Intervista a Silvia Dalla Benetta
[Marco Faverzani e Giorgio Panigati] Signora Dalla Benetta, lei torna al Festival Verdi dopo le sue partecipazioni nel 2008, 2015 e 2017, questa volta il peso di una apertura e oltretutto con pochissimo tempo per potersi preparare, una grande sfida, come l’ha vissuta?
“Ho avuto il privilegio di cantare a Parma in diverse occasioni ed ognuna è stata affrontata in maniera differente. La prima volta una quindicina di anni fa in Rigoletto. Ai tempi frequentavo regolarmente il ruolo di Gilda, nonostante ciò, la tensione per il giudizio del temibile loggione mi faceva entrare in palcoscenico come se fossi una ballerina sulle punte, fortunatamente fui promossa. In quegli anni debuttai anche in Semiramide, capivo che era arrivato il momento di iniziare gradualmente ad introdurre ruoli più drammatici; nel 2008 mi fu offerta una recita de I Lombardi alla prima crociata e Il corsaro con Gulnara: una produzione magnifica che porterò sempre nel cuore per avermi fatto conoscere il grandissimo Maestro Puggelli.
Ritornai successivamente nel 2012 per un concerto con pagine da Rigoletto, Il trovatore e La traviata. Nel 2015 inaspettatamente torno a Parma a vestire i panni della mia amata Gulnara in una ripresa della produzione de Il corsaro, nonostante stessi cantando Elisabetta regina d’Inghilterra. Sono stata letteralmente messa in palcoscenico alla prova generale, dopo aver conosciuto il bravissimo Maestro Francesco Ivan Ciampa che, ricordo, ebbe appena il tempo di chiedermi dove respiravo su certe frasi impegnative, la mia risposta fu che non sapevo se sarei riuscita a respirare una volta entrata in scena, avevo un suggeritore su ogni lato del palcoscenico e per non farmi mancare nulla mi infortunai anche ad una caviglia. Pertanto la situazione in quell’occasione si presentava molto impegnativa. Ricordo che certi critici lamentarono l’asprezza di alcuni suoni in acuto, ma le corde vocali sono muscoli che vanno allenati nel modo giusto in base al repertorio che si affronta, non è mai facile passare in una notte da un ruolo, in quel caso rossiniano, ad uno verdiano.
Anche se il belcanto drammatico, da Rossini fino a I vespri siciliani di Verdi, si affronta con una tecnica e un fraseggio per certi versi molto simili, la tessitura e le posizioni di un ruolo Colbran sono comunque diverse da Il corsaro, così come lo è stata in questo caso la Nona Sinfonia di Beethoven, che ho interpretato a Piacenza appena prima di arrivare a Parma, parte che, seppur breve, si discosta molto dalla vocalità di Lady Macbeth.
Dunque non ho dovuto affrontare soltanto lo scoglio dell’adeguamento della linea vocale alla prosodia francese, ma ho dovuto anche “rimettere in voce” come si usa dire nel nostro linguaggio, Verdi dopo Beethoven, aggiungendo a queste tensioni anche il grande dispiacere dell’abbandonare il Festival di Wildbad, dove mi attendevano un recital e l’incisione di un disco. Per quanto riguarda l’esperienza di Jérusalem nel 2017, ricordo che a malincuore dovetti fare una scelta perché combaciava con un altro debutto, quello di Don Carlo in Germania, otto recite nel ruolo di Elisabetta con un mese di prove contro una recita di Hélène con una sola unica prova e scelsi Parma per l’amore che in questi anni mi ha legata sempre più a questo teatro.
Ed eccomi qua per concludere la sua domanda: qualche giorno fa ero a Parma, nel 2020 alle ore 20, a inaugurare il XX Festival Verdi con il grandissimo Maestro Abbado. È stato un grande onore per me e una grande emozione lavorare con Lui, mi rammarico solo di non aver potuto nutrire il mio personaggio con tutta la conoscenza del Maestro, la cosa che più amo è lavorare intensamente sulle sfumature vocali ed espressive. Il successo che comunque abbiamo ottenuto, nonostante i giorni di prova si potessero contare su una mano, ha ripagato abbondantemente tutte le mie fatiche”.
[Marco Faverzani, Margherita Panarelli e Giorgio Panigati] Lei è stata Lady Macbeth nel Circuito OperaLombardia con il Maestro Gianluigi Gelmetti ed ora con il Maestro Roberto Abbado, ci può delineare le differenze fra le due visioni? Come è cambiato il suo modo di interpretare questo importante e complesso personaggio?
