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Alla ricerca della voce verdiana

Terminati gli studi musicali arricchiti dalla pratica della declamazione e dell’arte scenica svolta con il multiforme attore riminese Luigi Domeniconi, nella seconda metà dell’800 il baritono livornese Enrico Delle Sedie divenne un celebre interprete di Nabucco, Rigoletto, Il trovatore, La traviata, e Un ballo in maschera. Eppure la sua voce era modesta. Così la recensì la “Gazzetta musicale di Milano” nel 1858: «la sua voce non è potente, ma ha tale dolcezza e pastosità che squisitamente si piega a tutte le modulazioni del canto e a tutti i colori della passione». All’epoca, libero dalle indicazioni di un regista, nel 1852 a Firenze, le competenze musicali e attoriali gli permisero di ottenere un trionfo nel Rigoletto. L’interpretazione personale lo fece emergere dai tanti che imitavano quanto fatto da Felice Varesi nel 1851 nella prima veneziana di quell’opera. Abbandonate le scene nel 1874, a Parigi si dedicò all’insegnamento. Nel suo L’arte lirica. Trattato completo sul canto e sulla declamazione del 1874 scrisse: «Il sentimento possentemente drammatico della musica di Verdi pone questo maestro fra i primi dei nostri tempi; i suoi contrasti hanno un colore locale di tanta verità, e sono sempre usati così a proposito, che il loro studio riesce di somma utilità per imparare a distinguere le grida piazzose dagli accenti veri ed espressivi; egli è robusto e incisivo, ma per certo non ha mai desiderato il fragore insensato col quale molte volte si eseguono i suoi lavori». Nelle Riflessioni sulle cause della decadenza della scuola di canto in Italia del 1881, sottolineò: «Sembrami dunque che il dovere dei maestri di canto sia quello di dare all’arte melodrammatica forza vivificatrice, iniziando gli alunni non solo alla limpida emissione della voce, ma eziandio allo studio di quelle inflessioni del suono vocale, per mezzo delle quali ogni passione ed ogni sentimento riceve una espressione particolarmente appropriata, e veste un colore speciale che quasi direi qualificativo. Oggi non si tratta di formare un semplice cantante, vuolsi ottenere un artista completo», il cantante-attore desiderato da Verdi. Seguì Liberio Vivarelli che affermò nel suo Ancora della decadenza dell’arte del canto, delle sue cause e del metodo di provvedervi del 1889: «Quando il Verdi incominciò a scrivere della musica dalla quale i passi d’agilità erano quasi affatto sbanditi, tranne che per i soprani, che per i ritmi semplici e marcati che vi dominavano e per la natura della melodia riusciva facile ad apprendersi ad orecchio dopo poche udizioni, l’espressione della quale non di rado veemente e concitata poteva essere da tutti facilmente compresa e riprodotta, si credé che per eseguire quella musica bastasse avere voce, orecchio sicuro ed una certa dose di sentimento, e che lo studio lungo ed accurato solito a farsi per quella degli altri maestri della scuola italiana fosse per questa inutile e fuor di luogo. Si aggiunga che l’accompagnamento usato dal Verdi nelle sue prime opere è spesso fragoroso, e ciò incoraggiò sempre più i cantanti ad affidarsi principalmente alla forza dei polmoni, trascurando ogni finezza, ogni maniera particolare del cosiddetto bel canto. Di qui un modo di cantare rozzo e sforzato e la ricerca studiata degli effetti volgari». A distanza di trentasette anni Vivarelli confermò il persistere di un errato approccio dei cantanti alle opere di Verdi, approccio già denunciato nel 1852 sulla “Assemblée Nationale” di Parigi dal compositore e critico musicale Adolphe Charles Adam: «Ecco i torti che io non gli perdonerò mai: è di aver concepito le sue opere in un sistema tale che quelli che non sapevano cantare saranno sempre i più adatti ad eseguirle bene, alla sola condizione di avere molta voce nelle note elevate».

