Spettacoli

Jenufa – Roma, Teatro dell’Opera

Quando l’abisso del male mette a nudo la verità di ogni cuore. Questo potremmo dire della Jenufa di Leoš Janáček, andata in scena al Teatro dell’Opera di Roma, con la direzione di Juraj Valčuha e la regia di Claus Guth, in un‘edizione che parla un linguaggio asciutto e penetrante e che realizza una rappresentazione unitaria e coerente, tanto sotto l’aspetto visivo quanto nella forma musicale. Non sono soltanto i mostri a compiere delitti efferati e le ferite peggiori si infliggono proprio a coloro che amiamo di più: e quest’ allestimento, in linea con l’opera, ci conduce appunto dentro l’orrore e ci consegna al dramma della nostra fragilità.

Il sipario si apre su una scena inscatolata dalle bianche pareti di una casa di legno, spazio senza porte né finestre, dove il mulino è una fabbrica-villaggio, chiusa in se stessa e separata da ogni paesaggio, priva dunque di orizzonti. In questa grande camerata ogni letto ha la sua culla, gli uomini si alzano per iniziare il lavoro, mentre le donne sono già impegnate nella cernita delle patate – azione tra l’altro a cui fa riferimento proprio la prima didascalia del libretto, con il quale la regia si mantiene in stretta aderenza, imitandone certe fissità e le numerose ripetizioni, come da parte sua fa anche la musica. La vecchia Burija, seduta nel centro, ci appare come la custode dell’ordine di questa piccola comunità formata da famiglie tutte uguali; ma forse più ancora di lei lo è Kostelnicka, la Sagrestana, madre adottiva di Jenufa e per tutti modello di serietà e disciplina. Questo grigiore è comunque spezzato dall’esuberanza dei giovani e precipita febbrilmente verso la scena dello sfregio, davvero molto ben costruita, con il racconto dell’accaduto, il fazzoletto insanguinato, la gente che si accalca e Jenufa che infine sbuca fuori dal coro a mostrare la sua ferita e la sua singolarità.

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Cornelia Beskow e Karita Mattila


Il senso di oppressione e di imprigionamento si intensifica nel secondo atto, con le reti di letti ribaltati a delimitare la gabbia che è diventata la casa di Kostelnicka e Jenufa, mentre le donne del paese restano sullo sfondo nelle loro nere figure allungate. La sequenza è d’impatto anche se meno fluida e diretta rispetto alla precedente, per giunta con la trovata posticcia e del tutto superflua della signora che in forma di corvo si stacca dal gruppo e va ad appollaiarsi sul tetto. D’altro canto, nel generale sconquasso, colpisce il gesto di Laca che tenta di rimettere insieme le reti e i materassi.
Le scene di Michael Levine con le luci di James Farncombe ritrovano la loro linearità discorsiva nel terzo quadro, dove la danza delle ballerine crea inoltre un efficace contrasto con il resto dell’ambiente spoglio e desolato, così come i costumi tradizionali che quasi stridono con gli altri abiti dai tagli severi, tutti opera di Gesine Völleme. D’ effetto poi la conclusione, con i due promessi che fuoriescono finalmente dalla struttura che delimita il palco e avanzano insieme verso il proscenio.

Il mondo sociale, che ha le sembianze di questo ambiente opprimente, non consente vie di scampo e ciascuno è dunque obbligato a trovare, con esiti tragici e differenti, una strada dentro di sé. La cornice, che pur nella sua articolazione rimane sempre scarna ed essenziale, convoglia tutta l’attenzione sull’interiorità dei personaggi, i cui tormenti ci vengono spietatamente rivelati dalla bravura degli interpreti, soprattutto dei tre principali.

Cornelia Beskow è una Jenufa nobile ed intensa, che conserva sempre qualcosa della sua luminosità anche nel dolore più schiacciante. La voce è omogenea e di ottima estensione, agile in ogni passaggio e limpida negli acuti, pur con qualche salita che riesce talora poco controllata. E’ fresca e vitale nella scena d’apertura, per acquisire uno spessore via più drammatico nel duetto con Steva e poi in quello con la madre. Struggente nella Salve Regina e di incantevole eleganza nel finale, dove fa emergere in maniera realistica e toccante tutto il suo percorso di sofferenze e trasformazione.

