La clemenza di Tito – Haus für Mozart, Salisburgo
La clemenza di Tito di Wolfgang Amadeus Mozart inaugura il Salzburger Festspiele Pfingsten 2024.
“Oh, indimenticabile momento dell’arrivo, attraverso la porta scavata nella roccia, accanto alla fontana nelle cui acque il vescovo lasciava abbeverare i cavalli dei suoi parenti! Passai davanti alle antiche case ammassate sotto la roccia, imboccai il vicolo di Mozart e attraversai la splendida piazza della grande cattedrale!” Così Annemarie Schearzenbach, giornalista e fotografa svizzera descrive il suo arrivo nella città di Mozart. Parole che ben descrivono quel misto di meraviglia e stupore che proviamo nel borgo riconosciuto come patrimonio dell’umanità e tutelato dall’ Unesco. L’occasione per la visita, questa volta, è il Festival di Pentecoste, creato nel 1973 da Herbert von Karajan, inizialmente con soli concerti dei Filarmonici di Berlino e, dal 1998, con un vero e proprio breve Festival che, dal 2012, propone in anteprima una delle opere che si rivedranno nel più lungo evento estivo.
La direttrice artistica Cecilia Bartoli, ormai al suo dodicesimo anno di mandato, punta per questa edizione a celebrare interamente e nel migliore dei modi il più illustre figlio di Salisburgo e ci propone “Tutto Mozart” dal 17 al 20 maggio 2024. L’opera scelta per l’apertura è La clemenza di Tito (K 621) che la Bartoli aveva già affrontato e proposto, ma solo in forma di concerto, nel 2022. Il titolo, del 1791, è una delle ultime opere del genio austriaco, composta secondo una voce popolare in soli diciotto giorni in occasione dell’incoronazione di Leopoldo II d’Asburgo Lorena come re di Boemia. Un’opera poco rappresentata nei teatri e che, forse, si porta dietro l’ingiusto giudizio negativo della moglie del sovrano Maria Luisa di Borbone e, più tardi, quello di Wagner.
A ridare visibilità a questo titolo ci pensa comunque il Festival con una nuova produzione affidata per la regia a Robert Carsen e, per le scene ed i costumi, a Gideon Davey. Il palco si apre sui palazzi del potere italiano, siamo in un generico ufficio dove si notano però le bandiere tricolori e loghi simili a quelli delle nostre camere parlamentari. Tito è un presidente della repubblica o del consiglio e l’intera scena è giocata con grande efficacia e minimalismo, costruita con sedie, scrivanie e tutto ciò che compare in un ambiente di lavoro. Talora nella parte alta del palco si apre una parete che lascia intravedere delle sedute, che paiono alludere ad un parlamento. Una scelta essenziale e pulita che viene gestita dal regista con movimenti scenici precisi, funzionali al massimo e di grande sapienza ed intelligenza. Bella la scena, alla fine del primo atto, dell’assalto al Campidoglio, ricreata con l’aiuto di un video, a cura di Thomas Achitz, che ci ha subito ricordato i fatti accaduti a Capitol Hill il 6 gennaio 2021. L’idea di fondo, che però non appare di per sé così originale, si traduce nel secondo atto in un finale che il pubblico ha ampiamente e, a nostro avviso, giustamente, contestato. Nel finale, Tito, diversamente da quanto il libretto indichi, viene ucciso da un gruppo di assalitori guidato da Publio e la sedia presidenziale viene usurpata da Vitellia. Quest’ultima ricorda nelle fattezze e nell’abbigliamento l’attuale presidente del consiglio italiano. Vogliamo sorvolare su questa curiosa “coincidenza”: una provocazione che suonerebbe al massimo ridicola. Non possiamo fare a meno di notare, con disappunto, che tutta questa lettura va in totale dissonanza con il senso generale dell’opera e con il suo finale, uno scollamento di senso che il pubblico in sala, così come chi scrive, ha poco gradito. Forse il regista voleva intendere che oggi un reggente illuminato come Tito non sarebbe più capito ed apprezzato? In ogni caso il messaggio risulta confuso e poco coerente con l’opera. Lo spettacolo, comunque, lo ribadiamo, è visivamente riuscito e decisamente curato, il colpo d’occhio si completa con il comparto luci dello stesso regista, in collaborazione con Peter Van Praet, con le coreografie di Ramses Sigl e con i costumi ben rifiniti e di taglio contemporaneo dello stesso Davey.
Ma se il finale ha creato qualche perplessità molte meno ne ha create il ragguardevole comparto musicale dello spettacolo che raggiunge livelli di eccellenza oggi difficilmente eguagliabili.
La bacchetta di Gianluca Capuano è mirabile nello scandagliare la partitura nelle sue molteplici sfumature, portando in evidenza anche il più piccolo dettaglio. La grande attenzione riposta nella scelta delle dinamiche e dei tempi rappresenta il frutto di un lavoro meticoloso ed approfondito sul testo musicale che risplende, così, attraverso una narrazione incalzante ed emozionante. Una prova maiuscola grazie anche allo splendido contributo dei complessi de Les Musiciens du Prince – Monaco, in grado di restituire un suono terso e pastoso, un’autentica esplosione di colori che avvolge il palcoscenico e si fonde meravigliosamente con le vocalità dei singoli interpreti. Un plauso incondizionato deve essere rivolto ai continuisti, ovvero Davide Pozzo, Andrea Del Bianco e Antonio Papetti, rispettivamente al cembalo, al fortepiano e al violoncello, protagonisti di una esecuzione che si distingue per precisione e brillantezza.
