Opere dimenticate: “La maschera” di Dominiceti
Sopra un aneddoto, realmente accaduto, è fondato il presente Giocoso Melodramma: è uno scherzo, e come tale, senza pretensione di sorta, si presenta e raccomanda all’indulgenza del colto Publico.
Esordisce in questa maniera Francesco Guidi nel suo libretto per “La maschera”, melodramma giocoso in tre atti messo in musica dal compositore Cesare Dominiceti: la prèmiere di quest’opera risale al 2 marzo del 1854, esattamente 160 anni fa, quando La Scala di Milano accolse in maniera a dir poco sfavorevole il quarto lavoro del musicista di Desenzano del Garda. È una delle tante opere dimenticate della lirica, il suo immediato insuccesso ha contributo senza dubbio all’oblio, cerchiamo ora di capire se il giudizio di allora può essere rivisto ai giorni nostri.
Le cronache dell’epoca ci raccontano di una caduta clamorosa nel debutto milanese e di un Dominiceti eccessivamente ancorato allo stile musicale di vent’anni prima, un compositore che non si era evoluto insomma. L’anno della prima rappresentazione è fondamentale per comprendere il tutto. Nel 1854 Giuseppe Verdi ha appena terminato quella che viene considerata la sua “trilogia popolare” (“Rigoletto”, “Il trovatore”, “La traviata”) e il genere buffo e giocoso non ha più molto spazio e seguaci. L’intreccio del libretto de La maschera conferma una predilezione dell’autore per gli equivoci e le situazioni tipiche delle opere di Rossini, una scelta ritenuta obsoleta persino quindici anni prima.
Il parallelo con “Un giorno di regno” dello stesso Verdi è inevitabile: il cigno di Busseto la fece rappresentare alla Scala nel 1840 e il fiasco della prima fu per lui un brutto colpo. Quattordici anni dopo Dominiceti vive un’esperienza per alcuni tratti simile. Quella sera di 160 anni fa i maestri al cembalo erano lo stesso Dominiceti e Giacomo Panizza, mentre il primo violino era Eugenio Cavallini, molto noto all’epoca. Per quel che riguarda il cast, poi, Fernando fu interpretato da Atanasio Pozzolini (tenore che aveva preso parte anche alla prima de “I due Foscari” di Verdi), Irene (soprano) fu invece Rosalia Gariboldi-Bassi, oltre a Felicita Bailou (Donna Ilaria), Maurizio Borella (Don Prosdocimo), Giovanni Guicciardi (Cesare) e Orsolina Bignami (Lisetta).
La trama è presto detta. La scena è ambientata a Venezia nel periodo del Carnevale. Fernando e Irene sono sposi da poco tempo e in casa loro giunge Cesare, vecchio amico di Fernando e capitano di un bastimento mercantile. Irene, sua zia Donna Ilaria e il cassiere di casa Don Prosdocimo sospettano che il fresco sposo nasconda un mistero. Lisetta, la cameriera, confessa che in effetti è stato visto fare il damerino alle feste e consiglia a Irene di indagare mascherata. Cesare e Fernando ricordano i bei tempi di quando erano giovani e buontemponi, sono ancora pronti a divertirsi: i due corteggiano proprio Lisetta e Irene senza riconoscerle e i sospetti sono fondati. Irene sta però al gioco e dà appuntamento allo spasimante al veglione di mezzanotte.
In realtà Cesare sta organizzando uno scherzo al suo amico e si accorda con Irene per un piano che lo metta in ridicolo. Si festeggia con un gran ballo a teatro e lo stesso Cesare fa credere a Fernando che la donna misteriosa lo ami. L’incontro avviene e Fernando confessa tutto il suo amore, Irene fa lo stesso e nel tripudio generale della festa svela la sua identità. Fernando è mortificato, ma viene comunque perdonato dalla moglie. Una storia piuttosto “povera”, non succede granché e il colpo di scena finale non entusiasma più di tanto come avveniva con il tipico crescendo rossiniano. Il pubblico milanese non apprezzò tutto questo e il fiasco fu assicurato, anche perché il personaggio di Cesare si comporta in maniera a dir poco inspiegabile.
Fatto sta che dovranno passare ben diciannove anni prima che Dominiceti si avventuri di nuovo nel campo dell’opera lirica (nel 1873 al Dal Verme di Milano con “Morovico”). Non è casuale nemmeno la “fuga” in Sudamerica proprio a poca distanza di tempo da questa prèmiere sfortunata: il compositore desenzanese si unì a una compagnia come maestro concertatore e fece fortuna in Bolivia grazie a una miniera di stagno, un’attività che durò ben diciotto anni e che gli consentì di accumulare un patrimonio economico molto interessante. Nel 1881, infine, verrà chiamato a tenere la cattedra di composizione del Conservatorio di Milano, ruolo che gli consentì di assicurarsi la stima dei colleghi e degli allievi. Morirà a Sesto San Giovanni sette anni più tardi.