Lady e Macbeth – La libidine del potere
Ben nota è la predilezione che Verdi aveva per “il papà”, affettuoso epiteto con cui si rivolgeva a Shakespeare, di cui per tutta la sua vita è stato lettore e ammiratore. Dal suo Macbeth, tragedia che quasi prefigurava il sentimento romantico, Verdi e il suo librettista Francesco Maria Piave trassero un capolavoro che pur adottando, rispetto alla tradizione drammaturgica precedente, un nuovo linguaggio musicale, conservava i canoni formali cui fino ad allora il melodramma italiano si era attenuto. Confrontando la tragedia shakespeariana e l’opera verdiana, è possibile notare come Piave e Verdi si siano di poco discostati dalla fonte nella quale sembra invece di rinvenire le strutture formali dell’opera italiana. Prima di analizzare più nel dettaglio alcuni tra i momenti salienti dell’azione, quelli che vedono coinvolti la Lady e Macbeth, è opportuno riflettere sul significato culturale veicolato e rappresentato dall’opera negli anni Quaranta dell’Ottocento. Nel dramma sono contenuti alcuni elementi propri del romanticismo nordico: il sovrannaturale, solitamente mancante nell’ottica romantica italiana (si pensi alle streghe che rappresentano un unico personaggio) e la maestosa scena delle apparizioni nel terzo atto, ancor più magnificamente resa nella seconda versione del capolavoro verdiano del 1865. A Verdi, che aveva assistito alla rappresentazione del Macbeth a Londra e ne conosceva la traduzione italiana di Carlo Rusconi, non poco costò la scelta del soggetto in termini di critiche, parecchie delle quali rivoltegli da suoi stessi estimatori. Riguardo al problema del soprano e della sua vocalità, Verdi riteneva che non bastasse una “troppo bella voce”: per la sua Lady egli chiedeva una voce che rendesse il carattere cupo e tenebroso della regina.
Sulla vocalità della Lady si è peraltro molto discusso: si richiedeva un soprano drammatico di agilità, con voce “brutta”, come Verdi desiderava. Il senso proprio di tale aggettivo, che si è a lungo prestato ad equivoche interpretazioni, si chiarisce leggendo e vagliando il carteggio verdiano, attraverso il quale si desume come il termine “brutto” assumesse il significato di “cattivo, truce, spettrale”. Questo Verdi desiderava per la sua Lady, motore dell’opera, personaggio cardine dal carattere “risoluto, fiero e drammatico”, come lo stesso Verdi scriveva alla prima interprete di Lady del primo Macbeth, Marianna Barbieri Nini, che il compositore guidò minuziosamente nella preparazione del ruolo. Atto primo: Lady, ammaliatrice seducente, caratteristiche irrinunciabili per chi rappresenta e impersona il male, riceve una lettera dal marito, cui le streghe hanno predetto che ascenderà al trono di Scozia e subito si presenta con la sua cavatina: “Vieni! T’affretta” in cui, come nella corrispondente scena shakespeariana, Lady si vede già regina, spingendo il marito, “Sir di Caudore”, a decidere di trucidare il re Duncano. Se nell’atto primo Macbeth dà segni di pentimento e debolezza:
“Allor questa voce m’intesi nel petto:
avrai per guanciali sol vepri, o Macbetto!
Il sonno per sempre, Glamis, uccidesti!
Non v’ha che vigilia, Caudore, per te!”
subito dopo aver commesso il delitto, ormai sulla strada della perdizione, avido e malato di potere, non esita a trucidare Banco, la cui prole avrebbe un giorno regnato. Lady quindi canta “La luce langue”, aria di cui Verdi scrisse personalmente i versi nella seconda versione, (nella prima, al suo posto, vi era una difficilissima aria in forma di cabaletta, “Trionfai! Securi al fine/premerem di Scozia il trono”, in cui il soprano è chiamato a prodursi in notevole agilità). Nella seconda versione, la Lady appare ancora più cupa, assetata com’è di potere e, presa dalla voluttà del trono, esclama:
“O voluttà del soglio!
