Intervista a Ricci/Forte
Stefano Ricci e Gianni Forte, autori e registi tra i più apprezzati, chiacchierati ma anche criticati della scena teatrale contemporanea. Come nasce il vostro sodalizio artistico? Provate a descriverci le vostre “affinità elettive”, se ci sono le vostre divergenze e in generale le linee guida del vostro percorso artistico.
Come spesso si dice, è dalle coincidenze che nascono le occasioni della vita. Il nostro è stato un incontro inatteso, forse predestinato: i meridiani, che tracciano linee sul pianeta, hanno fatto sì che si estendesse un ponte ferreo e solido dal punto Ricci al punto Forte. Accade così che, anni fa, Stefano e Gianni si conoscono al Teatro Biondo di Palermo, approdati agli inizi di un percorso artistico.
Nasce lì un sodalizio che ci ha visti alla fine degli anni 90 autori di fiction televisive mainstream di successo, per poi esordire nel 2005 fondando il nostro performing arts ensemble, con lo spettacolo TROIA’S DISCOUNT, dove collaudiamo una volontà di procedere seguendo rotte poco abitate: distillare la società di oggi tenendo gli occhi aperti sulla condizione umana, la malattia, la sofferenza, la morte; continuare a guardarci intorno per precisare sempre meglio la ricerca di un battito contemporaneo coniugandolo con un linguaggio onirico.
Il Teatro è stata una direzione irrimediabile, considerati i filtri delle pupille che ci costringevano già nella vita di tutti i giorni ad affrontare il presente attraverso una visione personale in cui il valore etico della Fantasia venisse considerato un’arma da fuoco per crivellare di colpi il grigio dell’omologazione.
Fin dagli esordi attraversati da dubbi continui e mai paghi delle soluzioni che di volta in volta bussano alla porta, lavoriamo spalla a spalla e a quattro mani per la drammaturgia testuale, mentre il lavoro con gli attori, le visioni e la regia degli spettacoli è competenza esclusiva di Stefano.
Benché due esecuzioni della stessa sonata, legati da matrici e disinteressi comuni, il tandem ricci/forte è composto da due persone ben distinte, il cui valore è proprio quello del confronto, del contrasto, delle visioni diametralmente opposte. Uno sliding doors in cui, però, cambiando gli addendi, il risultato non cambia mai; fiducia incondizionata reciproca. Tutto ciò ci ha permesso di analizzare ogni singolo fremito che sia funzionale alla forza espressiva richiesta, di deragliare dall’autocompiacimento, di spostare l’asse di questo infernale sistema autocelebrativo imperante sia nel teatro classico che in quello considerato “di rottura”. Un tentativo sanguinoso di voler innestare il reale con un’attività rivoluzionaria di “terrorismo poetico” rendendolo più autentico dello spaccio umano che vogliono farci credere.
Il vostro debutto nel mondo dell’opera lirica avviene nel 2015 a Spoleto con lo spettacolo “A Christmas Eve”, prima esecuzione assoluta commissionata, nell’ambito del progetto “Opera nova”, dal Teatro Lirico Sperimentale. Raccontateci questa esperienza: come si è intrecciato il vostro percorso con il mondo dell’opera? Come avete sviluppato, nella duplice veste di drammaturghi e di registi, una tematica estremamente delicata e scabrosa come l’abuso sui minori?
Ogni creazione ha una genesi individuale che segue percorsi orfici. È un viaggio all’interno di noi stessi. La materia messa in gioco appartiene ad una sfera intima, privata. La trasfigurazione artistica che viene elaborata è un lungo processo, fatto di illuminazioni e battute d’arresto. Non ci preoccupiamo dell’arrivo o della destinazione finale: lasciamo fluire le nostre esperienze, le nostre mancanze e ci fidiamo dei nostri cuori. Prima di essere artisti, siamo artigiani delle nostre proiezioni. Bandita ogni idea di rappresentazione, la tensione è nel trovare il peso specifico dello sguardo, verbale o visivo. La ricerca che facciamo sul linguaggio tenta di catturare il contemporaneo inespresso: un’indagine, concettuale, politica o estetica che sia, deve scavare nelle piaghe, provocarne; deve costituire un pericolo, illuminare a giorno come un bengala nella notte. Ecco perché le nostre ossessioni febbrili, fondamenta dei rapporti interpersonali e della resistenza ad un livellamento oscurantista, sono radiografate nella struttura linguistica.
