Un ballo in maschera – Verona, Teatro Filarmonico
Pubblico delle grandi occasioni per Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, ultimo titolo proposto da Fondazione Arena di Verona per la Stagione 2023 del Teatro Filarmonico.
Capolavoro tormentato dalle mille difficoltà poste dalla censura, prima borbonica a Napoli, dove avrebbe dovuto tenersi il battesimo dell’opera, e papalina poi, a Roma, dove l’opera fu rappresentata, al teatro Apollo, il 17 febbraio 1859. Il soggetto si basava su un libretto scritto per Daniel Auber da Eugène Scribe, il librettista legato per antonomasia allo stile Grand-Opéra francese, che di questo genere è fra i primi riuscitissimi esempi; l’opera si intitolava Gustave III, ou le bal masqué, rappresentata a Parigi nel 1833 e incentrata sul regicidio perpetrato nel 1792 ai danni del monarca svedese Gustavo III; logico che, in Italia, un tale soggetto sarebbe stato impossibile da rappresentare e, difatti, il libretto di Antonio Somma subì una tale messe di tagli e rimaneggiamenti che Verdi ritirò il titolo dal Teatro San Carlo per riproporlo in una nuova versione, a Roma, che toglieva qualsiasi riferimento all’omicidio del monarca, per trasformarlo in un più “accettabile” complotto ordito ai danni del Governatore di una remota regione delle Nuove Americhe un secolo prima. L’opera, nonostante le molte novità introdotte da Verdi sia nel tessuto orchestrale che vocale, ebbe un grandissimo successo ed entrò stabilmente in repertorio con le modifiche censorie rimaste invariate fino alla metà degli anni 50 del secolo scorso, quando si cercò di ripristinare l’ambientazione originale e recuperare i versi censurati, eliminando ulteriori scempi stratificatisi negli anni, anche in famosi e blasonati teatri (al Met, ad esempio, per anni si tagliava l’aria del terzo atto di Riccardo; si eseguiva il recitativo iniziale, omettendo “Ma se m’è forza perderti” e si passava direttamente al successivo “Ah! dessa è là”). Opera compiuta, passaggio definitivo a uno stile musicale che assorbe la tradizione italiana con il gusto francese del Grand-Opéra, nell’eliminare definitivamente, o, comunque, rinnovare in una perfetta fusione, quelli che erano i dettami dello stile italiano dell’opera; le arie sono di più ampio respiro, viene del tutto eliminata, o comunque modificata la formula aria/cabaletta a favore di uno stile più ampio e declamato, recitativi che impongono uno stile declamato di chiaro stampo francese, dove il tessuto orchestrale si fa più nutrito e più attento alla cura del dettaglio; gli interventi brillanti del paggio Oscar guardano, con una strizzata d’occhio, al personaggio di Urbain de Les Huguenots di Giacomo Meyerbeer; un tessuto dove il tono salottiero si integra alla perfezione nel contesto drammatico e ne amplifica, semmai, la portata distruttiva degli eventi drammatici (basta riascoltare il quintetto a chiusa della prima scena del III atto). Opera compiuta, si diceva, che musicalmente prevede una compagnia vocale attenta e precisa in ogni suo personaggio, dal principale fino alle parti di fianco, con un direttore in grado di cogliere la rivoluzionaria scrittura e saperla guidare con mano attenta e pugno saldo.
Francesco Ivan Ciampa dirige con mano sicura ma non riesce a saldare i vari episodi in una continuità narrativa ben definita. Soccorre i cantanti nei momenti di difficoltà e riesce a tenere saldo il rapporto fra buca d’orchestra e palcoscenico; qualche scollamento non inficia una prestazione più che dignitosa, anche se, alla fine della rappresentazione, non è mancato qualche isolato dissenso dalla Galleria.
Luciano Ganci parte bene, con un primo atto più che interessante, l’aria di sortita è ben cesellata come pure l’ostica ballata “Dì tu, se fedele”, con l’affondo in zona grave prescritto da Verdi perfettamente eseguito; il suo canto sa essere sempre vario e sfumato. Molto buono il duetto del secondo atto, ad onta di qualche acuto non perfettamente a fuoco e nel terzo atto affronta con generosità la sua grande aria.
Simone Piazzola è cantante di buona tecnica e fraseggio personale ma il personaggio di Renato, vocalmente, gli va stretto; nei momenti lirici riaffiora lo splendido timbro e la morbidezza di una voce nata più per affrontare ruoli come Giorgio Germont e, infatti, l’aria del terzo atto è stata il momento più coinvolgente tanto che il pubblico lo ha omaggiato con una meritata ovazione e qualche richiesta di bis.
Maria José Siri trova i suoi momenti migliori nell’aria del terzo atto mentre ne primi due qualche acuto problematico non inficia una linea di canto corretta e generosa.
Annamaria Chiuri ha la classe e la musicalità che sempre l’hanno contraddistinta e riesce a dare credibilità a un personaggio molto complesso.