Sul palcoscenico domina, ça va sans dire, Cecilia Bartoli, cui spetta il compito di interpretare Sesto, tra i personaggi più (se non il più) completi ed affascinanti dell’opera. Definire la Bartoli una fuoriclasse le renderebbe giustizia (oltre ad essere una oggettiva constatazione), ma potrebbe non essere un termine esaustivo per rappresentare la sua immensa personalità. Quando Cecilia (ci si permetta la licenza) sale sulla scena, siamo davanti ad un carisma senza eguali, ad un esempio raro, forse unico, di cosa significhi essere – e non solo fare – teatro. Una prova di ciò? Si pensi alla fantasia di un fraseggio miniato a regola d’arte, alla intensità e alla espressività di una emissione sempre controllata ed indirizzata a sottolineare l’autenticità e la verità della parola e del gesto teatrale. Una cantante di grande intelligenza che sa sfruttare la propria vocalità, di miracolosa tenuta dopo questi anni di carriera, e plasmarla alle richieste dell’autore per siglare una prova vocale di magistrale perfezione. La bravura nel sottolineare le differenti temperature emotive delle due grandi arie di Sesto “Parto, ma tu, ben mio” e “Deh per questo istante solo”, così come il drammatico realismo del recitativo accompagnato “Oh Dei, che smania è questa” nel finale primo, ascrivono questa grande artista come autentica tragédienne in grado di stregare il pubblico che la acclama al termine con un assordante, quanto meritatissimo, boato di applausi.
Daniel Behle è un Tito dalla vocalità brillante e piuttosto uniforme. Affronta con sicurezza le difficoltà della scrittura mantenendo una linea di canto composta e misurata. L’interprete esibisce, inoltre, un fraseggio asciutto e diretto, quale ben si conviene ad un potente. Il contrasto di sentimenti che albergano nell’imperatore e, in particolare, il dissidio tra il dovere di condannare e il desiderio di concedere la clemenza all’amico Sesto, vengono sottolineati al meglio attraverso un accento adeguatamente morbido ed accorato.
Alexandra Marcellier, con il suo strumento di buon volume e dal peculiare impasto timbrico leggermente acidulo, si cimenta con l’impervio ruolo di Vitellia. Il soprano non si risparmia e, tra impennate verso il registro acuto, ben sfogato, e improvvisi affondi nella regione più grave, raggiunta con adeguata naturalezza, esce a testa alta da questa prova regalando una esecuzione riuscita specie dell’aria finale “Non più di fiori”. L’artista convince anche sotto il piano interpretativo, coniugando l’incisività del fraseggio con la l’efficacia di una presenza scenica seducente ed elegante.
Mélissa Petit è una Servilia dalla linea di canto musicale e melodiosa. Lo strumento, omogeneo e ben proiettato, viene esibito dall’artista con perizia esecutiva e la giusta aderenza stilistica. La duttilità e la varietà del fraseggio contribuiscono, poi, a tratteggiare una eroina sicura e determinata.
Spicca la prova di Anna Tetruashvili, il cui mezzo, dal colore vellutato e dal timbro screziato, si mostra ideale per dare vita all’appassionato personaggio di Annio. L’esecuzione vocale, sempre curata e rifinita, si completa con una interpretazione scenica ispirata e coinvolgente.
Completa il cast il Publio di Ildebrando D’Arcangelo, con la sua vocalità ampia e scura, dal lussureggiante timbro notturno. Gli interventi a lui riservati vengono scanditi con efficacia e precisione, conferendo il giusto rilievo a questo personaggio che, in questa produzione, ci viene presentato nella sua indole ambigua di amico, prima, e traditore, poi, di Tito.
Resta, infine, da riferire della splendida prova del coro Il Canto di Orfeo, ottimamente diretto da Jacopo Facchini. Pochi sono gli interventi riservati alle masse in questa partitura, ma non possiamo mancare di sottolineare l’efficacia con cui vengono risolti e, in particolare, come viene evidenziato il contrasto tra lo sgomento del finale primo e l’esaltazione della pagina conclusiva del dramma.
Il numerosissimo pubblico presente in sala, saluta i principali numeri solistici con grande entusiasmo. Al termine della recita, artisti e direttore vengono accolti con ripetute acclamazioni frammiste, come già ricordato, a sonori dissensi all’apparire del team creativo.
Insomma una splendida serata di musica e una degna celebrazione del genio mozartiano nella sua patria, non si poteva certo sperare di meglio!
La clemenza di Tito
Opera seria in due atti di Wolfgang Amadeus Mozart (K621)
Libretto di Caterino Mazzolà
Tito Vespasiano Daniel Behle
Vitellia Alexandra Marcellier
Sesto Cecilia Bartoli
Servilia Mélissa Petit
Annio Anna Tetruashvili
Publio Ildebrando D’Arcangelo
Les Musiciens du Prince – Monaco
Direttore Gianluca Capuano
Il Canto di Orfeo
Maestro del coro Jacopo Facchini
Regia e luci Robert Carsen
Scene e costumi Gideon Davey
Luci Peter Van Praet
Video Thomas Achitz
Coreografie Ramses Sigl
Foto: SF/Marco Borrelli