Di conseguenza, il lavoro di regia sprigiona l’aspetto visionario del verbo, l’apparato onirico dello sforzo emotivo di stringere i denti, la grammatica fisica di uno scheletro parlante che si oppone. Il senso di disperante disagio viene organizzato come un rito tribale o un caos senza bussola… come nella traversata avvincente che è stata A CHRISTMAS EVE (Opera a 4 voci e lisoformio), nostro debutto assoluto nella lirica nel 2015, libretto e drammaturgia di ricci/forte, regia di Stefano Ricci. Un argomento scottante, ruvido. Un caso di abuso da parte di un padre sulle sue due figlie minorenni, rivissuto anni dopo in modo diverso dalle vittime. Essendo subentrato un dialogo imprescindibile con una terza persona, un compositore vivente, per questo lavoro le nostre modalità di creazione per la prima volta sono cambiate: Andrea Cera ha elaborato una partitura musicale dolorosa e deflagrante (in cui fanno capolino suoni onomatopeici, vento, frastuoni, sgocciolii artigianali prodotti con acqua, imbuto e bottiglia, oltre naturalmente agli strumenti orchestrali tradizionali) in sintonia con la nostra scrittura martellante (in cui riverberano interferenze, combines di rauschenberghiana memoria, assemblaggi di objet trouvé e citazioni testuali come, per esempio, quella di un famoso ritornello di Odio L’estate, omaggio a Bruno Martino) a cui poi si è aggiunta l’inedito canone cantato delle parole.
Nel 2017 avviene l’incontro a Macerata con il repertorio lirico di tradizione: Turandot di Giacomo Puccini (spettacolo che vi è valso, tra l’altro, il riconoscimento del Premio della Critica Musicale “Franco Abbiati” 2018 come migliore regia). Una lettura lontana dalle tradizionali cineserie, ricca di rimandi alla dimensione psicoanalitica e ai simbolismi: come si è sviluppata l’idea di questo spettacolo e quali sono stati i messaggi che avete voluto esprimere per raggiungere lo spettatore?
Nell’epoca della modernità liquida, come la definisce Bauman, dove lo scenario delle relazioni muta in continuazione per l’estrema fragilità dei legami umani, assumiamo di diritto l’identità di vuoti a perdere, anelanti un legame e prepotentemente terrorizzati dagli obblighi che esso comporta. Ecco perché con TURANDOT abbiamo voluto raccontare una moderna fiaba noir, sospesa in una bolla psicanalitica e visionaria, di una principessa di un regno raggelato, capricciosa burattinaia sanguinaria che, per paura di diventare adulta, vive in un perenne stato di adolescenza usando i suoi ministri e la corte come un nuovo giocattolo a disposizione. Grazie all’amore, alla fine, questa ragazzina viziata riuscirà a disgelare il suo cuore trasformandosi così in una donna libera di oggi, non più prigioniera delle sue paure di responsabilizzarsi. Anche un’opera lirica come TURANDOT, alla pari di una performance teatrale, ti permette di seminare dubbi e interrogativi più di qualunque reportage, spingendo lo spettatore a riaccendere ognuno dei suoi sensi per ristabilire la giusta connessione tra Uomo, Cultura e il tempo che vive.
Sempre con riferimento a Turandot, ricordiamo che la stesso allestimento è stato proposto nell’ambito del festival estivo allo Sferisterio di Macerata: quali sono le opportunità che può offrire uno spazio all’aperto? Quali sono le sfide che devono essere affrontate nello realizzare uno spettacolo in un contesto diverso dal teatro d’opera di tradizione?
