intensa, spiace rilevare, qua e là qualche segnale di affaticamento e disomogeneità tra i registri, tale, tuttavia, da non inficiare una prova di buon livello.
Non convince pienamente il Ferrando di Alessandro Della Morte, che, pur in possesso di un mezzo nobile e dal bel colore chiaro, deve ancora maturare la giusta morbidezza che possa assicurare la giusta compattezza tra tutti i registri.
Eccellente per musicalità la Ines di Ilaria Alida Quilico.
Corretto e ben a fuoco, sia vocalmente che interpretativamente, Davide Tuscano, impegnato nel duplice ruolo di Ruiz e un messo.
Completa la locandina, Chuanqi Xu, un vecchio zingaro.
Eccellente, come al solito, la prova del Coro del Teatro Regio di Parma, sotto la guida sicura ed inossidabile del Maestro Martino Faggiani, cui si riconosce, ancora una volta, la capacità di sbalzare, pur con i già citati limiti del podio, accenti variegati e particolarmente intensi.
Successo convinto al termine, con particolari acclamazioni per Villari e Pirozzi. Timide contestazioni vengono invece rivolte ai responsabili della parte visiva.
Con la speranza che il Festival possa avere sempre il suo cuore a Parma ma possa ancora prestarsi a queste ed altre uscite nei tanti bellissimi teatri della provincia.
IL TROVATORE
Dramma lirico in quattro parti su libretto di Salvadore Cammarano
tratto dal dramma El Trovador di Antonio Garcìa Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Manrico Angelo Villari
Leonora Anna Pirozzi
Conte di Luna Simon Mechlinski
Azucena Enkelejda Shkoza
Ferrando Alessandro Della Morte
Ruiz/Un messo Davide Tuscano
Ines Ilaria Alida Quilico
Un vecchio zingaro Chuanqi Xu
Filarmonica Arturo Toscanini
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Sebastiano Rolli
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Elisabetta Courir
Scene Marco Rossi
Costumi Marta del Fabbro
Light designer Gianni Pollini
Coreografie Michele Merola
Foto: Roberto Ricci