Spettacoli

Tosca – Firenze, Teatro del Maggio

Nel contesto di un Festival punteggiato da eventi di altissima qualità musicale, particolari aspettative erano riservate a Tosca, certamente per il nuovo allestimento firmato da Massimo Popolizio, ma soprattutto per la direzione di Daniele Gatti, che ha confermato con questa esecuzione lo straordinario livello d’intesa raggiunto con l’Orchestra del Maggio. La sua è infatti una lettura vibrante e attenta alla resa di ogni dettaglio, in un procedere di ampio respiro in cui la cantabilità pucciniana può esprimersi con libertà e trasparenza; una narrazione dunque distesa che prende corpo in un flusso ora turgido ora delicato, costantemente screziato dalla messa in evidenza dei differenti strumenti e con continui effetti di vuoto e di pieno, dove la musica cresce e diviene più densa oppure diminuisce facendosi rarefatta.
L’accordo iniziale è definito e terribile, nel diabolico intervallo di quarta eccedente, quasi una campana tonante e sinistra; tutto il primo atto si snoda poi tra momenti di potenza drammatica e distensioni di intenso lirismo, con l’inciso palpitante di “Recondita armonia” e gli interventi brillanti delle Voci bianche dirette da Sara Matteucci. Il tutto confluisce in un Te Deum straordinariamente scolpito e maestoso, nel rigoroso sovrapporsi delle linee musicali e dove spicca per vigore e compattezza il Coro accuratamente diretto da Lorenzo Fratini.
Anche nel secondo atto la tensione si contrae e si dilata, nella varietà dei cromatismi e in una continua modulazione dei volumi, con pause marcate ed efficaci rallentamenti come in prima dell’esultante “Vittoria”; formidabile la tenuta dei pianissimo che precedono e accompagnano il “Vissi d’arte, con un suono che si affievolisce fino quasi a spegnersi per poi rigonfiarsi con grande morbidezza.
Tracciata con varietà e precisione la sequenza delle campane su cui si innestano la romanza e il duetto, mentre l’atto infine si chiude con sonorità ancora una volta potenti e fatali.

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Piero Pretti e Vanessa Goikoetxea

Una medesima idea di ineluttabilità la ritroviamo nella regia di Massimo Popolizio, che fin dall’inizio evoca una Città eterna dominata da uno stato di polizia, verosimilmente negli anni Trenta, ma senza un esplicito riferimento al fascismo; un allestimento che potremmo dunque collocare in una posizione intermedia tra la romanità ottocentesca di Hohenstein e la trasposizione stilizzata di Pizzi nella Roma fascista.
Le scene di Margherita Palli e le luci di Pasquale Mari inquadrano spazi chiusi e ridotti che si trasformano, ampliandosi ma senza però mai inquadrare dei veri e propri orizzonti, perché comunque la situazione rimane senza scampo. Così la sacrestia dove Cavaradossi dipinge diviene la chiesa e l’appartamento di Scarpia si apre al palazzo e alla camera della tortura; saranno poi gli spalti di Castel Sant’Angelo a spalancare finalmente uno sfondo: una scalinata verso il vuoto e la morte ci si presenta come una sorta di ara per il sacrificio di Tosca, unica possibile via per sfuggire ad un potere opprimente e pervasivo.
D’effetto taluni movimenti dei personaggi, come quelli di Scarpia che lascia la chiesa inquieto sul finire del Te Deum o che si avvinghia alle gambe di Tosca mentre elle cerca un appiglio nel cielo; colpiscono poi il Crocifisso scagliato sul cadavere del tiranno e il togliersi le scarpe della protagonista al suo arrivo nel carcere. D’impatto anche la morte di Mario, ucciso dal colpo di pistola di uno sgherro mentre il plotone di soldati spara a salve. Rrisultano inoltre originali la radio d’epoca che trasmette la cantata della Diva e la scena di sadismo che mostra la doppiezza dei poliziotti, sporchi di sangue ma abbigliati con cura. I costumi di Silvia Aymonino sono del resto appropriati ad ogni quadro e sempre di taglio elegante, in particolare quelli di Tosca rigorosamente di colore nero.

