Riccardo Muti dirige Gala Verdiano – Busseto, Teatro Verdi
Quando nel 1992 l’Associazione Amici di Verdi e l’Amministrazione Comunale di Busseto assegnarono al Maestro Riccardo Muti il premio “Verdi d’Oro – Città di Busseto”, qualche appassionato melomane si stupì che non fosse stato scelto un cantante come in passato. Seguì nel 1997 la Cittadinanza onoraria conferita dal Sindaco e dal Consiglio comunale per «impareggiabili meriti verdiani». Forse l’appassionato melomane si domandò: nel melodramma verdiano il direttore d’orchestra può avere più meriti di un cantante? La risposta è ampia e si fonda su vari documenti del XIX secolo.
Sin dalla prima veneziana (11 marzo 1851), il Rigoletto venne riconosciuto come il melodramma con il quale Verdi si allontanò «dal suo stile fino allora usato». Il critico della «Gazzetta Ufficiale di Venezia» indicò il nuovo linguaggio nell’uso accurato dell’orchestra dove «mirabile è il lavoro della strumentazione; quell’orchestra ti parla, ti piange, ti trasporta la passione, il concetto nel cuore». Del medesimo parere fu il critico della «Gazzetta Piemontese» (18 febbraio 1852): «lo strepitare degli strumenti metallici, non che dei difetti della scuola di Verdi, ha in quest’opera del Rigoletto lasciato il posto allo studio della frase, alla mirabile accuratezza estetica nella interpretazione del dramma». Attenzione per l’orchestrazione e studio delle frasi presenti anche nelle opere precedenti, ma che non tutti seppero rinvenire. Un esempio l’offre il soprano Marianna Barbieri Nini che raccontò quanto avvenne fra Verdi e il direttore d’orchestra Romani nel 1847, durante le prove del Macbeth alla Pergola di Firenze: «al cenno di Verdi il Romani gli si accostava, andavano in fondo al palcoscenico, e col quaderno sotto gli occhi l’autore accennava col dito i punti in cui l’esecuzione non era quella voluta da lui. “Dimmi tu come devo fare”, replicava con molta pazienza il Romani. Ma il Verdi raramente spiegava quel benedetto come. Si aiutava con gesti, con grandi percosse sul libro, rallentando con la mano o rafforzando i tempi, e poi, come se avesse avuto luogo fra i due una lunga e persuasiva spiegazione, il Verdi tornava addietro dicendo: “ora hai capito: così”. E il povero Romani doveva mettere a tortura l’ingegno acutissimo per capire, anche quando non aveva capito nulla, e per fare da interprete con l’orchestra e con i cantanti». Tornando al Rigoletto significativo è anche quanto scrisse il recensore de «La Fama» (Milano, 20 gennaio 1853): «È una musica che tien tal fiata dello antico senza perdere la vigoria del presente». Considerazione condivisa dal baritono Filippo Coletti, celebre interprete verdiano negli anni Quaranta e Cinquanta del’800, che nel suo trattato La scuola di canto in Italia annotò: «Gli artisti della scuola passata, cioè quelli da Rossini a Verdi, avevano educato il loro pubblico al sentimento del bello nel giusto limite della natura. Essi pure ottenevano effetti stupendi per sonorità, ma senza stento». Vocalità del passato che Verdi chiedeva associata alla recitazione per disporre di un artista completo, come scrisse il 31 gennaio 1847 alla Barbieri Nini impegnata nello studio del Macbeth: «badi bene che ogni parola ha un significato, e che bisogna assolutamente esprimerlo e col canto e coll’azione». Sempre a proposito del Macbeth, relativamente alla scena del sonnambulismo, il 7 marzo 1865 Verdi precisò a Léon Escudier: «La Ristori faceva un rantolo; il rantolo della morte. In musica non si deve, né si può fare; come non si deve tossire nell’ultimo atto della Traviata; né ridere nello “scherzo od è follia” del Ballo in maschera. Qui vi è un lamento del Corno inglese che supplisce benissimo al rantolo, e più poeticamente».
È evidente, quindi, che il direttore d’orchestra è fondamentale per la completa e corretta messa in scena delle opere verdiane. Musicista che deve conoscere la tecnica vocale del belcanto e le esigenze dei cantanti, ma anche il repertorio sinfonico precedente e contemporaneo a Verdi. Conoscenze che permettono di comprendere come Verdi modellò l’orchestra per colorare la scena, per muovere i personaggi in essa, per far emergere e infondere negli ascoltatori i loro stati d’animo. Paradossalmente, anche la migliore regia perde efficacia se l’orchestra è mal condotta, mentre un’attenta esecuzione di un melodramma in forma di concerto permette di creare la situazione nella nostra immaginazione. Oltre alle competenze del musicista, Verdi chiede al direttore di essere una persona di cultura. Conoscenze letterarie e storiche necessarie per penetrare nei pensieri degli autori e loro personaggi; conoscenze delle tradizioni musicali indispensabili per aderirvi consapevolmente e non per imitazione. Un esempio: rifiutare l’esecuzione di un acuto inserito nella partitura verdiana da un cantante dell’800 non significa rifiutare la tradizione dell’improvvisazione delle colorature o delle cadenze, tradizione che Verdi rispettò scrivendole direttamente in partitura, ma significa non imitare acriticamente quanto compiuto da altri senza l’autorizzazione e il gradimento di Verdi.
