Cavalleria rusticana/Pagliacci – Teatro alla Scala, Milano
Al Teatro alla Scala vanno in scena: Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggiero Leoncavallo.
Il canto nelle opere di Giovanni Verga è un elemento spesso presente, a volte ci racconta la semplicità di un cuore di paese, come nei Malavoglia: ”Rocco Spatu si sgolava sulla porta dell’osteria davanti al lumicino. «Chi ha il cuor contento sempre canta» conchiuse padron ‘Ntoni”. Altre volte ci parla dell’amore e della gelosia, proprio come accade nella novella del 1880 Cavalleria rusticana dove Santuzza ci racconta come Turiddu: “si metteva a cantare sotto la mia finestra per far dispetto a lei che s’era maritata con un altro. Tanto è vero che l’amore antico non si scorda più. lo come lo sentivo cantare, quel cristiano, sembrava che il cuore mi scappasse via dal petto“.
Date queste premesse era quasi scontato che i capolavori veristi conoscessero una versione operistica. E così è stato, infatti, per Cavalleria rusticana nel 1889 ma anche per Pagliacci, opera del 1892 ispirata ad un fatto di cronaca nera. Questo dittico, verista per antonomasia, oggi non viene quasi più rappresentato insieme ma, a nostro avviso, questa scelta, che omaggia la tradizione, resta la più coerente e sensata. Alla Scala di Milano, si segue la prassi classica e le due opere tornano dopo qualche anno di assenza. L’allestimento è quello già visto più volte a partire dal 2011 con la regia di Mario Martone, qui ripresa da Federica Stefani, e con le scene di Sergio Tramonti. Cavalleria rusticana è giocata su toni scuri, il grande palco del Piermarini è pressoché vuoto e lo spettacolo è costruito con i tanti abitanti del borgo e pochi elementi scenici che evocano ora una chiesa, ora i campi fuori dal paese. Rivisto a distanza di anni l’allestimento si conferma estremamente elegante, sicuramente capace di evitare certi stereotipi di sicilianità ma, al tempo stesso, in alcuni frangenti un po’ povero. Curatissimi e affascinanti i costumi di Ursula Patzak che ci accompagnano in una fine Ottocento concreta e non troppo idealizzata. Fondamentali le luci di Pasquale Mari: squarci di sole nell’incombente buio, sicuramente una delle cose più riuscite dell’intero spettacolo. Lo stesso team creativo dona invece a Pagliacci una veste ben diversa: siamo negli anni settanta del novecento, in una periferia degradata: sotto un cavalcavia si esibiscono gli acrobati circensi. Questa seconda parte della produzione si dimostra ancora visivamente ricchissima e di indubbio fascino, con la sua capacità di articolare bene quel dramma esistenziale così legato all’opera di Leoncavallo. Anche in questo caso, curatissimi i costumi della già citata Patzak e ottime le luci di Mari che ci accompagnano dal tramonto alla sera. Un allestimento che nel complesso funziona ancora egregiamente e che ha saputo, in questo decennio, diventare quasi un piccolo classico scaligero.
Dal podio Giampaolo Bisanti sigla una prova efficace e di sicuro impatto teatrale. Il racconto, condotto con unitarietà e la giusta consapevolezza stilistica, viene puntellato da dinamiche vibranti ed avvolgenti che ben rappresentano la viscerale tragicità che è essenza stessa di questi grandi caposaldi del repertorio verista. Per Cavalleria rusticana, Bisanti predilige sonorità più accese, per meglio caratterizzare le pagine di maggiore intensità drammatica, in alternanza ad altre più raccolte, per accompagnare il dolente struggimento dei personaggi e, in particolare, della protagonista. Suggestivi risultano, per intensità ed espressività, il preludio e l’intermezzo, sbalzati con dovizia di colori e di accenti. In Pagliacci, il racconto si dipana attraverso dinamiche tese e corrusche, a tratti infuocate. Non mancano, poi, i momenti dove l’atmosfera narrativa si fa rarefatta e vaporosa, flebili speranze di redenzione dalla quotidiana miseria cui i protagonisti sono predestinati sin dall’inizio. Da segnalare, anche in questo caso, l’intermezzo, eseguito con toccante drammaticità.
Una prestazione direttoriale adeguatamente incisiva e caratterizzata da un gesto impetuoso, pur sempre attento ad assicurare il necessario supporto alle voci in palcoscenico.
Bene, anzi benissimo l’orchestra, in grado di plasmare un suono sempre fluido e duttile e di sottolineare, così, quel turbinio emotivo che serpeggia per la partitura. E ancor meglio fa il coro che, sotto la guida dell’eccellente Alberto Malazzi, sigla una prova a dir poco splendida. Stupefacente, oltre alla intensità e alla compattezza dell’emissione, è la naturale espressività dell’accento, miniato a regola d’arte. Ecco, allora, che nell’opera di Mascagni si passa con disinvoltura dalla solarità dei canti dei popolani al misticismo delle celebrazioni pasquali. Nella composizione di Leoncavallo, poi, la folla anima con entusiasmo la piazza in attesa dello spettacolo, volgendo poi le emozioni in attonito stupore nel finale.
Di livello il cast schierato in locandina, a partire dal dramma mascagnano.