Giuseppe Verdi

Ma quanto avvenne, e continua ad avvenire oggi, non fu responsabilità di Verdi che lamentò la situazione più volte. Un esempio sono le parole scritte a Ricordi il 25 marzo 1875: «da parte mia dichiaro che mai, mai, mai nissuno ha mai potuto e saputo trarre tutti gli effetti da me ideati. NISSUNO!! Mai mai, né Cantanti né Maestri!!», nonostante la sua evoluzione artistica fosse conosciuta da tempo. Il critico del giornale “Italia musicale” (di proprietà dell’editore Lucca, il concorrente di Ricordi) la descrisse nel marzo 1853: «La traviata è la migliore o almeno la più progressiva delle opere moderne perché a noi assistendo a quest’opera ne par come d’assistere al dramma stesso di Dumas, tanto che non sembra nemmeno musica. D’ora innanzi per opera di Verdi si andrà al teatro d’opera con quella medesima disposizione con cui si va al teatro del dramma. Verdi è inventore di un nuovissimo genere di musica, egli ha moltiplicato i suoi mezzi e vuole che essa sia capace di esprimere non solo i pensieri e i sentimenti in generale, ma anche tutte le loro modificazioni». Con Traviata, Verdi realizzò la fusione dell’opera con il dramma parlato senza sacrificare alcuna delle caratteristiche musicali che donano fascino al melodramma. L’artista, quindi, dovrebbe riconoscere e valorizzare le due concezioni della musica lirica che si sono affrontate per i due terzi dell’800: da una parte la musica definita «filosofica» per l’attenta adesione alla parola, dall’altra il culto del bello ideale del canto ornato e della morbidezza della voce.

Giuseppe Verdi

È lo stesso Verdi che indica al cantante la strada per penetrare e padroneggiare la sua arte. Il 20 febbraio 1871 scrisse al senatore Giuseppe Piroli: «Pel cantante vorrei: estesa conoscenza della musica; esercizi sull’emissione della voce; studi lunghissimi di solfeggio come in passato; esercizi di voce e parola con pronunzia chiara e perfetta. Poi, senza che un maestro di perfezionamento gli insegnasse le affettazioni del canto, vorrei che il giovane forte in musica e con la gola esercitata e pieghevole cantasse guidato solo dal proprio sentimento. Non sarebbe un canto di scuola, ma d’ispirazione. L’artista sarebbe un’individualità; sarebbe lui, o meglio ancora, sarebbe nel melodramma il personaggio che dovrebbe rappresentare». Fra le righe è sottointesa un’indicazione importante. Il bravo attore è colui che recita una frase, drammatica o comica, rispettando il suo ritmo, porgendola al pubblico al momento giusto. Una velocità errata, un’anticipazione o un ritardo la renderebbero inefficace. Ugualmente bravo è il cantante che pone attenzione alle indicazioni metronomiche che Verdi iniziò a indicare dall’Attila, a volte scrivendole su un foglio a parte, a volte autorizzando l’inserimento tramite lettera, spesso in partitura. Indicazioni che introducono alla comprensione dei caratteri generali dei brani ma che il cantante, come Verdi scrisse in testa al suo Te Deum, «in certi punti per esigenza di espressione e di colorito converrà allargare o stringere, ritornando però sempre al primo tempo». Quando un cantante con una tecnica perfetta, con una voce in ordine, anche se non di ampia sonorità, analizzerà lo spartito assorbendo le indicazioni originali, costruirà lo scheletro della sua esecuzione. Solo allora la sua sensibilità ed eleganza potranno dare vita al corpo, alla sua «individualità» e, come il baritono Delle Sedie, emergere sui tanti. E quando il pubblico l’ascolterà senza ricercare in esso l’imitazione degli artisti del passato, allora potrà comprendere quella «individualità» e apprezzare la scoperta di un’altra “voce verdiana”.