Nello straordinario teatro Sferisterio di Macerata dove, TURANDOT ha debuttato nel 2017, il fronte scenico di 90 metri di lunghezza, unico al mondo, rispetto ad un teatro chiuso all’italiana, consente agli addetti ai lavori di sbizzarrirsi in voli pindarici creativi e, nello stesso tempo, dà allo spettatore l’impressione di conquistarsi una visione maestosa, stereoscopica, e, come per magia, a farne parte attivamente e da più angolature.
Nel 2018 a Palermo, è la volta del dittico Die Glückliche hand (La mano felice) di Schönberg e Le Château de Barbebleu (Il castello del principe Barbablù) di Bartók. Cosa significa affrontare in una medesima serata due composizioni autonome ed indipendenti tra loro? Quali sono stati gli elementi di connessione da voi ideati che hanno reso possibile l’esecuzione come una rappresentazione unitaria? E quali, di contro, gli elementi che hanno caratterizzato specificatamente ogni singolo pannello di questo dittico?
Questo dittico è un viaggio visionario verso la Notte nel vano tentativo di porre fine alla solitudine. L’itinerario vitruviano di una dissonanza, l’Uomo, che irrazionalmente affronta la Natura lucreziana per cercare di smantellare la pietrificazione della Forma, seguendo le briciole lasciate da Schönberg (LA MANO FELICE) e restandone vittima, si tramuta in un’esplorazione interiore in fondo all’anima, una spirale di processi psichici nei quali Bartók (IL CASTELLO DI BARBABLÙ) azzanna alla gola il tempo contemporaneo in questa nostra epoca di massificazione della cultura, di perdita di riferimenti relazionali e col mondo esterno. All’ombra della morte imminente non di un Uomo singolo, ma di un’intera Umanità, un horror in piena luce, una sottrazione di coscienza per scendere a patti con i fantasmi e i rimorsi di una esistenza da falena: di rincorrere l’ennesimo applauso, di affidarsi ciecamente al prestigio sociale e a un’altra persona per colmare il vuoto che ci abita; l’Uomo, creatura straordinaria ed enigmatica, tenta da millenni strategie di comunicazione con l’universo femminile, la Donna, ultima landa inespugnata da conquistare nell’approccio cognitivo.
Schönberg e Bartók palesano lo stesso enigma privo di risposte appropriate: dove affonda questa incapacità relazionale, questo attrito dettato da linguaggi differenti tra Uomo e Donna? E se è vero che l’universo Uomo e l’universo Donna sono interdipendenti, come lo Yin e lo Yang, pur non potendo coesistere l’uno senza l’altro, cosa resta alla fine del giorno dopo un viaggio di conoscenza speso lungo l’intera esistenza? E da dove germina questa frattura? Il circo, le sue visioni da luna park anni 30 (periodo storico in cui il parco divertimenti era inteso come luogo di esposizione di orrori della Natura) diventano per noi metafora del viaggio intrapreso laddove non si è costretti ad andare in profondità ma obbligati a leggere il luccichio superficiale e l’acclamazione generale intesa come numero prodigioso da esibire in pubblico. Uomini, noi, vincenti nel sociale ma sconfitti nell’intimo, siamo stati indotti sin da bambini a trasformarci in un numero da baraccone: applausi, glitter e lustrini sotto la luce dei riflettori, lasciando cadere il buio e un sipario stinto sulle difficoltà sottopelle. Attraverso LA MANO FELICE e IL CASTELLO DI BARBABLÙ viene così innescato proprio questo meccanismo: un gioco dove il corpo, uno, prova a dividersi in due o a moltiplicarsi per spaccarsi, rinsaldarsi ed esplodere nei mille frammenti della sua solitudine. In questa steppa desolata di effimero, laddove le relazioni sentimentali e interpersonali sono mediate dal Potere, i protagonisti di entrambe le opere si perderanno.
