Gianni Schicchi/L’heure espagnole – Roma, Teatro dell’Opera
La commedia sta alla fine della storia. Si ride sull’orlo del precipizio o addirittura quando ci si è già caduti dentro, quando ormai tutto è compiuto. Un’idea che forse sarebbe piaciuta a Hegel che considerava la commedia l’ultima tappa nell’era moderna del percorso dell’arte. Un’idea che ci pare di intravedere nell’allestimento di Gianni Schicchi e de L’heure espagnole andati in scena al Teatro dell’Opera di Roma come secondo quadro del progetto Trittico Ricomposto. Dopo il primo momento tutto dedicato alla tragedia e all’orrore, con Il tabarro giustapposto a Il Castello del Duca Barbablù, è ora la volta del comico con due opere raffinate e straordinariamente scintillanti, che vengono tuttavia collocate dalla regia di Ersan Mondtag all’interno di una comune cornice con tratti apocalittici e inquietanti. Lo sfondo evoca atmosfere da giornata all’indomani di una catastrofe, tant’è che la casa di Buoso Donati ha un che di primitivo ma che appartiene al futuro. Le grandi finestre hanno i vetri rotti, come a seguito di un’esplosione e incombe sulla scena un grande orologio, con il quadrante simile al Big Ben, che ci proietta da subito verso la successiva opera di Maurice Ravel. Il tempo è uscito dai cardini, per dirla con Amleto, ma qui nessuno si preoccupa di rimettere le cose a posto, giacché pare sia giunto il tempo dei furbi e dei ladri. La famiglia Donati è appunto un clan di narcisi opportunisti, catalogo di varia umanità, colto in tutta la sua fragilità ed esuberanza nei coloratissimi costumi, realizzati da Johanna Stenzel in uno stile pacchiano che ricorda un’opulenza da mafia di Ostia. Valide drammaturgicamente le luci di Sacha Zauner, con schiarite che incrinano l’atmosfera cupa ed apocalittica e che ci fanno pensare che, forse, anche in tutto questo, possa esserci qualcosa di nuovo. L’amore tra Lauretta e Rinuccio, per esempio.
In questa cornice sospesa e sinistra, ma comunque sempre vivace, Carlo Lepore è un Gianni Schicchi istrionico e magnetico, che esibisce un canto assai modulato e incisivo, in una grande varietà stilistica, dal rabbioso al melodico fino all’abile camuffamento della voce e all’imitazione della cadenza fiorentina. Sempre saldo e omogeneo, è di grande solarità nel finale, con una spiccata capacità di commuovere.
Fresca ed ingenua la Lauretta di Vuvu Mpofu rende “O mio babbino caro” in una forma morbida e vellutata; mostra tuttavia qualche insicurezza nelle regioni più alte ed è piuttosto statica nella recitazione.
Giovanni Sala è Rinuccio, esteso ed omogeneo, con una proiezione chiara e definita. Risulta poco sognante nella romanza “Firenze è un albero fiorito” ma è poi assai lirico ed appassionato nel duettino finale con Lauretta.
Versatile e comica la Zita di Sonia Ganassi, con acuti robusti ma con i gravi un po’ fragili. Scandito e solenne Nicola Ulivieri, che con voce piena e rotonda è un Simone tonante nella sua falsa e pomposa autorevolezza.
Ben impostato il Betto di Roberto Accurso, con una singolare caratterizzazione del cognato scapolo e sopra le righe.
Di buona agilità nel suo bel timbro scuro la Ciesca di Ekaterine Buachidze e squillante e vivace la Nella di Valentina Gargano. Ampio e melodico il Gherardo di Ya-Chung Huang, anche se con un moderato volume, ed ha interventi precisi e scolpiti il Marco di Daniele Terenzi, in una vocalità calda e compatta.
Rotondo e sbalzato il notaro Messere Amantio di Mattia Rossi e con un canto rigoroso ed un’interpretazione grottesca il medico Maestro Spinelloccio di Domenico Colaianni.
Affiatati e ben assortiti il Pinellino di Marco Severin e il Guccio di Roberto Valenti. Simpatico e luminoso il Gherardino di Leopoldo Finotti.
La direzione di Michele Mariotti ci conduce con accuratezza dentro la varietà scoppiettante della partitura, con gesto energico e dinamiche continue e serrate. Attenta e feconda l’interazione con il palcoscenico, anche se talvolta il volume dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma finisce per coprire le voci. Rese con estrema brillantezza le parti concitate mentre risultano meno riuscite le parti più liriche e melodiche.
Applaudita con grande entusiasmo questa prima parte dello spettacolo, con un vero tripudio per Lepore e Mariotti.