O scettro, alfin sei mio;
Ogni mortal desìo
Tace e s’acqueta in te.”
Nel quarto atto, alla regina usurpatrice non resta che morire, in preda al delirio, cui i suoi stessi misfatti l’hanno condotta. Marianna Barbieri Nini narra che le ci vollero ben tre mesi per mandare a memoria la scena del sonnambulismo. Le si chiedeva di parlare dormendo, “senza quasi mover le labbra”, e lasciando immobili le altre parti del viso compresi gli occhi: questa la volontà di Verdi. Nell’atto primo, Macbeth aveva esclamato con terrore che nemmeno “l’oceáno” avrebbe potuto detergergli le mani; nell’atto quarto è Lady a dire che:
“Arabia intera
rimondar si picciol mano,
co’ suoi balsami non può”.
Non più presente a se stessa, Lady può solo ripercorrere la tragica ascesa al potere. Si noti come nell’atto primo, scosso dai sensi di colpa a delitto compiuto, Macbeth oda qualcuno che bussa: è Macduff che è pronto a destare il re Duncano, ormai trucidato; nell’atto quarto, anche Lady ha l’impressione che qualcuno bussi alla porta, analogia interessante che unisce questa coppia del male. Lady conclude l’impegnativa scena del sonnambulismo rivolgendosi al marito, che lei immagina di avere accanto a sé:
“batte alcuno!… andiam Macbetto,
non t’accusi il tuo pallor”.
Un re bemolle, da cantare con un fil di voce, conclude l’impervia quanto affascinante parte del soprano. Macbeth, al cui primo interprete, Felice Varesi, ancora Verdi aveva caldamente raccomandato di curare fin nei minimi dettagli la parte, è un baritono dalla vocalità virile, di grande squillo e potenza che contrasta col personaggio dall’animo sostanzialmente debole. Inizialmente Macbeth promette di non “alzare la man rapace” sulla corona offertagli dal fato; ben presto però cadrà vittima dei presagi infernali delle streghe che profetizzano quello che Macbeth vuol sentirsi dire e il cui operato è facilitato da Lady. Macbeth, insomma, oscilla tra momenti di decisa determinazione (la morte di Lady Macduff e prole) e momenti di tormentata indecisione e terrore. Quando cinicamente accoglie la notizia della morte della regina (“la vita! Che importa?…/ È il racconto di un povero idiota!”), la sua stessa vita sta per concludersi, nella più totale solitudine:
“Pietà, rispetto, amore,
conforto ai dì cadenti,
non spargeran d’un fiore
la tua canuta età.”
Solo la bestemmia sarà la sua nenia, sul suo “regio sasso”. Ed ecco il sorprendente finale. Macbeth sarebbe stato invincibile, secondo le predizioni, fino a quando la foresta di Birnam non si fosse mossa contro di lui; una profezia alla quale, ovviamente, Macbeth si era rifiutato di credere perché:
“per magica possa
selva alcuna finor non fu mossa”,
ma che diventa realtà alla fine del dramma, allorché i profughi scozzesi, guidati da Malcolm figlio del re Duncano, avanzano verso il castello ciascuno mimetizzato dietro un ramo. Si compie anche l’ultima profezia, secondo la quale Macbeth non sarebbe stato ucciso da “nato di donna”: Macduff infatti, “strappato” dal seno materno, pone fine alla vita del tiranno. A Macbeth non resta che concludere deplorando la sua sorte:
“Mal per me che m’affidai
Ne’ presagi dell’inferno!…
Tutto il sangue ch’io versai
Grida in faccia dell’eterno!…
Sulla fronte… maledetta
Sfolgorò… la sua vendetta!…
Muoio… al cielo…al mondo in ira,
Vil corona!… e sol per te!”
Questa la deplorazione finale del Re assassino nella versione del 1847, sostituita dall’inno di vittoria dei Bardi nella versione del 1865.