Al Festival Donizetti di Bergamo due giornate di studi dedicate a Nozzari e Rubini (parte 1)
Venerdì 24 e sabato 25 novembre la Sala della musica “Tremaglia” del Teatro Donizetti di Bergamo ha ospitato il convegno Nozzari, Rubini: tenori contro, dedicato alle figure dei tenori bergamaschi Andrea Nozzari (Vertova, 27 febbraio 1776 – Napoli, 12 dicembre 1832) e Giovanni Battista Rubini (Romano di Lombardia, 7 aprile 1794 – 3 marzo 1854). L’evento si è svolto nell’ambito dell’ottava edizione del Donizetti Opera Festival e, grazie alla partecipazione congiunta di musicologi appartenenti all’area scientifica della Fondazione Teatro Donizetti e provenienti da altri contesti accademici, ha offerto al pubblico l’opportunità di osservare da vicino il prezioso lavoro di ricerca che si cela dietro la macchina organizzativa della rassegna operistica bergamasca.
Oggetto principale delle giornate di studio la vita e la carriera di due cantanti a dir poco essenziali per la storia dell’opera italiana. Nozzari e Rubini, infatti, svolsero un ruolo decisivo nella definizione dei primi sviluppi storici e tecnici della vocalità tenorile, collaborando con compositori che seppero sfruttarne al meglio le caratteristiche vocali per dare vita a personaggi simbolo del repertorio operistico ottocentesco: Otello, Elvino, Gualtiero, solo per citarne alcuni.
Andrea Nozzari è stato al centro degli interventi della giornata di venerdì, presieduta dal direttore scientifico della Fondazione Teatro Donizetti, Paolo Fabbri. Il musicologo ha inaugurato i lavori sottolineando come l’impulso ad indagare la figura di questo cantante sia scaturito dalla recente riscoperta di Alfredo il Grande, opera donizettiana in cui Nozzari interpretò per primo la parte del protagonista e che proprio quest’anno è stata allestita nell’ambito del festival a distanza di duecento anni dal suo debutto.
A fornire le coordinate storiche e culturali di riferimento è stato Giorgio Apollonia, studioso che ha posto l’attenzione su un fenomeno alquanto curioso: la provenienza dal territorio bergamasco di grandissima parte dei tenori attivi in ambito teatrale tra la fine del Settecento e la prima metà del secolo successivo. Giuseppe Viganoni, Giacomo e Giovanni David, Marco Bordogni, Domenico Donzelli: sono questi soltanto alcuni dei nomi che all’epoca popolavano i palcoscenici dei teatri di tutta Europa, inducendo alcuni critici, come il francese Castil-Blaze, ad affermare che Bergamo produce tenori come «Napoli produce maccheroni» (Galleria biografica degli artisti stranieri. Rubini, 1832). L’indagine di Apollonia si è dunque concentrata sull’individuare le ragioni di tale fenomeno, che sarebbero da ricercare non solo nella rigorosa formazione didattica cui gli aspiranti cantanti venivano sottoposti, ma anche in una complessa interazione di fattori ambientali (l’influenza del paesaggio e del clima), politici (il legame tra Bergamo e Venezia, importante città teatrale dell’epoca) e persino genetici (una sorta di “predisposizione genetica” della popolazione maschile alla pratica del canto). L’ampio panorama dei dati raccolti sulle esperienze artistiche degli interpreti ha messo inoltre in evidenza il loro ruolo decisivo nel favorire l’emancipazione drammatica del tenore tra fine Settecento e inizio Ottocento. Uno sguardo anche solo generico all’evoluzione delle loro carriere, infatti, dimostra come questi artisti contribuirono ad affrancare la voce tenorile dal suo legame quasi esclusivo con i ruoli di mezzocarattere, per guidarla verso il repertorio serio dell’epoca sotto forma di due tipologie vocali diversificate: il baritenore, caratterizzato da voce piena e sviluppata nel registro medio-grave, e il tenore contraltino, capace di muoversi in tessiture acutissime con grande agilità esecutiva.
Chiarito il contesto che fa da sfondo alle vicende di Nozzari e colleghi, il gruppo di ricerca composto da Livio Aragona, Maurizio Merisio e Edoardo Cavalli – membri dell’Area scientifica della Fondazione Donizetti – ha poi condotto il discorso sul curriculum vitae di Andrea Nozzari. Due, in questo caso, le osservazioni emerse: l’enigmaticità della sua figura e il legame con la musica sacra e il potere politico. Nel primo caso, stupisce l’assenza pressoché totale di testimonianze relative alla vita privata del cantante, specialmente se confrontata con il copioso materiale a disposizione per Rubini. A fronte di abbondanti resoconti sulle sue esibizioni e qualità artistiche, non sappiamo quasi nulla della sua esistenza al di fuori del palcoscenico, salvo sporadiche citazioni presenti nell’epistolario donizettiano. Allo stesso modo, non esistono riferimenti iconografici se non due figurini teatrali (che ritraggono Nozzari rispettivamente nelle vesti di Appio Decemviro nella Virginia di Pietro Casella e di Polifegonte nella cantata Il sogno di Partenope di Giovanni Simone Mayr), mentre alcuni passaggi cruciali della sua carriera appaiono ancora oggi oscuri: è ignoto, per esempio, il motivo per cui decise di ritirarsi dalle scene nella primavera del 1825. Quanto al legame del tenore con il contesto religioso, la ricerca ha fatto emergere un dato interessante e finora poco indagato, ovvero il fatto che per tutta la sua esistenza Nozzari affiancò alla vita teatrale un’attività costante nell’ambito della musica sacra. Il suo contatto con le istituzioni religiose emerge sin dagli anni della formazione a Bergamo, verosimilmente avvenuta in seno alle cappelle musicali del Duomo e della Basilica di Santa Maria Maggiore (ancora oggi i documenti a riguardo sono troppo poveri di informazioni). I rapporti con l’ambiente religioso, però, continuarono anche nel pieno della carriera teatrale, quando il cantante fu attivo nei complessi delle Cappelle Palatine di Parigi (dal 1803 al 1808 circa) e Napoli (dal 1810 fino al 1825). Come ha dimostrato Edoardo Cavalli, negli anni che corrispondono alla permanenza in queste città il nome di Nozzari compare spesso associato a qualifiche ufficiali quali “virtuoso di Camera e di Cappella di Sua Maestà l’Imperatore” e “virtuoso della Real Camera e della Cappella Palatina”, che rivelano chiaramente un rapporto privilegiato con il potere politico. Scopriamo così un lato poco conosciuto della carriera di questo tenore, che gli consentì di stringere legami con figure del calibro di Napoleone, Gioachino Murat e i Borbone delle Due Sicilie, e che ci appare ancora più significativo se consideriamo che, dopo il ritiro dalle scene teatrali, egli continuò a prestare servizio nella Cappella Palatina di Napoli fino al 1830, due anni prima della morte.
Si accennava alla presenza di Nozzari a Parigi. Tra il maggio del 1803 e l’estate del 1806 questa città rappresentò un importante trampolino di lancio per la carriera del cantante: basti pensare che, una volta tornato dalla capitale francese, egli si impose come uno dei massimi interpreti della scena teatrale napoletana accanto a figure del calibro di Isabella Colbran e Giovanni David. Eppure, le sue esibizioni sul palcoscenico del Théâtre-Italien suscitarono reazioni contrastanti nell’esigente pubblico parigino. Ne ha fornito la prova Saverio Lamacchia, che ha presentato un’interessante ricercasul periodo francese del tenore attraverso l’analisi approfondita dei resoconti relativi alle sue esibizioni apparsi sulla stampa dell’epoca. Dalla lettura di queste testimonianze sono emersi molti aspetti utili per ottenere qualche informazione in più sulle abilità esecutive di Nozzari. Tutti i recensori francesi, ad esempio, concordano sulle sue scarse capacità attoriali, come riassunto emblematicamente dal titolo della relazione di Lamacchia (che riporta le parole di un recensore coevo): «Quel dommage qu’une voix si flexible et si gracieuse ne doive être écoutée que les yeux fermés». I giudizi sulla qualità del canto, invece, non sono unanimi e, anzi, talvolta ci appaiono persino contraddittori: si passa da chi elogia la morbidezza e l’eleganza del suo stile esecutivo, a chi paragona la debolezza del registro acuto ai miagolii di un gatto, spesso aggiungendo anche critiche relative alla frivolezza dell’ornamentazione. Di fronte a una situazione così variegata, sostiene Lamacchia, è lecito supporre che tali giudizi fossero motivati da un gusto estetico diverso da quello allora vigente in Italia, più attento alle capacità attoriali degli interpreti oltre che alle loro abilità esecutive. Al netto di queste osservazioni, l’intervento dello studioso ha quindi dimostrato quanto sia importante calibrare con attenzione le informazioni che si ricavano dalle recensioni dei contemporanei, contestualizzandole accuratamente dal punto di vista storico ed estetico. Del resto, per chi si occupa di vocalità operistica nel periodo antecedente l’avvento della registrazione sonora questi materiali rappresentano spesso l’unico appiglio utile per farsi un’idea delle peculiarità timbriche delle voci dei cantanti del passato.
Spesso, ma non sempre. Esistono infatti altre tipologie di fonti che ci consentono di carpire informazioni abbastanza dettagliate sulle capacità vocali degli esecutori vissuti prima dell’invenzione del fonografo: si tratta delle parti musicali, veri e propri gioielli che i compositori dell’epoca confezionavano su misura degli interpreti a loro disposizione.
Marco Beghelli ha adottato questa prospettiva per cercare di cogliere le caratteristiche peculiari della voce di Nozzari e, per estensione, di quelle dei suoi principali colleghi nella Napoli dei primi vent’anni dell’Ottocento (come Giovanni David e Giovanni Battista Rubini). Unendo l’analisi delle recensioni dell’epoca alla disamina di alcune pagine rossiniane espressamente concepite per questi cantanti (come i duetti «Amor! Possente nome» da Armida e «Ah vieni, nel tuo sangue» dall’Otello), Beghelli ha avanzato una serie di ipotesi relative alla tecnica di fonazione da loro adoperata per muoversi nell’ambito di tessiture a dir poco stratosferiche, spesso spinte ai limiti del registro acuto. Ne è emersa una prospettiva interessante in base alla quale la tecnica del falsetto (termine onnipresente nei resoconti dei contemporanei) non è tanto da intendere come necessità fisiologica, quanto come opzione stilistica. Detto altrimenti, questa modalità di emissione non rappresentava l’unico mezzo con il quale raggiungere i limiti estremi della propria estensione vocale, ma si trattava semplicemente di una risorsa che poteva essere utilizzata alternativamente alla voce piena per conferire al registro acuto sfumature timbriche e di volume più o meno diversificate. Ciò permette di comprendere meglio perché Nozzari, baritenore per eccellenza, fosse in grado di raggiungere con sicurezza anche occasionali escursioni ben al di fuori della tessitura a lui più consona, come accade, per esempio, nella parte costellata di sovracuti dell’Otello rossiniano. In ottica più generale, queste osservazioni consentono inoltre di constatare che la prassi esecutiva vocale dell’epoca non privilegiava tanto la ricerca dell’uniformità timbrica – come succede oggi – quanto la capacità di differenziare le diverse zone dell’estensione attraverso raffinati effetti timbrici capaci di assegnare ad ogni registro un particolare “colore”.
Tutte queste riflessioni hanno raggiunto un’emblematica conclusione nella giornata di sabato 25, alla quale ha partecipato anche Antonino Siragusa, interprete della parte di Alfredo nella produzione di Alfredo il Grande allestita quest’anno a Bergamo. Durante il suo intervento il tenore ha espresso le proprie opinioni sulla sostenibilità vocale del ruolo, offrendo così una testimonianza preziosa dei vantaggi e delle difficoltà che si possono incontrare oggi nell’affrontare una parte espressamente concepita per le capacità di Nozzari. È stato senza dubbio un momento ricco di stimoli che ha contribuito a mettere in luce un notevole punto di forza del festival bergamasco: la ricerca costante di un dialogo attivo tra studiosi, interpreti e pubblico.
Alessio Maneli
in collaborazione con Candida Mantica (Università di Pavia)