La clemenza di Tito – Grand Théâtre, Monte-Carlo
A Monte-Carlo il 2025 operistico inizia con La clemenza di Tito, di Wolfgang Amadeus Mozart.
Nel Principato è festa patronale, la vigilia di Santa Devota, ma la celebrazione è doppia se sul palcoscenico del teatro del casinò si esibisce l’altra Santa (come è scherzosamente definita dalla stampa): Cecilia Bartoli. Potere ascoltare questa immensa e meravigliosa artista è, ogni volta, una occasione imperdibile per i melomani e, per chi scrive, l’ultima possibilità era stata a Salisburgo, in questo stesso titolo (qui la nostra recensione). L’allestimento proposto a Monaco è frutto di una coproduzione con la Royal Danish Opera e la Staatsoper di Amburgo, che vede alla regia Jetske Mijnssen e alle scene e costumi Ben Baur. L’ambientazione è contemporanea, ci troviamo in grandi spazi lineari, che evocano la struttura della basilica romana, ma in toni scuri, e dominati da scritte in caratteri capitali. Le sole concessioni, queste, alla classicità, un modo per porre, in massimo risalto, le “leggi” che governano il capolavoro mozartiano: delizia, potere, tradimento e clemenza. Una scena severa, a tratti spartana, che lascia ampio spazio ai cantanti e dove il momento più riuscito è quello dell’incendio del Campidoglio con il fuoco che invade la scena e contrasta in modo suggestivo il fondale nero. L’opera si chiude con un Tito, forse impazzito, che si punta la pistola alla tempia, probabilmente sopraffatto dalla sua stessa clemenza, una deviazione dal libretto originale, ma, come sosteneva il retore Emanuele Tesauro: “La soverchia clemenza fomenta li delitti”, probabilmente anche contro se stessi. Adeguati alla scena i costumi di Baur, completi contemporanei di taglio classico, ottime le luci Bernd Purkrabek.
Eccellente il versante musicale dello spettacolo.
Gianluca Capuano, alla guida dell’ottimo complesso Les Musicens du Prince-Monaco, riesce a plasmare il fraseggio musicale con straordinaria morbidezza e ad ottenere un suono rotondo e sinuoso. La peculiare scelta di creare un costante dialogo tra fortepiano, continuo e il restante ensemble orchestrale, inoltre, amplifica la tensione narrativa del racconto e conferisce a quest’ultimo una singolare teatralità. Il gesto di Capuano sembra volto alla continua ricerca della giusta tinta, stilisticamente impeccabile e, ad un contempo, drammaturgicamente incisiva, in perfetto equilibrio tra lirismo, patetismo e aulica tragicità. Una prova maiuscola grazie, tra l’altro, alla capacità di assicurare e mantenere una perfetta sincronia tra buca e palcoscenico.
Nel ruolo del titolo troviamo Giovanni Sala che si esibisce in uno stato di indisposizione, come da apposito annuncio diffuso poco prima dell’inizio dello spettacolo. La caratteristica vocalità del tenore, chiara e naturalmente musicale, sembra trovarsi a proprio agio nella scrittura mozartiana, affrontata con la giusta morbidezza nei cantabili e nelle arie. L’emissione è sempre corretta, così come adeguato il passaggio tra i registri. Coadiuvato da una presenza scenica di bell’aspetto, Sala, dipinge un sovrano giovane e titubante, roso dal senso del dovere e sensibile alle proprie passioni. Una prova complessivamente riuscita e inficiata in minima parte dall’annunciata indisposizione.
Al suo fianco spicca, e non può che essere altrimenti, il Sesto di Cecilia Bartoli. Il mezzosoprano regala, anche in questa occasione, una prova memorabile sotto tanti aspetti. Vocalmente si rimane stupefatti dinanzi ad un canto omogeno, delicatissimo e tecnicamente perfetto. L’esecuzione, poi, è intimamente connessa all’interpretazione ed ecco, allora, che ogni singolo suono viene permeato di una differente espressività con risultati sorprendenti. Ne sortisce un personaggio sfaccettato e moderno, costruito momento dopo momento con grande carisma. Le arie di Sesto, oltre a toccare vertici esecutivi assoluti per la fluidità del canto sul fiato e la precisione delle fiorettature, sono un esempio preclaro di cosa significhi interpretare anche solo attraverso uno sguardo, una pausa, una gestualità raccolta e appena abbozzata ma sempre efficace. Un’artista immensa, inarrivabile, è doveroso scriverlo e ribadirlo sempre.
Una piacevole sorpresa è la Vitellia di Mané Galoyan, in possesso di un mezzo ben timbrato e di buon volume. Il soprano affronta la parte e supera le numerose insidie della scrittura grazie alla corposità del registro centrale, al facile involo di quello acuto e alla naturalezza di quello più grave. L’interprete, poi, è sempre presente a se stessa in forza, tra l’altro, di un fraseggio diretto e scolpito.
Ottimo anche l’Annio di Anna Tetruashvili la cui vocalità, fresca e musicale, ben si presta a raffigurare l’animo appassionato del giovane amico di Sesto. Una prova in evidenza, oltre che per omogeneità e facilità di proiezione, anche per la disinvolta presenza scenica.
Squisita la Servilia di Mélissa Petit, dalla intonazione perfetta e dal timbro melodioso. Una esecuzione impreziosita dalla luminosità del registro superiore, oltre che dalla raffinatezza dell’emissione e dall’eleganza del fraseggio.
Completa la locandina il Publio dalla vocalità poderosa e stentorea di Péter Kálmán che, privato della propria aria, diviene poco più di un comprimario.
Di straordinaria compattezza, infine, la prova del coro monegasco, splendidamente diretto da Stefano Visconti. Tra i vari momenti sono da ricordare, per intensità ed incisività , l’atterrito sgomento con cui viene commentato l’incendio in Campidoglio, così come il giubilo celebrativo che chiude l’opera.
Al termine gli artisti tutti sono accolti da travolgenti e giustissimi applausi.
LA CLEMENZA DI TITO
Opera seria in due atti
Libretto Caterino Mazzolà da Pietro Metastasio
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Tito Giovanni Sala
Vitellia Mané Galoyan
Sesto Cecilia Bartoli
Servilia Mélissa Petit
Annio Anna Tetruashvili
Publio Péter Kálmán
Les Musiciens du Prince-Monaco
Direttore Gianluca Capuano
Coro dell’Opéra de Monte-Carlo
Direttore del coro Stefano Visconti
Regia Jetske Mijnssen
Scene e costumi Ben Baur
Luci Bernd Purkrabek
Crediti OMC – Marco Borelli