“Due Lady, due debutti: una Lady aggressiva, graffiante nella parola e nell’accento, lavorata e maturata con cura in un lungo percorso con il Maestro Gelmetti e una Lady sofisticata nelle sue trame malvagie che si muove in modo più strisciante, che è costretta a trasformare la rabbia in qualcosa di subdolo e sottile per poi cedere a una pronuncia più morbida e rotonda lavorata con il Maestro Abbado. Non avrei mai pensato che passare (purtroppo in breve tempo senza poter maturare nel pieno il personaggio) da una lingua all’altra mi potesse aprire quasi involontariamente un nuovo spunto di ricerca del demoniaco che c’è in questa donna: con la lingua francese tutto diventa più mormorato, come una voce che si può sentire “da dentro” anziché “da fuori” del nostro corpo. Sarebbe bellissimo poter lavorare più a fondo su queste nuove innumerevoli possibilità”.
[Marco Faverzani e Giorgio Panigati] Nel suo repertorio due perni importanti sono sicuramente Gioachino Rossini e Giuseppe Verdi, quali sono le caratteristiche che ama di più dei due compositori? Quali trova più affini alla sua vocalità?
“Rossini è rivoluzionario e anticipatore dei tempi e senza di lui non sarebbe esistito l’Ottocento italiano. Certamente non è saltato fuori dal cilindro, non è comparso dal nulla, ma ha saputo stravolgere l’opera italiana con le sue novità e le sue idee. Ho avuto il privilegio di interpretare alcune delle sue opere giovanili, come L’Inganno felice e Aureliano in Palmira, e già si evidenziano il suo stile e i suoi tipici schemi musicali. Nei primi anni della mia carriera, ho avuto successo con Rosina e Fiorilla, poi, con l’incontro dei ruoli Colbran e delle opere napoletane, come Elisabetta Regina d’Inghilterra, Mosè in Egitto e Zelmira, ma anche le veneziane Eduardo e Cristina e Semiramide, ho finalmente potuto assaporare fino in fondo ed esprimere il vero canto, il fraseggio e l’intenzione rossiniana. Rossini ha saputo forgiare un nuovo bellissimo genere, il Grand-Opéra, affrancandosi dalla precedente Tragédie-lyrique. Interpretare Sinaïde nel Moïse è stato come partecipare alla prova definitiva per la creazione dell’insuperabile Guillaume Tell. E poi ci ha lasciato un vero testamento musicale con la Petite Messe Solennelle ed eseguirla per me è stato un vero onore.
Verdi ha saputo dare voce esemplarmente ai sentimenti e alle emozioni umane. Nelle sue opere giovanili si sente la lezione romantica dei suoi predecessori, ma con l’accento sulla parola ha saputo rendere un fraseggio sempre più realistico. Cantare Abigaille è come cantare l’evoluzione teatrale di Semiramide. Interpretare Aida è come avanzare in una nuova era rispetto a Zelmira. Ma non si tratta di meglio o peggio, anzi, si tratta di due geni che si sono affrancati dai canoni della loro epoca e hanno saputo far evolvere l’arte dell’opera lirica.
Attualmente ho in repertorio dieci ruoli rossiniani e dieci ruoli verdiani, oltre alle parti da soprano leggero che non canto più, e sinceramente non saprei rispondere su chi amo di più nonostante io me lo chieda da anni. Amo cantare Rossini per la sua freschezza e per il suo sottile raccontare il personaggio attraverso le agilità. Amo cantare Verdi per l’accento della parola e la schiettezza musicale immediata. È come paragonare un uccello che si libera in volo con una tigre che si addentra nella foresta; credo sia questa la mia vocalità: lo spazio che sta tra questi due mondi”.
[William Fratti] Dopo il successo di pubblico e critica nel ruolo di Amaltea in Mosè in Egitto, alcuni melomani, attraverso forum online e social network l’hanno definita una rossiniana di razza. Cosa significa per lei?
“Nei primi 15 anni della mia carriera ho frequentato il repertorio leggero di coloratura e ho interpretato numerose volte i ruoli di Rosina nel Barbiere e Fiorilla nel Turco. Poi nel 2005 è arrivata Semiramide a Livorno, Rovigo, Trento, Pisa e nel 2008 al Festival di Luberon e da allora ho iniziato a cambiare repertorio, dirigendomi verso il drammatico di agilità e concentrandomi maggiormente su titoli come Lombardi, Nabucco, Ernani, Corsaro, Traviata, Trovatore e Norma. Rossini è tornato in maniera prepotente nella mia vita nel 2015, quando l’Opera di Nizza mi ha chiesto una sostituzione all’ultimo minuto. Non potevo rinunciare alla mia amata Semiramide e così ho ristudiato l’opera in una sola notte! Proprio in quel momento mi hanno chiamata a Catania per Turco e poi a Bad Wildbad per il debutto ne L’Inganno felice. Lì mi sono trovata di fronte a un Rossini che non conoscevo, fatto non solo di belcanto, colorature e gare di agilità, ma anche di fraseggi e intenzioni molto ben definite. Così quando mi hanno proposto Elisabetta Regina d’Inghilterra a Sassari, ho deciso di studiarla a Pesaro, dove ho trascorso alcuni giorni durante il Festival approfittando della presenza di maestri collaboratori esperti del repertorio. In quell’anno ho dato tutta me stessa per arrivare ad esprimere la vera intenzione rossiniana e di questo devo ringraziare soprattutto Sabrina Avantario, Michele D’Elia, Antonino Fogliani e Jochen Schönleber. Poi nel 2017 c’è stato l’incontro con Gianluigi Gelmetti per Eduardo e Cristina e il mio modo di fraseggiare Rossini ha subito un ulteriore passo avanti, che ho potuto maturare anche con le successive Zelmira, Sinaïde in Moïse. Ringrazio di cuore i melomani e i critici che mi hanno dimostrato pubblicamente affetto definendomi una rossiniana di razza. Io ci tengo davvero molto, perché ho fatto della tecnica di canto le fondamenta della mia carriera, ma la tecnica non sarebbe nulla se non fosse corroborata di accento, fraseggio e intenzione. Così come in Verdi sono fondamentali l’uso della parola scenica e dell’accento drammatico per esprimere le sue emozioni, in Bellini l’uso del legato per diventare un tutt’uno con la melodia che sostiene il belcanto, in Rossini ho imparato che senza le variazioni, eseguite non per fare spettacolo, ma per chiarire, modificare o sottolineare un’intenzione, non è possibile interpretare il suo volere fino in fondo”.