Ottimo l’Oscar di Enkeleda Kamani, voce piccola ma ben emessa, musicale e corretta; le sue arie sono state un esempio di stile salottiero e salutate dal pubblico con un applauso fuori luogo, ma, sinceramente, spontaneo e meritato.
Silvano ha la bella voce e l’elegante stile di Fabio Previati, che trasforma un personaggio, solitamente ai limiti della comparsata e qui risolto con ottimo stile, tanto da farlo tornare al ruolo che merita.
Si è tenuto per ultimo (ma ultimo non è) lo spettacolo, un allestimento realizzato a Parma nel 1913, che rappresenta la grande scuola dell’arte teatrale, in questo caso la realizzazione di quinte e fondali, come si usava nel secolo scorso. A sipario aperto, si assiste ad un video che documenta il ritrovamento di queste tele, dipinte a mano nel 1913 ad opera dello scenografo Giuseppe Carmignani, e al loro certosino restauro; sulle ultime note del preludio il velario si alza mostrando il risultato di questo capolavoro, con una scena che toglie letteralmente il respiro; il gabinetto di Riccardo con una prospettiva laterale che è un capolavoro di dettagli e finezze. Altra meraviglia l’antro di Ulrica mentre, per evidenti limiti dovuti al fatto che alcuni fondali del secondo atto erano talmente compromessi da non poter essere recuperati, questa scena con il solo fondale, per altro bellissimo ma senza le quinte laterali, è di impatto meno travolgente. Con la prima scena del terzo atto, con la stanza della casa di Renato, si ripete lo splendore del primo, mentre, nell’ultima scena, come accaduto per il secondo atto, si è dovuto anche qui risolvere con una quinta nera che si alza per mostrare la bellissima sala da ballo che conclude l’opera. Uno spettacolo che era doveroso recuperare e riproporre (non sarebbe male, a questo punto, fissare in immagini un tale ritrovamento) per tenere viva la memoria della maestria degli scenografi e di tutti quegli artisti che nel secolo scorso hanno creato autentici capolavori.
La regia di Marina Bianchi si muove, intelligentemente, nel solco della tradizione, con movimenti equilibrati e apprezzabili controscene. Belli e curati i costumi di Lorena Marin. Lo stesso non si può dire dei movimenti coreografici, che sembravano improvvisati all’ultimo momento. Buone le luci di Andrea Borelli ma nel secondo atto, anche a causa di quanto si è scritto sopra riguardo i fondali, non si è riuscito a realizzare del tutto l’atmosfera dell’orrido campo.
Allo spettacolo ha arriso un grande successo, coronato da consensi unanimi per i principali interpreti con ovazioni per soprano e baritono.
Buona la prova del Coro diretta dal maestro Roberto Gabbiani.
La serata è stata dedicata al maestro Julian Kovatchev, scomparso prematuramente qualche settimana fa e che qui, proprio al teatro Filarmonico, debuttò a Verona con quest’opera nel 2002.
Abbiamo assistito anche alla recita di venerdì 22, che prevedeva Daria Masiero al posto di Maria Josè Siri.
Bisogna sotolineare che la concertazione di Francesco Ivan Ciampa è risultata sensibilmente più equilibrata, più sicura nelle dinamiche e nel supporto a cantanti e coro, nei limiti di un’orchestra che, bisogna ammettere, è più abituata a suonare in uno spazio vasto come l’Arena di Verona e che pare non riesca ad equilibrare il suono a uno spazio più ristretto come la sala del Filarmonico. Si potrebbero fare tanti esempi sulle felici intuizioni del maestro Ciampa ma ci limitiamo a un plauso per la bellissima prova offertaci.
Daria Masiero non ha una voce particolarmente ampia ma è ben emessa e, ad onta di qualche suono non particolarmente riuscito, il senso del fraseggio e la sentita partecipazione scenica hanno contribuito a realizzare un personaggio sfaccettato e complesso.
Gli altri interpreti hanno confermato le qualità espresse nella serata del 17 ma è doveroso segnalare il personalissimo e meritatissimo successo di Enkeleda Kamani che, nella sua meravigliosa aria del terzo atto, splendidamente cantata e deliziosamente eseguita, ha ottenuto il più lungo e meritatissimo applauso della serata.
Un ballo in maschera
di Giuseppe Verdi
Libretto di Antonio Somma
Direttore Francesco Ivan Ciampa
Regia Marina Bianchi
Scene Giuseppe Carmignani
Coordinamento spazio scenico e arredi Leila Fteita
Costumi Lorena Marin
Luci Andrea Borelli
RICCARDO Luciano Ganci
RENATO Simone Piazzola
AMELIA Maria Josè Siri (17) Daria Masiero (22)
ULRICA Anna Maria Chiuri
OSCAR Enkeleda Kamani
SILVANO Fabio Previati
SAMUEL Romano Dal Zovo
TOM Nicolò Donini
UN GIUDICE/UN SERVO DI AMELIA Salvatore Schiano di Cola
Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Arena di Verona
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Allestimento storico (1913) del Teatro Regio di Parma in coproduzione con Auditorio de Tenerife
Foto Ennevi