Nell’ambito del “Festival Verdi di Parma” 2019 vi viene affidato il progetto registico di uno dei titoli più amati del grande repertorio verdiano “Nabucco”. Lo spettacolo viene ambientato in un futuro distopico e la vicenda ha luogo per lo più in un cacciatorpediniere. Numerosi i rimandi alla nostra contemporaneità, il legame con il mare (fonte di vita, ma anche di morte) e ancora l’importanza della cultura classica. Quali sono i temi che avete voluto rappresentare e sviluppare nel vostro racconto della vicenda del re babilonese? Come è stato il vostro incontro e successivo scontro con un pubblico estremamente conservatore, come quello parmigiano, che vi ha riservato un’accoglienza contrastata a differenza della critica che è stata ampiamente entusiasta?
Da quando NABUCCO ha debuttato il 9 marzo 1842 al Teatro alla Scala di Milano, paradossalmente niente è cambiato rispetto ad oggi nel nostro Paese “sì bello e perduto”. E noi non siamo cosi differenti dai dittatoriali Nabucco e Abigaille. Dal momento che non ci interessava fotografare l’attualità, creando e plasmando con la plastilina della fantasia, turbina intorno alla quale siamo avvoltolati, abbiamo posto una lente d’ingrandimento su come potremmo diventare in un imminente futuro prossimo. Nell’atemporalità del Mito in cui aleggia un fondale cupo di catastrofe, s’intrecciamo temi come l’esilio, la violenza incancellabile dell’irrazionalità e del dispotismo, l’opportunismo esteriore e la religione vera, l’allegoria sul conflitto tra diverse culture, il disadattamento e l’adattamento dei popoli a circostanze apparentemente libere ma in realtà ingannatrici.
Da TROIA’S DISCOUNT (2005), fino ad arrivare a NABUCCO (2019), abbiamo sentito impellente la necessità di frantumare le regole imposte per recuperare una grammatica più vicina alle nostre istanze espressive. Un tracciato che si alimenta ogni giorno, monitorato dall’impegno di restituire a questo mestiere una valenza il meno possibile virtuosistica, per tenere lontana una vita “amministrativa” che purtroppo si rintraccia come un canto delle Sirene nel panorama teatrale italico.
Come stabilire la curva di crescita di un individuo, di un artista o di qualunque altra forma biologica? E’ la storia di una liberazione, di un processo verso una riappropriazione del Se. In questa incessante ricomposizione del Tangibile, combattendo le apparenze di un luogo – il teatro d’opera – artificioso e codificato per statuto, abbiamo tentato di dare respiro e sostanza all’impalpabile, a quelle interconnessioni con la Natura che ci hanno rivelato una presenza scenica differente, una dimensione ctonia che lega l’Uomo, prima che il Creatore, alle energie sismiche, in continua relazione con cielo e terra, Dei e Radici.
E non si tratta di teatro di ricerca, o d’enfants terribles; non è avanguardia sperimentale, o moda pop. È solo e unicamente il senso del Teatro: i Greci lo hanno fatto prima di tutti gli altri. L’arte ha bisogno di allacciarsi alle sollecitazioni di un tempo che si trasforma, si corrompe, si rivoluziona. Sarebbe ridicolo attestare una creazione su format forse adeguati per il passato ma che adesso risuonano ostinatamente anacronistici. Il puro intrattenimento, gli allestimenti tradizionali da wall-paper theatre diventano documentari di Quark di un passato che non passa. Anche un tempo si immaginava che il mondo si fermasse alle colonne d’Ercole. Poi la Storia ci ha rivelato trattarsi di mancata conoscenza. Le eventuali perplessità verso una grammatica espressiva “altra” sono dettate da un incancrenimento biotico, insito in un alveo che soffre inesorabilmente di un Medioevo culturale. Il Teatro oggi si fonde con ogni possibile elemento attinto da altre discipline spazzando via qualunque accezione rivoluzionaria, lasciando intatto – lentamente anche nel pubblico più conservatore – l’idea di trovarsi di fronte a qualcosa che trascende la provocazione e la trasgressione, a favore della ricerca di una purezza individuale raggiungibile solo attraverso un percorso di autentica messa in gioco di sé, senza alcuna ipocrisia borghese. Se gli obsoleti manichei preferiscono fermarsi all’epidermide, è la conferma che gli sciocchi non guardano alla Luna ma al dito che indica l’astro argenteo.
