Rubriche 2021

“Turandot” e “Nerone”, i rischi delle incompiute

Immedesimarsi nel compositore, intuire le sue direttive e prendere spunto dalla musica per imitarne il più possibile lo stile: sono questi i principali problemi che si sono incontrati in passato nel concludere le opere incompiute, quei lavori che i compositori non sono riusciti a terminare a causa della loro morte. Due casi emblematici sono senza dubbio quelli della Turandot di Giacomo Puccini e del Nerone di Arrigo Boito, peraltro messe in scena per la prima volta a poca distanza l’una dall’altra (nel 1924 e nel 1926 per la precisione). Spesso si è storto il naso per i finali che tali lavori si sono meritati, forse troppo azzardati e magari poco consoni a quello che prevedeva il progetto iniziale del musicista. Ma andiamo per ordine.

Turandot vanta addirittura due finali alternativi. L’ultima fatica di Puccini ha avuto una gestazione piuttosto travagliata. In effetti, fu probabilmente nel marzo del 1920 che si parlò per la prima volta di questa fiaba così misteriosa e affascinante: il librettista Giuseppe Adami fornì al compositore toscano una copia del dramma omonimo di Carlo Gozzi. Il giudizio di Puccini fu immediato: a suo parere, il soggetto doveva essere mantenuto intatto, semplificandolo al tempo stesso negli atti ed esaltando la passione amorosa della protagonista.

Insomma, l’attrazione nei confronti della storia era molto forte, ma probabilmente erano state sopravvalutate le capacità di realizzare in musica la stessa drammaticità. Già due compositori, inoltre, vale a dire Antonio Bazzini nel 1876 e Ferruccio Busoni si erano cimentati con lo stesso soggetto, ma la concezione della Turandot pucciniana è completamente nuova. Lo scetticismo del musicista lucchese sull’impossibilità di terminare la partitura era dettato soprattutto dal fatto che il suo male stava progredendo e in effetti nel 1924 Puccini morì a Bruxelles per un tumore alla gola. Ma la Turandot non poteva e non doveva rimanere incompiuta.

Pochi giorni dopo il decesso, Tito Ricordi suggerì il nome di Franco Vittadini per questo completamento sulla base degli abbozzi rimasti, si pensò anche a Riccardo Zandonai, ma alla fine la scelta ricadde su Franco Alfano, brillante esponente della “giovane scuola”. La consegna della nuova partitura avvenne all’inizio del 1926 e il direttore d’orchestra della prèmiere, Arturo Toscanini, si irritò molto nel vedere come Alfano avesse messo nel lavoro troppo di personale. La prima rappresentazione del 25 aprile 1926 (alla Scala di Milano) fu interrotta nel momento in cui muore Liù, le ultime note scritte da Puccini.

Nelle serate successive, poi, si sfruttò il finale di Alfano, ma molti abbozzi di Puccini erano a dir poco confusi; in particolare, Alfano non riuscì in un’impresa ardua, la sua musica doveva far trasformare la protagonista “cinta di gelo” e insensibile alla morte dei suoi pretendenti in una ragazza innamorata. Nel 2001, poi, Luciano Berio compose un altro finale per Turandot, cercando di renderla più umana, inserendo quelle che secondo lui erano le vere intenzioni del maestro, ovvero richiami e riferimenti a Wagner, Mahler e Schoenberg. Nessuno forse conoscerà mai le indicazioni della mente di Puccini per questa Turandot.

Lo stesso discorso si può fare per il Nerone di Boito. La gestazione fu anche in tal caso lunghissima e complicata: il librettista e compositore scapigliato sacrificò la sua opera per rendere più proficua la collaborazione con Giuseppe Verdi, ma nel 1918, quando Boito morì, la partitura era inesorabilmente incompiuta. Il 1924 doveva essere la celebrazione del letterato padovano: il lavoro presentava molte pagine di ottima fattura, ma fu determinante ancora una volta l’insistenza di Arturo Toscanini per far sì che si arrivasse al completamento. Il cast scelto per la prèmiere (Milano, la Scala, 1° maggio 1924) era di primissimo ordine, con il tenore Aureliano Pertile e il soprano polacco Rosa Raisa; anche i costumi e le scene furono selezionati con la massima cura, ma le critiche furono numerose da parte della stampa, la quale riteneva di trovarsi di fronte a un “carcassone erudito, mezzo sepolto e dall’ossatura mastondotica“.

Chissà cosa sarebbe successo se non fosse intervenuto Toscanini. Fatto sta che dopo il trionfo della prima rappresentazione, il Nerone è finito pressoché nel dimenticatoio, con poche riprese fino ai giorni nostri, un rischio che andava calcolato, visto che il merito della sua nascita si deve interamente al direttore d’orchestra emiliano e alla sua squadra di collaboratori che l’avevano seguito in maniera fedele.