La cornice realizzata da Mondtag risulta invece meno convincente nella messa in scena de L’ heure espagnole, dove sparisce il grande orologio e compaiono nella parte inferiore una serie di pendole, mentre le proiezioni di Luis August Krawen animano lo sfondo con arrampicate su montagne di teschi, paesaggi con vulcani, migrazioni di umani o post umani, dischi volanti e uccelli preistorici fino all’estremo passaggio di un aereo con la scritta “help”. Tutti questi movimenti dividono di fatto la scena in due e distraggono tanto dall’azione drammatica quanto dalla musica. Vero è che, se il libretto prevede come ambientazione la Toledo del XVIII secolo, le sonorità di Ravel ci pongono nel cuore del Novecento e che quindi la corda è già tesa sull’abisso. Tuttavia l’opera vive di una grazia leggera e di un gioco garbato di ammiccante erotismo che vengono compromessi dalle pesanti sovrapposizioni delle scelte registiche. La comicità e i doppi sensi emergono comunque grazie alle valide interpretazioni dei cantanti ed il tutto riesce comunque alquanto brillante e con la giusta dose di malintesi.
A questa atmosfera di garbata ma seducente leggerezza contribuisce in maniera determinante Karine Deshayes nel ruolo di Concepción, la moglie dell’orologiaio che approfitta degli impegni del marito presso la torre del municipio per incontrare i suoi amanti. E’ in ogni passaggio di grande omogeneità ed eleganza, rendendo con efficacia sia le parti frizzanti che quelle malinconiche.
Di grande simpatia ed esuberanza l’interpretazione di Markus Werba come Ramiro, l’aitante mulattiere costretto dalla bella signora a trasportare pendole da un piano all’altro. Con voce piena e rotonda, Werba è dinamico e incisivo negli scambi più comici mentre ci offre un fraseggio accurato e solare nel suo monologo in forma di arioso.
Esteso e melodico, pur con qualche incertezza iniziale nell’intonazione, Ya-Chung Huang, il Gherardo del Gianni Schicchi, che qui conferisce a Torquemada, il marito orologiaio, dinamismo e intensità.
Nei panni di Consalve ritroviamo Giovanni Sala, che caratterizza con grande originalità il personaggio, esibendo una linea di canto assai ricca e modulata e delineando un amante poeta tanto enfatico e appassionato quanto buffo e petulante.
Don Inigo Gomez, il ricco banchiere che ha fatto avere a Torquemada l’incarico di rimettere l’orologio civico, per andare a trovare la bella Concepción, è invece interpretato da Nicola Ulivieri, che dispiega un canto morbido e pieno di ironia.
In questa seconda parte, la direzione di Mariotti si dimostra altrettanto minuziosa e forse più originale, realizzando, pur con qualche imprecisione in apertura, un flusso unitario e compatto, con ritmi marcati e parentesi liriche.
Grandi applausi alla fine anche per questa seconda scintillante commedia o nuova opera buffa, con particolari tributi a Werba, Deshayes e Mariotti.
GIANNI SCHICCHI
L’HEURE ESPAGNOLE
Seconda parte del progetto triennale “Trittico ricomposto”
Direttore Michele Mariotti
Regia e sceneErsan Mondtag
COSTUMI Johanna Stenzel
LUCI Sascha Zauner
VIDEO Luis August Krawen
DRAMMATURGIA Till Briegleb
Gianni Schicchi
Musica di Giacomo Puccini
Opera in un atto
Libretto di Giovacchino Forzano ispirato a un episodio della Commedia di Dante Alighieri
GIANNI SCHICCHI Carlo Lepore
LAURETTA Vuvu Mpofu
ZITA Sonia Ganassi
RINUCCIO Giovanni Sala
GHERARDO Ya-Chung Huang
NELLA Valentina Gargano
GHERARDINO Leopoldo Finotti
BETTO Roberto Accurso
SIMONE Nicola Ulivieri
MARCO Daniele Terenzi
LA CIESCA Ekaterine Buachidze
SPINELLOCCIO Domenico Colaianni
SER AMANTIO DI NICOLAO Mattia Rossi
PINELLINO Marco Severin
GUCCIO Roberto Valenti
L’heure espagnole
Musica di Maurice Ravel
Comédie Musicale in un atto
Libretto di Franc-Nohain dalla propria omonima commedia
TORQUEMADA Ya-Chung Huang
CONCEPCIÓN Karine Deshayes
GONZALVE Giovanni Sala
RAMIRO Markus Werba
DON IÑIGO GOMEZ Nicola Ulivieri
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
Foto: Fabrizio Sansoni