Interviste

I 100 anni di Carlo

Un ricordo d’amore per Carlo Bergonzi, con Stefano Secco, Sarah M’Punga, Francesco Congiu, Miriam Damiani al pianoforte e la partecipazione di Marco Faelli e Dino Rizzo, a cura di William Fratti

Carlo Bergonzi, il “miglior tenore verdiano del XX secolo”
di Dino Rizzo ©

Il 13 luglio 1924, cento anni fa, nacque Carlo Bergonzi, definito dalla critica internazionale «Principe fra i Tenori e miglior Tenore verdiano del XX secolo». Riconoscimento attribuitogli il 10 ottobre 2000 alla Royal Festival Hall di Londra. Definizione che possiamo comprendere con l’aiuto dello stesso Giuseppe Verdi. Innanzitutto con le parole «torniamo all’antico e sarà un progresso» che il 5 gennaio 1871 Verdi scrisse a Francesco Florimo, il direttore della biblioteca del conservatorio di Napoli. Parole a cui oggi si assegna erroneamente un significato politico, ma che in realtà sono un consiglio didattico. Ai giovani studenti che allora si abbandonavano ciecamente alle forme operistiche e sinfoniche francesi e tedesche, Verdi suggerì prima di studiare e padroneggiare le passate tradizioni musicali italiane e poi, tramite la loro rielaborazione, costruire il proprio stile compositivo. E Bergonzi così fece: sviluppò una tecnica eccelsa rifacendosi alle tradizioni belcantistiche che Verdi descrisse al senatore Giuseppe Piroli il 20 febbraio 1871: «Pel cantante vorrei: estesa conoscenza della musica; esercizi sull’emissione della voce; studi lunghissimi di solfeggio come in passato; esercizi di voce e parola con pronunzia chiara e perfetta». Tecnica che permise a Bergonzi di ottenere risultati eccellenti non solo nei melodrammi di Verdi ma anche in Lucia di Lammermoor e nell’Elisir d’amore di Donizetti, nelle opere di Ponchielli e Boito, oltre a Catalani e Puccini. A Bergonzi calzano perfettamente le caratteristiche del cantante verdiano descritte da Filippo Coletti, il baritono che Verdi richiese più volte negli anni Quaranta e Cinquanta del’800. Coletti le evidenziò nel suo trattato La scuola di canto in Italia (1880): «Gli artisti della scuola passata, cioè quelli da Rossini a Verdi, avevano educato il loro pubblico al sentimento del bello nel giusto limite della natura. Essi pure ottenevano effetti stupendi per sonorità, ma senza stento. Il loro metodo saggiamente ragionato li conduceva a poco a poco alla più grande espansione di voce; e colla fusione de’ suoi vari registri riuscivano a poterla vibrare, crescere e diminuire in tutti i gradi della scala vocale, senza bisogno di adoperare sforzi e contrazioni muscolari». Al contrario, non possiamo abbinare a Bergonzi l’immagine del cantante che secondo Liberio Vivarelli era il simbolo della rovina del canto italiano che possiamo leggere nel suo Ancora della decadenza dell’arte del canto (1889): «Quando il Verdi incominciò a scrivere si credé che per eseguire quella musica bastasse avere voce e che lo studio lungo ed accurato solito a farsi per quella degli altri maestri della scuola italiana fosse per questa inutile e fuor di luogo. E tutto ciò incoraggiò i cantanti ad affidarsi principalmente alla forza dei polmoni, trascurando ogni finezza, ogni maniera particolare del cosiddetto bel canto. Di qui un modo di cantare rozzo e sforzato, la ricerca studiata degli effetti volgari ed insieme una incertezza costante nei mezzi da adoperarsi».

