Iphigénie en Aulide, Iphgénie en Tauride – Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence
Il Festival d’Aix-en-Provence inaugura il cartellone 2024 con una proposta originale e affascinante, presentando nella medesima serata le due Iphigénie composte da Cristoph Willibald Gluck per l’Accademie Royal de Musique dopo essere finalmente approdato, negli anni della sua maturità artistica, alle scene parigine. Le due opere, nate l’una a distanza di cinque anni dall’altra come lavori indipendenti e con libretti redatti da due autori diversi, vengono qui saldate in un unico allestimento dalla complessa costruzione registica di Dmitri Tcherniakov, che realizza una cornice assai coinvolgente dove il classicismo musicale del pieno Settecento viene posto in un continuo dialogo con la sensibilità contemporanea dalla vivida lettura di Emmanuelle Haïm sul podio e dalla versatilità espressiva di Corinne Winters nel ruolo della protagonista.
Nell’ Iphigénie en Aulide e nell’Iphigénie en Tauride, che debuttarono a Parigi negli stessi della versione francese di “Orfeo e Euridice”, i canoni rigorosi della tragedie lyrique si incontrano con le istanze della “riforma” gluckiana per il rinnovamento dell’opera, con il ritorno ad una maggiore aderenza tra musica e testo rispetto al teatro barocco e con trame essenziali ispirate all’epica e al mito. Le tragedie di Euripide, mediate dalle rielaborazioni di Racine e del meno famoso de La Touche, costituiscono infatti le fonti letterarie della vicenda, che ci racconta della bella figlia di Agamennone e promessa sposa di Achille che acconsente a venire immolata per placare gli Dei che impediscono alle navi di salpare per Troia. Salvata in extremis dall’intervento di Diana, riparerà in Tauride dove sarà però costretta a sacrificare a sua volta ogni straniero alla sua Divinità salvatrice. Sarà poi l’arrivo di suo fratello Oreste con l’amico Pilade a spezzare finalmente la catena della barbarie.
Il discorso di Tcherniakov riprende puntualmente questo nucleo tragico, spostando il conflitto tra la spontaneità del singolo e il conformismo del potere, e pone appropriatamente al centro della narrazione il tema del sacrificio, diverso da quello antico ma comunque finalizzato a propiziarsi le nuove divinità: un rito prefigurato nel sogno di Agamennone durante l’overture e richiesto dall’establishment sociale, che appare minaccioso benché agghindato per le nozze nei significativi costumi di Elena Zytseva. Quello che pare un incubo si avvera poi nel primo finale, con drammaturgica simmetria, e la fresca e vitale protagonista, destinata a sposare il gran mattatore di tutta quella mondanità, viene sacrificata alle aspettative e alle convenzioni che operano alla stregua della cieca Necessità. La sposa resta in scena cadavere, in un’artificiosa allegria generale, e potremmo dunque dire che qui i conti non tornano, anche se il lieto fine è invero posticcio e lo stesso Gluck doveva esserne poco convinto, avendolo riscritto più volte. Il tutto ha però una grande coerenza drammatica con la storia che segue e che si va ulteriormente complicando con il tema della “Guerre”, come viene appunto scritto sul sipario all’intervallo. Gli aspetti di questa regia in effetti sono davvero molteplici e, anche se sono abilmente assemblati, rendono la fruizione decisamente impegnativa, offrendo innumerevoli suggestioni e prospettive di indagine.
La casa paterna domina la scena, anzi è tutta la scena, scomposta in ambienti diversi secondo le forme geometriche ideate dallo stesso Tcherniakov. “Stanotte ho sognato il palazzo di mio padre” canta Ifigenia al principio della Tauride, immersa in una tenebra dove la casa è rimasta senza pareti e dove i contorni sono tracciati da neon che guizzano come saette, secondo il disegno di Gleb Flishtinsky. Qui ritroviamo la protagonista invecchiata, vent’anni più tardi, tra emarginati, gente senza fissa dimora o rifugiati di guerra; una donna che forse è fuggita o che forse ha rinunciato a sé in nome del collettivo e che ci spinge verso un crinale che sembra farsi sempre più psicanalitico. E del resto la scelta di salvare Pilade o Oreste si configura come un decidersi per il proprio destino, liberandosi da quella trappola mortale che imprigiona il desiderio e la libertà. Allora, con buona pace degli spettri incolori che ricompaio sul fondo dall’Aulide, tutta questa complessa narrazione può concludersi nella semplicità: i bruti sono sconfitti e gli eroi possono andarsene, mentre nella casetta, che fu un grande palazzo, resta soltanto chi ha ritrovato se stesso e il suo posto nel mondo.
In un contesto registico così articolato, Emmanuelle Haïm ricrea le due partiture con rigore e gusto per il dettaglio, con varietà di accento e ricchezza di sfumature, mentre da parte loro Le Concert d’Astrée mantengono costantemente un suono definito e voluminoso, grazie soprattutto alla morbidezza degli archi e nella precisione delle percussioni. Una lettura che alterna la compostezza dello stile settecentesco a momenti ispirati ad un sentire più contemporaneo e che realizza un ottimo collegamento con il palcoscenico. La sintonia si consolida principalmente nella Tauride, con rallentamenti e pause, che potrebbero apparire addirittura eccessive, ma che danno spazio ai cantanti e che emergono per vigore drammatico. Nel complesso, l’intero flusso sonoro della seconda parte ha un taglio più analitico, con parti che, con battute marcate, si distinguono per slanci grintosi e appropriatamente barbari, ed altre che sono invece improntate ad una mesta cantabilità e a un più spiccato lirismo.
