La Milano ottocentesca di Antonio Ghislanzoni
Il 24 dicembre del 1871, esattamente 142 anni fa, gli spettatori del Teatro khediviale dell’Opera del Cairo avevano la fortuna di udire per la prima volta in assoluto le note dell’Aida di Giuseppe Verdi: il libretto di quella che sarebbe diventata una delle opere più apprezzate del bussetano fu curato da Antonio Ghislanzoni, formatosi come baritono e poi divenuto in seguito poeta e scrittore. È stata proprio questa sua vena letteraria a spingerlo alla realizzazione di una breve storia della città di Milano, più precisamente nel periodo compreso tra il 1836 e il 1848 (la pubblicazione avvenne nel 1879). Si tratta di un affresco molto interessante e ispirato dall’esperienza diretta, in cui il mondo operistico milanese emerge in tutte le sue particolarità.
Sotto l’oppressura di una indigestione solennemente cattolica, io mi accingo ad un lavoro altrettanto grave che proficuo; a scrivere la Storia di Milano dall’anno 1836 al 1848. Voi tosto comprenderete che io scrivo dietro incarico di un editore, al quale preme, se non mi inganno, di aggiungere due nuovi volumi alle opere del Verri e del De-Magri, oggimai screditate completamente. Conviene adunque, che io raccolga i pensieri a capitolo – l’impresa è molto arrischiata, ma io solo conosco l’alta mercede che mi attende.
Comincia in questa maniera la storia di Ghislanzoni, il quale confessa il suo sconforto nel ricordare eventi avvenuti più di trent’anni prima (Questa riflessione mi fa incanutire venti peli della barba), ma allo stesso tempo deciso nell’essere piuttosto preciso e dettagliato.
Il primo riferimento all’opera riguarda i fogli teatrali, visto che nel periodo preso in esame registrarono un vero e proprio boom: Il Pirata, diretto da Francesco Regli, veniva letto in modo piuttosto avido, mentre Luigi Romani aveva istituito Il Figaro e Pietro Cominazzi La Fama (ancora attivo al momento della pubblicazione di Ghislanzoni). Perché soprattutto fogli teatrali? Il teatro rappresentava in quel preciso momento storico la principale preoccupazione di tutta la società colta, ma occorre sottolineare come ogni articolo venisse letto con attenzione e passione da quanti fossero capaci a farlo.
Il librettista dell’Aida, poi, si concentra sul melodramma e sui cantanti in generale. Giovanni Pacini era già dimenticato, mentre imperversavano Rossini, Bellini e Donizetti. La Scala metteva in scena in quel periodo i Falsi Monetari di Lauro Rossi, Il furioso all’isola di San Domingo di Donizetti e il Buontempone di Mandanici, composizioni cadute nell’oblio già nel 1879 e ancora oggi poco conosciute. Maria Malibran era morta e la Pasta stava abbandonando la scena, la nuova generazione di cantanti era dominata da Salvi, Moriani, Ronconi, la Tadolini, la Strepponi, Guasco e la Frezzolini. Ghislanzoni non può poi trascurare il grande successo del Nabucco di Verdi nel 1842, l’opera che lo consacrò definitivamente.
Non mancano alcune piccole descrizioni del teatro e delle abitudini degli spettatori. Nei palchetti della Scala si giocava a carte e i tarocchi erano molto di moda, qualche volta si cenava anche durante le rappresentazioni. Il teatro che conosciamo oggi è ovviamente molto più moderno di quello degli anni Trenta e Quaranta dell’800, visto che quasi due secoli fa le panche che si trovavano in platea era coperte da una tela piuttosto grande di colore giallo; inoltre, le scale erano prive di tappeti e la scena veniva illuminata in modo tetro dalle candele. I librettisti più ricercati erano senza dubbio Felice Romani, Rossi, Bidera, Salvatore Cammarano, Sacchero e Giorgio Giachetti.
L’orchestra del teatro scaligero era guidata da Alessadro Rolla, il cui successore fu Eugenio Cavallini: tra i migliori strumentisti, invece, figuravano Daelli all’oboe, Rabboni al flauto e il violoncellista Vincenzo Merighi, il quale prese a cuore le sorti del giovane Verdi e del suo Oberto. Molto interessante è la descrizione del Conservatorio di Milano. Ogni allievo doveva indossare una uniforme che non era tanto diversa da quella tipica dei commissari di polizia, cioè una marsina di colore verde scuro con i bottoni dorati e il cappello a forma di barchetta. I giovedì e le domeniche erano gli unici giorni di svago per questi giovani, ai quali veniva concesso di passeggiare sui bastioni e sul corso.
Per concludere la serie di aneddoti più interessanti, Ghislanzoni ricorda un fatto accadutogli quando era baritono: partito da Codogno (in provincia di Lodi) dopo una rappresentazione dell’Attila di Verdi, decise di scendere fino all’albergo dell’Ancora con indosso l’abbigliamento di Ezio, dunque l’armatura di antico romano, per prendervi poi alloggio. Nel suo “In chiave di baritono”, il librettista parla di altri episodi simili e delle condizioni difficili e avverse che incontrò in diverse località dello Stato Pontificio.