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Altro frammento che aiuta a comprendere il significato della definizione «il miglior tenore verdiano» sono le parole che Verdi scrisse a Ricordi il 25 marzo 1875: «da parte mia dichiaro che mai, mai, mai nissuno ha mai potuto e saputo trarre tutti gli effetti da me ideati, NISSUNO! Mai mai, né Cantanti né Maestri!». Ancora una volta Verdi ci riconduce all’antico, al belcanto, quando il termine aria descriveva ottimamente l’essenza libera della musica ridotta a sentimento puro, in cui il virtuosismo doveva commuovere attraverso un’esecuzione musicale ricca di continue inflessioni dinamiche. Bellini così la descrisse nella lettera del maggio 1834 a Carlo Pepoli, il librettista de I Puritani: «il dramma per musica deve far piangere, inorridire, morire cantando». E Rossini, nella lettera del 26 agosto 1868 al critico musicale Filippo Filippi: «L’imitazione è delle arti figurative, l’arte musicale italiana, in particolare se vocale, era ideale ed espressiva: i sentimenti del cuore si esprimono e non si imitano». Chiudiamo le citazioni tornando a Verdi. Il 20 ottobre 1876 scrisse a Clara Maffei: «copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio, molto meglio». Per il cantante verdiano, quindi, si tratta non solo di rispettare tutte le indicazioni presenti nelle partiture, ma di dominare la tecnica e controllare la propria sensibilità artistica, comportamenti necessari per far emergere il personaggio creato da Verdi e far rivivere agli ascoltatori tutti i suoi stati d’animo. Un esempio è l’interpretazione dell’aria “De’ miei bollenti spiriti” da Traviata, nella versione registrata da Bergonzi nel 1963 per la Decca, insieme a Joan Sutherland e Robert Merril con l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino diretta da John Pritchard. Innanzitutto abbiamo il rispetto dell’indicazione metronomica verdiana che dà origine ad una esecuzione più lenta, capace di far emergere la serena felicità di Alfredo che per Violetta nutre un amore puro, svincolato dall’attrazione fisica sollecitata dal «giovanile ardore». Sentimento negato da una esecuzione più veloce, perché crea l’immagine di un amante sottomesso al suo istinto giovanile. Immagine non rispettosa della poesia di Piave e della musica di Verdi. È affascinante come Bergonzi sottolinea il disprezzo di Alfredo per le «pompose feste» e come di Violetta accarezza la «sua bellezza». È coinvolgente nel manifestare la rinascita di Alfredo «dal soffio d’amor rigenerato». Bergonzi è poi magistrale nelle due salite all’acuto alle parole «dell’universo immemore». Acuti che Verdi desidera eseguiti in due modi diversi: il primo con voce forte e il secondo con voce fortissima. All’ascolto si ha la percezione dell’amore puro di Alfredo che da lui, piccolo uomo sulla terra, si espande sempre più a ventaglio verso l’universo immenso che non ha alcun interesse per il passato di Violetta. Al contrario, lo sfumato delle note finali alle parole «io vivo quasi in ciel» sembra che Bergonzi voglia comunicarci che l’universo immenso ora vive in Alfredo.

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Arena di Verona, Aida, Carlo Bergonzi con la moglie Adele e i figli Maurizio e Marco

Sembra un paradosso, ma Carlo Bergonzi, sottomettendo se stesso a favore dei personaggi creati da Verdi, trovò se stesso, entrando meritatamente nella storia del melodramma. Oltre alle innumerevoli registrazioni, lo testimoniano le presenze costanti, acclamate dal pubblico e apprezzate dalla critica, all’Arena di Verona (dal 1958 al 1974), al Teatro alla Scala (dal 1953 al 1967). Ma soprattutto lo testimoniano le oltre 300 presenze al Metropolitan di New York in cui debuttò nel 1956 e vi ritornò fino al 1983, e presso il Teatro dell’Opera di Vienna dove conquistò il pubblico nel 1959 e dove tornò fino al 1988.

foto 1: Carlo Bergonzi con i figli Maurizio e Marco nella loro casa di Milano (Archivio Famiglia Bergonzi, © riproduzione riservata)
foto 2: Metropolitan Opera House di New York, Un ballo in maschera (Archivio Famiglia Bergonzi, © riproduzione riservata)
foto 3: Arena di Verona, Aida, con la moglie Adele Aimi e i figli Maurizio e Marco (Archivio Famiglia Bergonzi, © riproduzione riservata)