Rigoletto – Arena, Verona
Rigoletto alla Arena di Verona secondo Antonio Albanese.
“Sì, voglio che mia figlia diventa qualcuno. Ce l’ho questo diritto?“ dice Maddalena, il personaggio interpretato da Anna Magnani nel film del 1951 “Bellissima” di Luchino Visconti. Un tentativo di riscatto, quello raccontato nel film, infranto da un mondo, quello del cinema, troppo grande e soverchiante per gli umili protagonisti. Entrando all’Arena di Verona, sulle prime note di Rigoletto, capolavoro di Giuseppe Verdi, vengono proiettate alcune immagini del lungometraggio di Visconti che, a sua volta, inizia proprio sulle note di un’opera: L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti. Dialoghi fra le arti e parallelismi decisamente azzeccati, quelli evocati dal regista Antonio Albanese, volto noto del cinema italiano. Gilda è in fondo, per Rigoletto, l’unica possibilità di un disperato riscatto, quell’ ”impagabil tesor” che verrà distrutto da un mondo troppo più grande di lei. La scena di Juan Guillermo Nova ci trasporta nella piazza di un paese negli anni cinquanta del Novecento: la festa di primo atto nella corte ducale si trasforma in una grande sagra paesana (coreografie di Luc Bouy) popolata da ragazzi che imbandiscono tavole e da un Rigoletto che si aggira, evitato da tutti, come se fosse il “matto del villaggio”. L’ambientazione, seppur già proposta in molti spettacoli ed il forte taglio cinematografico, sono sicuramente gli aspetti più riusciti di una regia che, soprattutto dopo il primo atto, si è dimostrata eccessivamente statica e che non ha saputo adeguatamente riempire gli ampi spazi del palco areniano. Se ad esempio ai lati del palco si potevano scorgere edifici ed un paesaggio fluviale, questi ultimi sono stati usati solo per gli ingressi e le uscite risultando poi vuoti ed inutili per la maggior parte del tempo. Rigorosi e sempre piacevoli i costumi ispirati al dopoguerra di Valeria Donata Bettella, belle le luci di Paolo Mazzini che dipingono con delicatezza una cartolina novecentesca e ricreano con efficacia il temporale di terzo atto.
Il versante musicale dello spettacolo è dominato da Ludovic Tézier che regala una interpretazione intensa e coinvolgente del celeberrimo gobbo verdiano. Il baritono francese è in possesso di una vocalità oggi tra le più preziose per colore, impasto timbrico e volume. L’organizzazione vocale complessiva, caratterizzata da spiccata musicalità, appare solidissima senza mai tradire segnale di affaticamento alcuno nel corso della serata. Si apprezzano, dunque, la rotondità dell’emissione, la morbidezza del canto e la sicurezza dei registi centrale e acuto. Tézier mostra di ben conoscere lo stile verdiano e riesce a dare ampia evidenza di come il canto debba essere, soprattutto nella produzione del Cigno di Busseto, a servizio della parola scenica. Si prenda, ad esempio, la celeberrima “Cortigiani, vi razza dannata”, dove si ode distintamente il contrasto tra la prima parte dell’aria, con quei versi gettati come accuse taglienti nei confronti dei cortigiani, e la seconda parte, dove il canto si apre ad una supplica di toccante intensità. Quello che emerge, dunque, nella prova del baritono, è una interpretazione profonda e viscerale del personaggio, creata attraverso un fraseggio cesellato e sempre condotto con una certa nobiltà di fondo. Una visione di grande impatto teatrale che riesce a sollecitare in più occasioni l’emotività del pubblico, che ne rimane conquistato, come dimostrato dai festosi applausi riservati all’artista a scena aperta e al termine.
Piacevolissima scoperta è quella della giovane Giulia Mazzola nel ruolo di Gilda. Il soprano, chiamato a sostituire la prevista titolare del ruolo, rinunciataria per indisposizione, è dotato di una vocalità di pregevole intonazione, dal suggestivo colore chiaro e dal timbro cristallino. Una linea ben timbrata che corre per l’ampio spazio areniano con ottima proiezione, tanto nel registro acuto (e sovracuto), quanto nei preziosi filati, di madreperlacea bellezza. Già a partire dal duetto con il padre in primo atto, Mazzola acquisisce sicurezza e consapevolezza dei propri mezzi e offre una prestazione davvero notevole, compreso quel “Caro nome”, eseguito con sognante dolcezza affacciata ad un balcone a svariati metri di altezza. Il personaggio è interpretato con freschezza, ma anche con la giusta drammaticità, come ben evidenziato in “Tutte le feste al tempio”. Ci auguriamo di poter risentire presto questo giovane soprano che, con una ulteriore frequentazione dei palcoscenici, siamo convinti possa riservare più di una piacevole sorpresa.