[William Fratti] Nel 2019 lei ha aperto l’anno con Semiramide a Bilbao e lo ha chiuso con Macbeth nel circuito OperaLombardia. In quell’anno alcuni critici, sulla carta e alla radio, l’hanno definita un soprano assoluto. Quale è stata la sua reazione?
“Sinceramente mi sono commossa e non potevo credere alle mie orecchie. Io ho sempre assecondato il mio strumento, sostenendolo con esercizio costante e tecnica. Se soprano assoluto significa debuttare nel 1992 col barocco, trascorrere più di un decennio nel repertorio leggero da Adina e Amina alla Regina della notte, passare attraverso Traviata e Lucia per arrivare oggi a Nabucco e Macbeth, allora sì, posso essere d’accordo con questa espressione. Ma se ragioniamo per ciò che posso cantare oggi, sicuramente potrei ancora interpretare Fiordiligi, ma avrei alcune difficoltà con Donna Anna. Sinceramente al momento la mia voce si trova particolarmente a suo agio con i ruoli Colbran e il drammatico verdiano, pur desiderando tantissimo di tornare anche alle eroine donizettiane dalle tinte più scure”.
[Marco Faverzani e Giorgio Panigati] Rossini era un grande cuoco e anche i suoi social spesso ci mostrano delizie culinarie. A questo punto vogliamo la ricetta che crea una buona cantante! E perché no il suo cavallo di battaglia in cucina!
“Questa domanda è molto simpatica, nessuno ha mai menzionato la mia grande passione per la cucina, cercherò di non dilungarmi e inizio con gli ingredienti per la ricetta della grande cantante:
10 kg di tenacia,
2,5 kg di umiltà,
2 kg di autocritica,
2 kg di tecnica,
500 g di una voce di qualità,
1 g di lievito,
Un pizzico di intelligenza,
3 kg di sostegno familiare.
Amalgamare il tutto con cura e lasciare riposare a lungo per favorire la lievitazione stendendo su un piano ben accordato. Tagliare la parte secca intorno per non far intaccare l’impasto. Cuocere il tutto in un “palcorno” (il palco-forno, ndr) avendo cura di non bruciarsi. Gustare il piatto con le persone che ami. Il mio cavallo di battaglia culinario è la tecnica”.
[Margherita Panarelli] Come è stato tornare a cantare a luglio al concerto in ricordo di Carlo Bergonzi dopo le chiusure?
“È stato innanzitutto molto emozionante anche se faticoso perché durante questo lungo periodo ho deciso di dedicare il tempo alle passioni che ho sempre trascurato in questi anni. Amo molto cucinare, per esempio, ma anche godere di ciò che produce la terra quindi ho imparato a coltivarla impiegando gran parte delle mie energie giornaliere. La reclusione forzata è stata quindi meno pesante perché la natura è un palcoscenico meraviglioso che può dare soddisfazioni enormi. Il concerto dedicato a Bergozi mi ha riportato il calore del pubblico con lunghi e calorosi applausi. In quel momento mi sono resa conto che mi sono mancati molto.
Ogni tanto a fine giornata in tono scherzoso uscendo dall’orto tutta spettinata e struccata canticchiando qualche canzoncina con il mio cestino pieno di verdure vedevo sorridere i miei genitori che partivano in un applauso scrosciante, conservo anche molte foto divertenti e bizzarre rubate a mia insaputa di quei momenti. Sono riuscita in un momento così terribile per tutto il mondo a trovare uno scopo; per non lasciarmi abbattere, per non fermarmi mai e lottare sempre, perché la vita è una cosa meravigliosa qualunque cosa succeda e il mio lavoro di cantante è un privilegio per il quale essere grati ogni giorno”.