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Vanessa Goikoetxea e Alexey Marko

Gli interpreti, da parte loro, riescono ad integrare con bravura lo stile della direzione con le atmosfere create dalla regia.
Ad essere in linea con il tipo di narrazione proposta è soprattutto Vanessa Goikoetxea, la quale, avvalendosi di una ricca gestualità che accompagna puntualmente la voce, delinea una Diva anni Trenta elegante e sofisticata, più giovanile che matronale e più moderna che popolare. L’intenzione espressiva si mantiene costantemente definita e articolata, con una varia modulazione ed una lunga tenuta delle note, dove i gravi sono consistenti e gli acuti vengono proiettati con nitidezza. Al suo ingresso ci appare più provocante che devota, e per tutto il primo atto alterna l’orgoglio alla gelosia. E’ di appassionata intensità nel confronto con Scarpia, con passaggi sussurrati ed efficaci mezze voci, e rende “Vissi d’arte” in una sofferta dolcezza in cui la preghiera prevale sulla recriminazione. Assai melodica nel duetto conclusivo, è di tagliente asciuttezza nel tragico epilogo, dove ancora una volta l’interpretazione è coinvolgente e raffinata.

Piero Pretti è un Mario Cavaradossi nobile e appassionato, con una vocalità forse un poco leggera, ma che plasma un canto rotondo e smaltato dove svettano acuti trasparenti e vigorosi. Di distesa eleganza il fraseggio in “Recondita armonia” e reso con energica sicurezza lo slancio di “Vittoria. E’ assai drammatico in “Lucevan le stelle”, con una linea morbida e variegata ed è di grande luminosità nell’estremo duetto con Tosca.

Crudele e distaccato nella sua passione di conquista lo Scarpia di Alexey Marko, con voce consistente e proiettata con chiarezza. Nella scena del Te Deum ha un declamato mellifluo ma robusto che esprime efficacemente la bramosia e il gusto della profanazione. Nel secondo atto oscilla poi tra uno spietato distacco e una violenza adirata, creando un suggestivo contrasto drammatico, ma senza troppo esplorare le possibilità di fraseggio che offre il personaggio.

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Con una tersa emissione e un’espressività puntuale, Oronzo D’Urso descrive Spoletta nell’ambiguità dello sgherro dall’aspetto signorile.
Matteo Torcaso caratterizza il Sagrestano come un pretino perbenista piuttosto che come macchietta untuosa e bigotta. Il canto è ben scandito e modulato, anche se poco voluminoso nei gravi.

Con una proiezione nitida e uno stile marcato Gabriele Sagona è un drammatico Angelotti. Compatto e diretto, ha battute incisive lo Sciarrone di Dario Giorgelè, mentre Cesare Filiberto Tenuta è un cupo carceriere dalla vocalità scura e profonda.
Incantevole infine la grazia del Pastorello di Lorenzo Mastroianni, che esibisce un canto limpido e arrotondato.

Molto applauditi i tre interpreti principali, particolarmente la Goikoetxea, e grande entusiasmo per il lavoro di Gatti.

TOSCA

Melodramma in tre atti di Giacomo Puccini
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa

Floria Tosca
Vanessa Goikoetxea
Mario Cavaradossi Piero Pretti
Il barone Scarpia Alexey Markov
Cesare Angelotti Gabriele Sagona
Il Sagrestano Matteo Torcaso
Spoletta Oronzo D’Urso
Sciarrone Dario Giorgelè
Un carceriere Cesare Filiberto Tenuta
Un pastore Lorenzo Mastroianni

Maestro concertatore e direttore Daniele Gatti

Regia Massimo Popolizio
Scene Margherita Palli
Costumi Silvia Aymonino
Luci Pasquale Mari

ORCHESTRA E CORO DEL MAGGIO MUSICALE FIORENTINO

Maestro del Coro Lorenzo Fratini

CORO DI VOCI BIANCHE DELL’ACCADEMIA DEL MAGGIO MUSICALE FIORENTINO

Maestra del Coro di voci bianche Sara Matteucci

Foto: Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino