Lucia di Lammermoor – Comunale Noveau, Bologna
Lucia dì Lammermoor di Gaetano Donizetti al Comunale Noveau di Bologna.
Nel 1483 Antonio Pucci, importante figura della cerchia medicea, commissiona alla bottega di Sandro Botticelli quattro pannelli come dono per le nozze del figlio Giannozzo con Lucrezia Bini. Le tavole celebrano un amore a lieto fine, ossia quello di Nastagio degli Onesti, racconto presente anche nel Decamerone di Boccaccio (novella ottava della quinta giornata).
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Proprio da questa visione pittorica parte il regista Jacopo Spirei per questa Lucia di Lammermoor. La scena, a cura di Mauro Tini, ci porta in una sinistra foresta, che ricorda appunto quella dei dipinti botticelliani. Ci troviamo in un luogo sinistro e di malaffare dove non compaiono spettri ma bande criminali votate allo stupro e alla violenza. Un allestimento, coprodotto con la Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo, che avevamo già avuto modo di seguire al Donizetti opera Festival 2023 (qui la recensione). In questa occasione però lo spettacolo ci è parso un po’ sacrificato e ridotto, probabilmente a causa dei necessari adattamenti subiti. Ricordiamo infatti come, a Bergamo, sia andata in scena Lucie de Lammermoor, versione francese del 1839, non perfettamente corrispondente a quella italiana, e come, oltretutto, la partitura, a Bologna abbia subito vistosi tagli, circa mezz’ora di musica totale. Tutto ciò ha portato ad un racconto registico necessariamente più minimale in cui anche che la dose di violenza, evidente nella prima bergamasca, è stata in qualche modo addolcita rendendo lo spettacolo meno corrosivo e un po’ più anonimo. L’ambientazione contemporanea è stata adeguatamente assecondata dal buon lavoro della costumista Agnese Rabatti. Riuscite anche le luci di Giuseppe Di Iorio che hanno illuminato al meglio il palco del Comunale Noveau.
Il versante musicale è affidato alla prestigiosa bacchetta di Daniel Oren. Il direttore israeliano è un esperto conoscitore del repertorio italiano, e prova ne è la creazione di un impasto sonoro pervaso da una costante tensione emotiva. La scelta dei colori e delle dinamiche, ottimamente combinate nelle soluzioni ritmiche adottate, si rivela perfetta nel ricreare la essenza drammaturgica di ogni scena. Ecco, allora, come i momenti di maggiore intimismo risultino splendidamente sottolineati, grazie anche alla notevole prova dei complessi bolognesi, da un suono di rarefatta delicatezza (si veda, su tutti, il sognante accompagnamento di “Verranno a te sull’aure”) e, ancora, le pagine di carattere più virtuosistico improntate ad una segnata valenza espressiva. Di ipnotica suggestione, poi, è la scena della pazzia complice, tra l’altro, la bravura di Philipp Marguerre al verrofono. Sin qui potremmo dire di trovarci di fronte ad una prova direttoriale di altissimo livello, ma il nostro giudizio deve essere fortemente rivisto alla luce dei tagli perpetrati da Oren nei confronti della partitura. Se veniali possono sembrare la mancata ripresa della cabaletta di Enrico e la soppressione di alcuni passaggi nelle strette finali, inaccettabili e sconsiderate appaiono altre scelte, quali la rimozione della quasi totalità del concertato che chiude il primo atto o, ancora, di intere scene come quella tra Raimondo e Lucia, la celebre “scena della torre” o il confronto tra Enrico e Lucia durante la pazzia. Un giudizio negativo, il nostro, dettato dal venir meno, mediante l’adozione di questi tagli, di alcuni passaggi drammaturgici cardine dell’opera: è dalle parole di Raimondo, infatti, che Lucia prende consapevolezza della necessità di convolare a nozze o, ancora, come può Edgardo trovarsi, al termine dell’opera, tra le trombe degli Ashton se la sfida alla battaglia non è mai stata provocata da Enrico? Comprensibili sono dunque, date queste premesse, le contestazioni che hanno accolto Oren al suo apparire alla ribalta finale degli applausi.
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La mancata integralità della esecuzione, inoltre, penalizza il cast vocale, specie se, come in questo caso, si tratta di una compagnia tra le più prestigiose oggi possibili.
Nel ruolo della protagonista troviamo Jessica Pratt, che proprio dell’infelice eroina donizettiana ha fatto un suo cavallo di battaglia. Il soprano australiano sorprende per il magistrale controllo tecnico che le consente di spaziare, con impressionante facilità, dai cantabili al più sfrenato virtuosismo, quest’ultimo in evidenza per precisione e pulizia. Se intatte, e ben note, sono la luminosità del registro acuto e la proiezione delle note sovracute, la voce della Pratt ha acquisito oggi maggior corpo, specialmente nei centri che suonano pieni e ben torniti. Di grande suggestione, poi, sono i numerosi pianissimi, esibiti con adamantina purezza e impiegati a regolare d’arte per accentuare le numerose sfumature espressive del fraseggio. Semplicemente perfetto, inoltre, il personaggio, padroneggiato splendidamente e tratteggiato non solo nella sua dimensione più fragile ma, anche, come una donna volitiva e combattiva. Come direbbe Tosca nell’omonima opera pucciniana: “Ecco un’artista!”.
Al suo fianco si impone l’Edgardo di Iván Ayón Rivas, fresco del recente debutto nel ruolo avvenuto nel novembre scorso al Carlo Felice di Genova. Anche in questa occasione si conferma la preziosità di una vocalità dal timbro solare che si impone, in primis, per la ricchezza di armonici. La morbidezza della linea consente di affrontare l’impervia scrittura con naturalezza e di risolvere anche i passaggi più arditi senza tradire segnali di stanchezza. Da questo punto di vista, la scena finale, risolta con un canto a fior di labbro di rara intensità, si ascrive senza dubbio ad uno dei momenti più alti dell’intera esecuzione. Ottimo anche l’interprete, grazie alla moltitudine di colori impiegati nel fraseggio. Da sottolineare, inoltre, come pur in una esecuzione che, come già ricordato, è falcidiata da tagli, Rivas canta per intero “la maledizione”, forse per una sua scelta arbitraria ma assolutamente corretta.
Il terzetto dei protagonisti si completa con un altrettanto ottimo Lucas Meachem, dalla vocalità poderosa e di strabordante facilità nel registro superiore. La sicurezza e la proiezione dell’emissione evidenziano l’indubbia importanza di un mezzo cui sarebbe giovato, di certo, il duetto con Edgardo nella espunta “scena della torre”. L’autorevolezza dell’interprete, nell’accento come nella figura, ben si addice alla caratteristica crudeltà del personaggio.
Chi si trova a fare maggiormente i conti con le scelte del podio è Marko Mimica, chiamato a vestire i panni di Raimondo. Il velluto di un mezzo dal fascinoso colore serotino si impone, in particolare, nel racconto che precede la pazzia in secondo atto. Una pagina sapientemente rifinita attraverso la spiccata musicalità del fraseggio.
Marco Miglietta, nel ruolo di Normanno, si fa notare per lo squillo vocale e la protervia di un accento pertinente e coinvolto.
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Note positive anche per lo “sposino”, alias Lord Arturo Bucklaw, interpretato con la giusta efficacia da Vicenzo Peroni.
Completa la locandina Miriam Artiaco, puntuale nel ruolo di Alisa.
Davvero ottimo, infine, per rotondità e precisione, il contributo del coro del Teatro Comunale, magistralmente diretto da Gea Garatti Ansini.
Al netto delle disapprovazioni ad Oren di cui abbiamo già accennato, il pubblico riserva calorosi consensi a tutti gli interpreti, decretando un trionfo ai due protagonisti e, in particolare a Jessica Pratt.
Il team registico, al contrario, viene salutato da contestazioni.
Lucia di Lammermoor
Opera in tre atti
Libretto di Salvatore Cammarano
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton Lucas Meachem
Sir Edgardo di Ravenswood Iván Ayón Rivas
Lord Arthur Bucklaw Vincenzo Peroni
Miss Lucia Ashton Jessica Pratt
Raimondo Bidebent Marko Mimica
Alisa Miriam Artiaco
Normanno Marco Miglietta
Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini
Regia Jacopo Spirei
Scene Mauro Tinti
Costumi Agnese Rabatti
Light designer Giuseppe Di Iorio
Foto: Andrea Ranzi