Gluck e l’opera dimenticata per quasi due secoli
Sono passati oltre 250 anni da una delle mancate première più celebri della storia dell’opera lirica: il 4 ottobre del 1765, infatti, doveva essere rappresentata per la prima volta in assoluto “La corona”, azione teatrale in un atto e otto scene del compositore tedesco Cristoph Willibald Gluck su libretto di Pietro Metastasio. Eppure tutto era pronto, cast in primis, con i ruoli di Atalanta, Meleagro, Climene e Asteria assegnati alle arciduchesse Maria Elisabetta, Maria Amalia, Maria Josepha e Maria Carolina. Che cosa è successo per rimandare il tutto di oltre due secoli? Soltanto nel 1987 si riuscì a rappresentare finalmente questo lavoro, la cui storia merita di essere approfondita.
È sorprendente il fatto che una composizione così importante non sia mai stata eseguita nel ‘700. Gluck la definì una serenata teatrale e la compose in onore di Francesco I di Lorena, marito dell’imperatrice Maria Teresa. L’imperatore, però, era morto proprio nell’estate di quel lontano 1765 e si pensò dunque di aggiungere a quest’opera una dedica per ricordarlo. Diversamente da molte altre composizioni del musicista teutonico, i tipici elementi naturalistici non sono presenti e il testo non può essere descritto né come tragico né come divertente. “La corona” fu pensata appositamente per la voce delle quattro figlie dell’imperatore, anzi il cast fu completamente femminile (tre soprani e un contralto per la precisione).
La trama è presto detta. Metastasio la ottenne modellando il mito greco di Atalanta, allevata da un’orsa e diventata poi cacciatrice. Le sorelle vengono descritte in lite per quel che riguarda la caccia a un cinghiale selvaggio e per ottenere l’attenzione del bel principe Meleagro, il supervisore di questa battuta. Visto che lo stesso principe è un uomo, ci si aspetterebbe il ruolo di contralto, ma Gluck pensò invece di puntare sul soprano principale. La prima rappresentazione del 13 novembre di ventisette anni fa venne allestita presso il sontuoso castello di Schönbrunn a Vienna, una scelta postuma che non ha però permesso al compositore di Erasbach di apprezzare questa sua fatica finché fu in vita.
Ma quali sono esattamente gli elementi stilistici e musicali che si possono apprezzare? Le arie sono state scritte in maniera certosina e attenta, tanto è vero che il livello di difficoltà è tra i più elevati in assoluto: si possono scovare continui ostacoli alle fioriture tipiche dell’opera settecentesca, una sorta di “punizione” da parte di Gluck, dato che le cantanti sono costrette a fare i conti con situazioni non semplici. “La corona” dimostra perfettamente quali furono le capacità del musicista tedesco, in grado di eliminare parti inutili e poco consone all’obiettivo che intendeva raggiungere. Soltanto nel 1767, comunque, gli fu possibile mettere in scena realmente un lavoro nuovo, vale a dire l'”Alceste”.
Tornando a parlare della première mancata, Atalanta è il personaggio su cui si è maggiormente concentrato Gluck, concedendole moltissime arie e virtuosismi: in poche parole, sembra proprio che la musica sia stata composta su misura per l’antica figura mitologica. Fortunatamente esistono anche delle incisioni per poter apprezzare l’opera in questione, una scelta agevolata dal fatto che in concomitanza con il debutto del 1987 vi fu una sorta di “Gluck renaissance”, una riscoperta delle sue note e di quelle del XVIII secolo.
Il lutto per la morte di Francesco I ha fatto cadere nell’oblio quest’opera-serenata, ma il destino ha voluto le cose andassero diversamente. Gli ammiratori del compositore sono stati piacevolmente sorpresi da questo lavoro dal piglio tipicamente barocco ed estremamente florido: bisogna infatti ricordare che sono passati appena tre anni da “Orfeo ed Euridice”, un’altra azione teatrale che riuscì a modificare per sempre il panorama operistico. Qualche mistero aleggia ancora attorno a “La corona”. In particolare, è difficile credere che Gluck si sia impegnato tanto dal punto di vista musicale per creare un qualcosa destinato a delle cantanti non professioniste, appunto le arciduchesse figlie dell’imperatore.
Un ultimo cenno lo merita l’ouverture. È vero che Gluck non utilizzò molto materiale di questo lavoro per quelli successivi, ma una delle poche eccezioni è rappresentata da questo preludio, la cui seconda parte diventò il duetto d’amore di “Paride ed Elena” (rappresentata sempre a Vienna nel 1770). Un piccolo riciclo che si può senza dubbio perdonare, in fondo la delusione per la mancata messa in scena de “La corona” deve essere stata forte e il celebre operista-riformatore ha pensato bene di farla rivivere brevemente nei cinque atti del libretto di Ranieri de’ Calzabigi.