Equilibrio nelle sonorità, coerenza fra movimenti scenici e musica, quindi, ma anche eleganza nella gestione del tempo secondo la tradizione italiana che Verdi richiese anche nel 1895. In testa al suo Te Deum annotò: «Tutto questo pezzo dovrà eseguirsi in un solo tempo come indicato dal metronomo. Ciò malgrado in certi punti per esigenza di espressione e di colorito converrà allargare o stringere, ritornando però sempre al primo tempo».
Tuttavia, quanto illustrato sino ad ora non è sufficiente se poi il direttore non sa divenire artista. Il 20 febbraio 1871 Verdi stesso descrisse questa metamorfosi al senatore bussetano Giuseppe Piroli. Al termine del lungo percorso di studi, Verdi desiderava che il cantante «cantasse guidato solo dal proprio sentimento. Non sarebbe un canto di scuola, ma d’ispirazione. L’artista sarebbe un’individualità; sarebbe lui, o meglio ancora, sarebbe nel melodramma il personaggio che dovrebbe rappresentare». Invito che dovrebbe essere raccolto da tutti coloro che contribuiscono all’allestimento dell’opera. Personalmente ho osservato questa trasformazione nel 2001, quando riuscii a intrufolarmi alle prove del Falstaff nel Teatro Verdi di Busseto. Recuperate le statiche scenografie su tela utilizzate da Arturo Toscanini nelle recite bussetane del 1913 e 1926, il Maestro Muti le riempì con sonorità splendide ottenute senza stento, con una ricchezza di movimenti scenici ispirati dall’orchestra, attraverso la trasmissione ai cantanti dell’eleganza della tradizione musicale e interpretativa italiana.
E al rapporto artistico iniziato il 30 giugno 1976, quando diresse il Requiem verdiano in una gremitissima piazza Verdi, consolidato con il Falstaff del 2001, il Maestro Muti affiancò l’affetto personale per la terra di Verdi. Sentimento manifestato nell’inaugurazione del Museo di Casa Barezzi nel 2001 e ogni volta che si resero necessari lavori di restauro e tutela dei luoghi verdiani. Arte e affetto che ha riunito nel concerto di questa sera a favore della salvaguardia della Villa di Sant’Agata.
Dino Rizzo
Riccardo Muti, cittadino onorario di Busseto, torna nel piccolo scrigno del Teatro Verdi a dirigere un gala benefico a favore di Villa Verdi a Sant’Agata, emozionante e concreta testimonianza di un patrimonio musicale unico al mondo. Il concerto si inserisce nel solco di Viva Verdi, le iniziative promosse dal Ministero della Cultura per l’acquisizione e la valorizzazione della casa-museo del compositore.
Il Gala Verdiano è uno speciale appuntamento organizzato dal Ravenna Festival, in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna e il Comune di Busseto e per tutti gli intervenuti è un vero e proprio regalo di Natale. Come di consuetudine Muti riesce a fare uscire dagli spartiti accenti e colori che sorprendono come se fosse la prima volta e guida con fare paterno – con la stessa bacchetta usata per dirigere Falstaff nel 2001, poi donata al Museo di Casa Barezzi – la sua Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, che si prodiga in suoni precisi e raffinati, e il bravo Coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato da Corrado Casati.
Visibilmente emozionati, i soprani Elisa Balbo, Rosa Feola e Juliana Grigoryan, il mezzosoprano Isabel De Paoli e il tenore Giovanni Sebastiano Sala, si prodigano elegantemente nella pregiata esecuzione di alcune delle più toccanti pagine verdiane, ciascuno senza tradire la propria vocalità, nel più totale rispetto di un canto ben rifinito nel gusto e nello stile. Di gran classe l’interpretazione di Luca Micheletti e Riccardo Zanellato, chiaramente più avvezzi al repertorio verdiano, abili fraseggiatori, mai parchi d’accenti e soprattutto molto generosi.
Al termine dello spettacolo Riccardo Muti – nello scusarsi di non avere pronto un bis e nel promettere di ritornare presto a Busseto – parla al pubblico in difesa della filologia verdiana, così come fece nel 2001 al termine della prova generale di Falstaff.
William Fratti
Gala verdiano a Busseto
direttore Riccardo Muti
con Elisa Balbo, Isabel De Paoli, Rosa Feola, Juliana Grigoryan, Vittoria Magnarello,
Luca Micheletti, Riccardo Rados, Giovanni Sebastiano Sala, Riccardo Zanellato
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Corrado Casati direttore
Davide Cavalli maestro di sala
Foto Marco Borrelli