Turandot – Festival Puccini, Torre del Lago
Dopo un avvio singolarmente burrascoso, il Festival Puccini, già all’indomani della serata inaugurale, prosegue con Turandot, con la direzione di Robert Trevino e riproponendo l’allestimento realizzato da Daniele Abbado per l’estate del 2021.
La produzione si conferma una lettura raffinata e stimolante del capolavoro pucciniano, una rappresentazione che ci spinge ad approfondire ed in parte a ripensare quanto dell’opera credevamo di sapere. Le scenografie di Angelo Linzalata si dimostrano particolarmente appropriate al palco del Gran Teatro, di cui riprendono la verticalità delle strutture laterali. Le torri mobili e gli eleganti e coloratissimi costumi di Giovanna Buzzi evocano la Pechino dell’età mandarina, mentre le superficie grigie con i geroglifici cinesi rimandano al periodo maosita; dal canto loro, le luci a neon e le strutture metalliche proiettano la vicenda in una realtà futuribile tecnologica e underground. Questa sovrapposizione di elementi non rende l’ambientazione semplicemente astorica, ma tutta la comprende in una dimensione fiabesca: la narrazione avviene dunque nel mito, anche se in un continuo e sotteso dialogo con le catastrofi di un Novecento sanguinario. Emblematica in tal senso l’esecuzione del Principe di Persia e l’intero primo quadro, di magnetica suggestione nelle coreografie di Simona Bucci.
Ma c’è dell’altro e c’è di più, come ci rivela l’inizio del secondo atto. La scena nella casa di Ping, Pong e Pang ci fa passare dalla tragedia alla commedia e ci mostra come i tre funzionari non siano in realtà altro che maschere, attori rimasti imprigionati nella storia che sono stati chiamati a rappresentare e dalla quale non riescono più ad uscire. In questa prospettiva la Cina fiabesca o fantascientifica è il Teatro, metafora del gran teatro del mondo, dove c’è qualcosa che non va, un “gelo” che avvelena, sortilegio e malattia. Ma il male va indagato ed in questa sfida si lancia eroicamente il Principe senza nome, che cerca la verità risolvendo gli enigmi. La purezza di Liù da tutta questa violenza viene travolta e cade, ma non dandosi la morte con il pugnale, ma quasi avvelenandosi, ovvero cospargendosi di sangue, in una sorta di terribile rito sacrificale. Nel finale di Luciano Berio, scelto per quest’edizione, come nella regia di Daniele Abbado, il gelo di Turandot finalmente si scioglie. L’incantesimo è spezzato e le tre maschere possono prendere finalmente congedo dalla loro parte. La fiaba si dissolve e il gioco del teatro si conclude. Finisce, sì, ma terminando si apre, lasciandoci in custodia una domanda: l’amore nel mondo avrà davvero trionfato?
Sul versante squisitamente musicale, la lettura di Robert Trevino si dimostra costantemente orientata alla trasparenza delle sonorità e alla resa dei colori, con una cura meticolosa degli impasti orchestrali, per lo più morbidi e lucenti. La narrazione procede con naturalezza, i tempi sono ampi ma non eccessivamente dilatati; effetti in piano e in pianissimo si alternano a momenti impetuosi e gli aspetti ritmici vengono valorizzati da una scansione precisa e brillante. Buona è la sintonia con i cantanti ed ottima l’intesa con l’orchestra, che dà forma ad un suono voluminoso e screziato. Ben costruiti i concertati del quadro iniziale ed assai dinamica la scena del siparietto delle tre maschere; manca invece un po’ di solennità la parte degli enigmi. Di notevole raffinatezza l’esecuzione del finale di Berio, con melodie definite, preziose armonie e delicati cromatismi che tratteggiano un incanto sospeso ed interrogativo.
Pur con alcune incertezze iniziali, riesce suggestivo e ben amalgamato ogni intervento del Coro del Festival Puccini, diretto da Roberto Ardigò; raffigurata quindi con efficacia l’inquietudine del popolo e le atmosfere notturne di una tormentata Pechino. Accurato e pieno di serena delicatezza il Coro delle Voci Bianche guidato da Chiara Mariani.