A completare il terzetto dei protagonisti è il Duca di Mantova di Yusif Eyvazov, debuttante nel ruolo. Al di là di ogni, oramai consumata, considerazione circa la peculiarità del suo timbro, il tenore azero offre una prestazione in crescendo. Vocalmente raggiunge il suo apice nell’aria di secondo atto “Parmi veder le lagrime”, affrontata con buon cantabile e la giusta sicurezza di un registro superiore che si caratterizza per il sempre apprezzato squillo. Una prestazione vocale che si mantiene sovente sul forte e mezzo forte e che forse, per meglio delineare il contrasto tra l’animo libertino e quello romantico del Duca, avrebbe richiesto qualche sfumatura in più. Piuttosto generico, inoltre, l’interprete che sembra rimanere distaccato per quasi tutto lo spettacolo. Spiace segnalare, inoltre, una amnesia del testo proprio durante la celeberrima “donna è mobile”, un episodio che ha sollevato, sul momento, qualche mugugno da parte del pubblico prima di scoppiare nel doveroso applauso di rito al termine dell’esecuzione del brano. In sostanza, dunque, una prestazione che convince a metà e che avrebbe necessitato, senza dubbio, un maggior scavo introspettivo nel ruolo.
Ottimo lo Sparafucile di Gianluca Buratto, dotato di un timbro notturno di puro velluto. Vocalmente sicurissimo, offre una lettura inappuntabile della parte, specialmente nel duetto con Rigoletto di primo atto dove riesce a conferire al canto una vena di insinuante malignità, degna del più spietato dei sicari; e, poi,quel fa grave che chiude il duetto è talmente tornito e sonoro da meritare tutto l’applauso del pubblico scattato proprio al termine di quel momento. Eccellente la cura del fraseggio.
Corretta la Maddalena di Valeria Girardello, in possesso di uno strumento dal timbro screziato, ancorché non eccessivamente voluminoso. Apprezzabile l’esecuzione vocale, specialmente negli incisi del quartetto “bella figlia dell’amore”. Avvenente e disinvolta, come da tradizione, la presenza scenica.
Positiva la prova di Agostina Smimmero nel ruolo di Giovanna che, al solido dominio della linea vocale, riesce ad unire la giusta intenzione del fraseggio.
Gianfranco Montresor, nel ruolo de il Conte di Monterone, esibisce una apprezzabile sicurezza vocale anche se ci si sarebbe aspettati una maggiore ieraticità nello scagliare la famigerata maledizione nei confronti di Rigoletto in primo atto.
Ben han fatto, inoltre, Nicolò Ceriani e Riccardo Rados, vocalmente a fuoco ed interpretativamente pertinenti, nei ruoli, rispettivamente, di Marullo e di Matteo Borsa.
Roberto Accurso e Francesca Maionchi, il Conte e la Contessa di Ceprano, si fanno apprezzare per la generale correttezza vocale e scenica.
Completano la locandina i puntuali Giorgi Manoshvili, un usciere di corte, e Elisabetta Zizzo, un paggio della duchessa.
A reggere le fila del racconto musicale è chiamato il Maestro Marco Armiliato, la cui lettura della partitura si apprezza per la sostanziale correttezza e l’unitarietà sonora complessiva. Una direzione che si muove nel solco della tradizione, dalla quale ci si sarebbe aspettato qualche guizzo interpretativo in più forse, specialmente nei primi due atti. Particolarmente riuscito, infatti, è il terzo atto cui Armiliato imprime una pregevole carica espressiva di sicuro impatto teatrale. L’esecuzione è integrale e comprensiva di tutte le puntature di tradizione; spiace rilevare, tuttavia, il cambio del verso del libretto pronunciato dal Duca nei confronti di Sparafucile in terzo atto che diventa “una stanza e del vino”, in luogo del previsto “tua sorella e del vino”. Una scelta che ai giorni nostri appare francamente inaccettabile. Tolto questo appunto, vogliamo comunque sottolineare il buon equilibrio tra buca a palcoscenico, testimoniato dalla capacità di Armiliato di scegliere sonorità sfumate e mai prevaricanti rispetto alle peculiarità timbriche dei singoli interpreti.
Merito, anche, dell’ottima prova dell’Orchestra della Fondazione Arena di Verona, compatta e ben amalgamata tra le diverse sezioni.
Notevole, poi, è la prestazione del Coro della Fondazione Arena di Verona che, sotto la eccellente guida del Maestro Roberto Gabbiani, assicura ai propri interventi la giusta incisività.
Caloroso successo al termine, da parte di una Arena tutt’altro che esaurita nei diversi ordini di posto, con punte di acceso trionfo per i protagonisti e il direttore.
Rigoletto
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
dal dramma Le roi s’amuse di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Il duca di Mantova Yusif Eyvazov
Rigoletto Ludovic Tézier
Gilda Giulia Mazzola
Sparafucile Gianluca Buratto
Maddalena Valeria Girardello
Marullo Nicolò Ceriani
Matteo Borsa Riccardo Rados
Il Conte di Monterone Gianfranco Montresor
Il Conte di Ceprano Roberto Accurso
La Contessa di Ceprano Francesca Maionchi
Giovanna Agostina Smimmero
Un paggio Elisabetta Zizzo
Un usciere Giorgi Manoshvili
Orchestra della Fondazione Arena di Verona
Direttore Marco Armiliato
Coro della Fondazione Arena di Verona
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Antonio Albanese
Assistente alla regia Daniela Zedda
Scene Juan Guillermo Nova
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Paolo Mazzon
Ballo della Fondazione Arena di Verona
Coreografia Luc Bouy
Coordinatore del ballo Gaetano Petrosino
FOTO: Ennevi