Saioa Hernández, al suo debutto nel ruolo, risulta una Santuzza credibile ed appassionata. Il soprano madrileno, dalla vocalità piena ed omogenea, affronta la parte con un canto misurato e sorvegliato in ogni passaggio, compresa la celebre “maledizione della mala Pasqua” troppo spesso oggetto di stentorea declamazione. La sicurezza dell’emissione e la facilità di un registro acuto ben proiettato sono i caratteri distintivi di una prova vocale efficace. L’artista riesce, inoltre, a piegare la peculiarità del proprio strumento al giusto fine espressivo, conferendo così al personaggio quel senso di tormentata inquietudine che pervade ogni suo intervento. Una prova di livello che si segnala, tra l’altro, per un accento accorato e una presenza scenica dolente e partecipata.
Ben rifinito il Turiddu di Brian Jagde, in possesso di una linea vocale di buon volume e dal bel timbro solare. Adeguatamente sorvegliata l’emissione, particolarmente generosa nel registro superiore, raggiunto con evidente facilità. Il personaggio, poi, viene definito nel solco della tradizione interpretativa, in ragione di un fraseggio piuttosto guascone e giustamente spavaldo.
Amartuvshin Enkhbat presta ad Alfio la peculiarità di una vocalità ampia e robusta, poderosa nei centri e facilissima nella salita verso il registro superiore. Un Alfio di lusso, si direbbe, affrontato con una linea di canto pulita e mai sopra le righe, neppure nei momenti dove il personaggio è roso dalla rabbia e dal desiderio di vendetta. Enkhbat, inoltre, è l’unico interprete della locandina comune ad entrambe le opere. Basterebbe l’esecuzione del “Prologo” dei Pagliacci per segnalare la sua interpretazione tra le migliori possibili di oggi. La morbidezza dell’emissione e il controllo del canto in tutti i registri consentono al baritono di disegnare un personaggio a tutto tondo, un uomo cinico ed accecato dalla sua ossessione per Nedda.
Francesca Di Sauro interpreta Lola con la freschezza di uno strumento screziato ed esibito con composta sensualità.
Una menzione d’onore per Elena Zilio, una mamma Lucia di riferimento per l’indiscusso carisma scenico e per una non comune proprietà di scavo nel fraseggio. Splendida.
Completa la locandina Maria Miccoli, una voce, dalle fila del Coro del Teatro alla Scala.
Passando al dramma di Leoncavallo, si segnala l’ottima prova di Fabio Sartori nel ruolo di Canio. Il tenore affronta la parte con sicurezza ed intelligenza, valorizzando una organizzazione vocale piuttosto solida e che ben si adatta, per volume e pienezza dei registri centrale e superiore, alla scrittura dell’autore. L’esecutore e l’interprete si fondono nel tratteggiare un personaggio moderno e dolente, un uomo che prima si strugge di gelosia e che, alla fine, sfoga la delusione in cieca furia omicida.
Irina Lungu dipinge una Nedda passionale e risoluta, perfettamente consapevole della propria condizione e, forse, non così speranzosa di un avvenire migliore. Disinvolta nelle movenze, grazie anche ad una presenza scenica aggraziata, tratteggia un personaggio piuttosto credibile e coinvolgente, in particolare, durante la messinscena dello spettacolo nella seconda parte dell’opera. Vocalmente mette in evidenza una linea corretta e rifinita che passa agevolmente dagli accenti più leggiadri della ballata e del duetto d’amore, ai toni più accesi e drammatici del tragico finale.
Mattia Olivieri possiede la prestanza fisica per dipingere un Silvio appassionato e fermo nel suo proposito di fuggire con Nedda. Il baritono sfoggia uno strumento uniforme che dipinge, con le giuste mezzevoci, il carattere innamorato del personaggio.
Efficace il Peppe di Jinxu Xiahou che si prodiga poi, nei panni di Arlecchino, in una esecuzione delicata e trasognante della sua celebre serenata.
Completano la locandina dalle fila del Coro del Teatro alla Scala, Gabriele Valsecchi e Luigi Albani nei panni, rispettivamente, di un contadino e di un altro contadino.
Un plauso, infine, alla buona prova dei piccoli artisti del coro di Voci Bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala, guidati da Marco De Gasperi.
Festoso successo per entrambi gli spettacoli, tributato da una sala praticamente esaurita in ogni ordine di posto.
CAVALLERIA RUSTICANA
Melodramma in un atto
di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci
dal dramma omonimo di Giovanni Verga
Musica di Pietro Mascagni
Santuzza Saioa Hernández
Turiddu Brian Jagde
Alfio Amartuvshin Enkhbat
Lola Francesca Di Sauro
Lucia Elena Zilio
PAGLIACCI
Dramma in un prologo e due atti
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda Irina Lungu
Canio Fabio Sartori
Tonio Amartuvshin Enkhbat
Silvio Mattia Olivieri
Peppe Jinxu Xiahou
Un contadino Gabriele Valsecchi*
Altro contadino Luigi Albani*
*Artisti del Coro del Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Giampaolo Bisanti
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Mario Martone
Ripresa da Federica Stefani
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Foto: Brescia Amisano Teatro alla Scala