Sandra Janusaite esprime con forza il carattere algido ed austero di Turandot. La vocalità è di notevole consistenza ed estensione, in uno stile marcato, talora aggressivo. Interpreta con grinta l’aria iniziale ed i primi due enigmi, mentre rende il terzo con maggiore controllo e drammaticità. Riesce meno intensa nel confronto con Calaf, rendendo poco convincente il cedimento amoroso del finale. Un’interpretazione dunque corretta ed incisiva, a cui avrebbe tuttavia giovato certamente l’incanto del tormento e del mistero.
Potente ed omogeneo Amadi Lagha come Calaf, con un timbro luminoso ed acuti ben proiettati. L’attacco è un poco brusco, ma poi la linea si fa poi più varia e flessuosa, con un canto che in ogni sequenza resta saldo e rotondo. Delinea così una figura eroica, tutta d’un pezzo fino a “Il mio nome non sai” e alle scene che seguono, dove il personaggio diviene più sfaccettato, con slanci appassionati ed una più ricca modulazione. Solida e trascinante l’esecuzione del “Nessun dorma”.
Emanuela Sgarlata ha il candore e la tenerezza di Liù, con una voce chiara e voluminosa. L’impostazione però risulta talvolta un po’ rigida e l’emissione scarsamente modulata, con pochi accenti e minime variazioni d’intensità. Il personaggio quindi, pur schietto e delicato, finisce per non produrre un autentico e profondo coinvolgimento emotivo.
Antonio Di Matteo delinea la figura di Timur in una forma archetipica paterna ed arcaica, avvalendosi di una vocalità scura e rotonda e di un fraseggio scolpito. Il suo personaggio, ieratico e solenne, incarna infatti un’angoscia e un dolore che rimandano al sangue e alla terra.
Vivace e ben coordinato il trio delle maschere, tanto nelle parti più ritmiche e grottesche quanto in quelle più liriche e melodiche. Agili e luminosi il Pang di Andrea Giovannini e il Pong di Marco Miglietta, con frasi definite e gesti rocamboleschi, mentre Simone Del Savio interpreta un Ping autorevole ed elegante, con un canto vario e articolato in forme nitide e brillanti.
Marco Montagna con precisione e forza drammatica è la voce fuori scena del Principe di Persia; nel ruolo di Altoum, pur con moderata consistenza, ha una dizione intonata e solenne che ben rappresentano la regalità e la sofferenza del vecchio imperatore.
Incisivo anche il Mandarino di Francesco Auriemma, con un’emissione compatta e rotonda ed una spiccata intenzione espressiva; melodiche e cristalline le ancelle di Sara Guidi e Maria Cristina Napoli.
Molto applauditi Lagha e Janusaite, ovazioni per Trevino e l’Orchestra; grande entusiasmo del pubblico per l’intero spettacolo, in una meritata atmosfera festosa e finalmente serena.
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti
su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
musica di Giacomo Puccini
Regia Daniele Abbado
Maestro concertatore e direttore d’orchestra Robert Trevino
Scene e disegno luci Angelo Linzalata
Costumista Giovanna Buzzi
Coreografa Simona Bucci
La Principessa Turandot Sandra Janusaite
L’imperatore Altoum Marco Montagna
Timur Antonio Di Matteo
Il Principe Ignoto (Calaf) Amadi Lagha
Liù Emanuela Sgarlata
Un Mandarino Francesco Auriemma
Ping Simone Del Savio
Pang Andrea Giovannini
Pong Marco Miglietta
I Ancella Maria Cristina Napoli
II Ancella Sara Guidi
Principe di Persia Marco Montagna
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Maestro del Coro Roberto Ardigò
Coro delle Voci bianche del Festival Puccini
Maestro del Coro Voci Bianche Chiara Mariani
Assistenti alla regia Patrizia Frini
Sound designer Luca Bimbi
Foto: Giorgio Andreuccetti