Punto focale dell’intero allestimento è la prova davvero magistrale di Corinne Winters, che riesce a delineare con chiarezza e spontaneità l’evoluzione della protagonista dalla prima giovinezza alla piena maturità. La sua vocalità nitida ed omogena si piega di volta in volta al canto fresco della ragazzina come all’incisività della donna tormentata, intensificando progressivamente il proprio spessore drammatico. Di grande saldezza nei centri si muove con disinvoltura anche nei gravi e nelle note più alte, come nell’ampia aria in due parti del finale dell’Iphigénie en Aulide. Ha poi un’espressività intensa e sbalzata nel superbo inizio della seconda parte e, senza cali o cedimenti, affronta con grande sicurezza le struggenti arie della Tauride.
Pregevole e di notevole affiatamento tutto il cast dei cantanti, a partire da quello della prima parte, con la Clytemnestre di Véronique Gens, che dimostra una notevole estensione e un’ottima tenuta delle note. Sognante e malinconica la sua prima aria, mentre quella al terzo atto è di visionaria potenza. Molto intenso l’Agammennon di Russell Braun che,con una dizione scandita e una declamazione modulata, traccia un personaggio lacerato tra il dovere del capo e l’affetto del padre, orgoglioso ma ricco di umanità, come perfettamente rappresentato nel monologo che chiude il secondo atto.
Alasdair Kent rende con originalità la figura di Achille, esibendo una vocalità generosa pur con qualche proiezione forzata e qualche incertezza nell’intonazione. Incisivo e ben strutturato il Calchas di Nicolas Cavallier, con un esordio inquietante e magnetico.
D’impatto l’annuncio fatale dell’Arcas di Tomasz Kumięga, dall’emissione nitida e lo stile drammatico; pieni e compatti gli interventi del Patrocle di Lukáš Zeman.
Per quanto poi riguarda l’Iphigénie en Tauride, spicca la coppia Oreste e Pylade, interpretati rispettivamente da Florian Sempey e Stanislas de Barbeyrac in un continuo oscillare tra violenza ed affetto. Il primo, con voce morbida e ben timbrata, ha un canto rotondo e vigoroso che assume tratti allucinati nell’aria al secondo atto, mentre riesce intimo e accorato nella sezione conclusiva. Barberyac da parte sua, esteso e omogeneo, dalla linea nobile ed elegante, plasma un Pylade schietto e aggressivo. Smagliante e di virile tenerezza la sua grande aria iniziale e ricchi di pathos i dialoghi con l’amico.
Colpisce la vocalità rigogliosa e profonda di Alexandre Duhamel nella parte del barbaro Thoas, che sbalza con forza e rigore la sua aria iniziale. Delicata e commovente la Prêtresse di Laura Jarrell. Ritroviamo infine ancora Tomasz Kumięga nel ruolo di un Ministre dalla proiezione definita, e la trasparente Soula Parassidis che era già stata la dea Diane in Aulide.
Vera e propria scenografia sonora delle due tragédie-opéra è il Coro de Le Concert d’Astrée diretto daRichard Wilberforce, con interventi ben amalgamati e con accurate variazioni dinamiche. Di una grazia sospesa i cori all’arrivo di Ifigenia e quelli in apertura dell’ultimo atto in Tauride e alquanto suggestivi quelli degli Sciti dal tono esotico.
Se il pubblico si mantiene abbastanza tiepido nel corso della rappresentazione, probabilmente perché assai concentrato e immerso nello spettacolo, esplode poi alla fine tributando fragorosissimi applausi alla Winters e dispensando consensi a tutti gli interpreti e a Emmanuelle Haïm.
IPHIGÉNIE EN AULIDE
TRAGÉDIE-OPÉRA EN TROIS ACTES
LIVRET DE MARIE FRANÇOIS-LOUIS GAND LE BLAND DIT BAILLI DU ROULLET
IPHIGÉNIE EN TAURIDE
TRAGÉDIE MISE EN MUSIQUE EN QUATRE ACTES
LIVRET DE NICOLAS-FRANÇOIS GUILLARD
CHRISTOPH WILLIBALD GLUCK
Direction musicale Emmanuelle Haïm
Mise en scène, scénographie Dmitri Tcherniakov
Costumes Elena Zaytseva
Lumière Gleb Filshtinsky
Dramaturgie Tatiana Werestchagina
Chef de chœur Richard Wilberforce
Chœur et Orchestre Le Concert d’Astrée
IPHIGÉNIE EN AULIDE
Iphigénie Corinne Winters
Agamemnon Russell Braun
Clytemnestre Véronique Gens
Achille Alasdair Kent
Calchas Nicolas Cavallier
Diane Soula Parassidis
Patrocle Lukáš Zeman
Arcas Tomasz Kumięga
IPHIGÉNIE EN TAURIDE
Iphigénie Corinne Winters
Oreste Florian Sempey
Pylade Stanislas de Barbeyrac
Thoas Alexandre Duhamel
Diane Soula Parassidis
Un Ministre, un Scythe Tomasz Kumięga
Une Prêtresse Laura Jarrell
Foto: Festival d’Aix-en-Provence 2024_© Monika Rittershaus