Nel vostro prossimo futuro, a novembre, è previsto Marin Faliero nell’ambito del “Festival Donizetti” di Bergamo. Potete anticiparci qualcosa di questo progetto? Pensate che si possa realizzare nonostante l’attuale situazione sanitaria?
Sarà un viaggio suggestivo e di esplorazione di mondi differenti e labirintici alla Escher, dedali di solitudine generati dal senso di colpa che ammanta i protagonisti della vicenda. Non possiamo svelare altro del progetto MARINO FALIERO che, incrociando le dita, debutterà il 21 Novembre 2020 (con repliche il 27 novembre e 7 Dicembre) al Festival Donizetti di Bergamo, con la direzione artistica di Francesco Micheli, e un quartetto di eccellenze come Alex Esposito, Javier Camarena, Francesca Dotto e Bogdan Baciu.
Cosa pensate del blocco che ha fortemente limitato tutto il mondo della cultura? Nell’ambito dell’emergenza covid-19, il mondo della cultura francese e quello italiano si stanno comportando in modo diverso? Ma soprattutto reagiranno in modo diverso?
Dagli inizi di marzo al 15 giugno 2020 (per quanto riguarda l’Italia) un incantesimo malefico, come nelle fiabe più crudeli, ci ha congelati tutti e portati a fare i conti con un ribaltamento totale della nostra propria storia di esseri umani. In seguito al lockdown e all’emergenza sanitaria del Coronavirus che ha colpito il mondo intero, che ci fa percepire noi stessi e gli altri in costante diffidenza, costringendoci a coprirci il viso e rimanere distanziati, il mondo della cultura ha vissuto e continua a vivere giorni sospesi ad una pericolosa situazione di stallo. Tanti mesi di disoccupazione, troppi. Con un’emergenza economica globale in atto, non c’è nessuna presa di posizione da parte del nostro Ministero, del Governo e delle grandi istituzioni, che tuteli seriamente e concretamente la dignità degli artisti. Solo promesse inconsistenti. L’unica cosa che hanno saputo dirci è che ciò che il protocollo sanitario permette: rielaborazione degli spazi, mantenere la distanza di sicurezza. Manca un’idea del futuro. Cosa succederà? Non siamo rocce isolate in mezzo all’oceano. Ci sono state e continuano a esserci delle manifestazioni per creare, uniti finalmente, una coscienza di categoria e batterci. Ma come dei Don Chisciotte contemporanei, combattere contro quali mulini a vento? Molte produzioni, sia pubbliche che di privati, sono saltate perché il pubblico sarebbe stato troppo poco e la situazione non avrebbe retto dal punto di vista economico. Il teatro è aperto dal 15 giugno ma aperto per pochi: sia per chi ci lavorerà e sia per chi lo vedrà.
Mentre in Francia, il ministro della cultura Roselyne Bachelot e il Governo hanno dichiarato di voler mettere in atto un “piano ambizioso” ed elencato le misure d’emergenza intese a salvare l’Economia e rese accessibili in particolare al mondo della Cultura con un accesso alla disoccupazione parziale, un prolungamento dell’intermittence e un fondo di solidarietà in più per gli artisti e tecnici, noi artisti italiani non sappiamo più chi siamo e cosa sarà diventato ora il pubblico a cui ci si rivolge. Questo modo di pensare al mondo diviso tra noi e loro segna il fallimento dell’umanesimo e dell’universalismo che ne è consustanziale: sta sempre più perdendo il senso di comunità. Noi, Stefano Ricci e Gianni Forte, come esseri umani prima e come artisti dopo, ci auguriamo che si possa affrontare questa grande Matrigna Incertezza in ogni area della nostra società e che incombe minacciosamente sulle nostre teste come una spada di Damocle; che si possano abbassare gli schermi protettivi e che si ritorni a stare insieme e condividere le nostre emozioni scambiandoci quel granello di poetica magica follia che ciascuno di noi porta dentro di sé.