Karita Mattila è una Kostelnicka di straordinaria espressività, con un fraseggio scolpito e compiutamente organizzato che supplisce ad un corpo vocale di consistenza altalenante. Se al primo atto ha un contegno sofferente e dignitoso, nel secondo esprime con tagliente vividezza la sua angoscia e il suo precipitare con violenza nel delirio. Continua tuttavia a destare compassione anche quando la ritroviamo ammalata e consumata dal rimorso, mentre proprio con il delitto si era illusa di preservare la sua serenità e la felicità della figlia. Nelle scene conclusive riesce infine vocalmente più sbalzata, con proiezioni definite ed una maggiore rotondità. Atroce e ineffabile il suo estremo cantare “solo ora vedo che più di te ho amato me stessa”

Charles Workman è un Laca irruento e appassionato, con una vocalità potente ed estesa, anche se di tanto in tanto con qualche acuto tremolante. Grintoso nella parte iniziale, ha poi un canto drammatico e molto incisivo nel duetto con la Sagrestana; nel finale è assai lirico e delicato, delineando così con finezza l’evoluzione del personaggio.

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Cornelia Beskow e Charles Workman

Ben rappresentata da Robert Watson la fatuità di Steva, con un’emissione voluminosa e rotonda ma piuttosto uniforme. E’ comunque pieno di pathos nel dialogo con Jenufa e in quello con Kostelincka.

Manuela Custer unisce efficacemente rigore e dolcezza nella figura ieratica della Vecchia Buryjovka, con un canto scandito ed espressivo anche se di contenuto volume.

Scolpito e compatto anche il Capomastro del Mulino interpretato da David Stout, con un finale del primo atto di grande forza e drammaticità. Fresca a e luminosa la Jana di Mariam Suleiman e morbida ed accorata la Barena di Valentina Gargano.

Sofia Koberidze attribuisce la giusta ingenuità e civetteria a Karolka, la fidanzata di Steva, esibendo una vocalità nitida ed una linea varia e modulata.

Puntuale e diretto il Sindaco di Lukáš Zeman e brillante e rotonda la Moglie di Anna Viktorova. Vivaci la Pastora di Ekaterine Buachidze e la Zia di Marzia Zanozin; ben proiettate la Voce di Donna di Arianna Morelli e quella di Uomo di Alessandro Fabbri.

Tutti gli interpreti trovano un saldo riferimento in Juraj Valčuha, la cui direzione conferisce una compatta unità all’intera narrazione, nell’attenta valorizzazione di ogni aspetto, arcaico e moderno, aggressivo e delicato. Con accordi precisi e sonorità definite, il flusso procede in una forma inquieta ed elegante, con accenti marcati e sospensioni drammatiche, vibrazioni nervose ed un accurato impiego delle percussioni. In alcuni passaggi il volume dell’orchestra rischia tuttavia di coprire le voci, mentre gli interventi del Coro diretto da Ciro Visco riescono sempre sbalzati con forza e amalgamati con cura.

Molto applauditi la Mattila e Watson ed un vero tripudio per la Beskow. Un notevole apprezzamento anche per il lavoro di Valčuha, in una sala che trabocca di commozione per un’opera che ci ha soprattutto ricordato di quanto abbiamo bisogno del perdono degli altri e gli altri del nostro. E che solo così può esserci un diverso futuro.

JENUFA

Musica di Leoš Janáček
Opera in tre atti su libretto del compositore tratto dal dramma Její pastorkyňa di Gabriela Preissová

Direttore Juraj Valčuha

Regia Claus Guth

MAESTRO DEL CORO Ciro Visco
SCENE Michael Levine
COSTUMI Gesine Völlm
LUCI James Farncombe
VIDEO rocafilm/Roland Horvath
COREOGRAFIA Teresa Rotemberg
DRAMMATURGIA Yvonne Gebauer

Personaggi e interpreti principali:
LA VECCHIA BURYJOVKA Manuela Custer
LACA KLEMEŇ Charles Workman
ŠTEVA BURYJA Robert Watson
LA SAGRESTANA BURYJOVKA (KOSTELNIČKA)  Karita Mattila
JENŮFA Cornelia Beskow
IL CAPOMASTRO DEL MULINO David Stout
IL SINDACO Lukáš Zeman
SUA MOGLIE Anna Viktorova
KAROLKA Sofia Koberidze
LA PASTORA Ekaterine Buachidze
BARENA Valentina Gargano
JANA Mariam Suleiman
LA ZIA (TETKA) Marzia Zanonzini
UNA VOCE DI DONNA Arianna Morelli
UNA VOCE DI UOMO Alessandro Fabbri

ORCHESTRA, CORO E CORPO DI BALLO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA

 Foto: Fabrizio Sansoni – Opera di Roma 2024