Il vostro impegno non è solo nel teatro: ricordiamo, infatti, la trasmissione “Hic sunt leones” per Rai 3. Raccontateci questo progetto.
Il flusso continuo, la corrente, il bisogno di addizionare strati, derma in un minipimer interdisciplinare: di contrastare una bidimensionalità che trasfigura la stessa essenza etica di un individuo; non si tratta di opporsi a sentieri precedenti o di assecondare il Presente, alimentando un fuoco confortevole; è grecale, che soffia attraverso le costole aiutandoci a fare esperienza dei giorni vissuti. Con identico spasmo, nutrito dalla curiosità del potenziale espressivo, ci siamo avvicinati alla TV. Lo snobismo così provinciale che accompagna il nostro Paese nel giudicare chi trasversalmente guada i media, impedisce di comprendere che le isobare con cui il destino ci mette a confronto modificano solo la direzione del vento, non la fermano. La grammatica televisiva, quella teatrale o, nell’immediato futuro, quella cinematografica sono universi con leggi precise, all’interno dei quali si può però continuare a cercare in comunione col respiro universale. HIC SUNT LEONES, è stato un atto di fiducia che ci è stato donato dall’attuale direttore di Rai 1, Stefano Coletta – all’epoca direttore di Rai 3 – che ci ha permesso di navigare a vista nel nostro immaginario, senza mediazioni di sorta.
HIC SUNT LEONES nasce dal desiderio di raccontare le gesta di piccoli eroi quotidiani, quelle esistenze senza titoli in grassetto, persone le cui imprese non appariranno mai sui quotidiani o nei telegiornali e non entreranno mai nei libri di testo – nella Storia con la esse maiuscola – ma che hanno compiuto azioni che con il loro esempio ci restituiscono una bussola a noi che sopravviviamo nei perimetri imposti dal qualunquismo di questo Presente. ricci/forte compiono un viaggio nell’Italia di oggi alla ricerca di quei singoli che, di fronte ai dardi dell’esistenza, non si piegano ma oppongono una schiena dritta alla letargia diffusa per edificare la figura di un nuovo uomo, l’unica figura possibile per una rivoluzione etica copernicana. Dalla provincia ai grandi centri metropolitani, setacciando in lungo e largo la nostra nazione, Stefano e Gianni – come novelli Caronte – incontreranno il loro lottatore, il suo ambiente, i suoi amici, i detrattori, tutto ciò che ha influenzato le scelte che il nostro “Leone” o “Leonessa” ha fatto per mordere i suoi giorni. Una cartografia di una penisola addomesticata che si scontra con i mostri del nostro Presente, tracciando i perimetri di una Italia meno prona, più autentica, restituendo la chiave di una patria che non è quella docile, cafona e qualunquista rappresentata dai media. Grandi città e piccoli centri verranno toccati dall’avventura on the road, restituendo il respiro di un popolo che oppone resistenza con la convinzione della propria unicità da difendere. Un viaggio documentario, lungo cinque puntate, per andare verso la vita con rinnovato entusiasmo e scoprire quel che resta, quel che cambia. Dove il cuore a nudo dei protagonisti fibrilla all’unisono con quello di chi guarda perché, in fondo, è solo un incidente di percorso che stabilisce chi sia lo spettatore, chi il protagonista dell’epopea.
Per concludere, quali titoli d’opera vi piacerebbe affrontare e/o quali autori e perché?
Mozart, Beethoven, Cherubini, Reimann, Händel e tantissimi altri. Perché? Per la volontà di tracciare nuove mappe del tesoro e scoprire monete d’oro laddove precipita l’arcobaleno.