Norma di Vincenzo Bellini
Libretto di Felice Romani.
Tragedia Lirica in due atti. Prima rappresentazione alla Scala il 26 Dicembre 1831.
La Norma di Bellini nasceva in un momento storico-culturale attraversato e segnato da intense passioni politiche, aspirazioni risorgimentali, cultura romantica, crescita di una borghesia liberale proiettata verso un futuro di egemonia. Nasceva nel momento in cui il mondo del melodramma italiano aveva registrato il ritiro improvviso dalle scene dell’inimitabile autore del Barbiere di Siviglia, Gioacchino Rossini, e mentre i teatri italiani risuonavano delle dolenti note del lirismo donizettiano. Il movimento Carbonaro degli anni ’20 si era esaurito e trainante si faceva intanto il pensiero politico del Mazzini, un pensiero forte destinato a costituire, un secolo dopo, l’identità dell’Italia attuale. La letteratura italiana ed europea era segnata da scrittori di ispirazione romantica; Manzoni, fra il ’27 e i primi anni del ’40, andava rivedendo il suo capolavoro destinato a costituire il classico col quale si chiudeva la “questione linguistica” e si forniva alla scuola italiana lo strumento di formazione politico-morale delle future generazioni. Il secolo XIX, comunque, doveva gran parte dei suoi ideali alla “Religione delle Illusioni” di quel Foscolo, neoclassico, espatriato per motivi di coerenza politica e morto in esilio. Le “Illusioni” foscoliane, ovvero i Miti del suo spirito inquieto, i Valori etici nei quali credette fino all’autoesilio: Patria, Libertà, Amore, Famiglia, Amicizia, Bellezza, Libertà dell’arte, funzione sacerdotale del Poeta, dovevano costituire la base morale ed etica del romanticismo italiano e del movimento libertario che sarebbe approdato all’Unità.
Il Melodramma ottocentesco si poneva nel solco vitale della grande cultura e della migliore tradizione letteraria italiana ed europea facendosi carico di una intenzionalità per così dire didascalica, un po’ come la Tragedia Greca di Eschilo, Sofocle, Euripide. Scrivevano di tragedie e di romanzi il Manzoni già citato (i suoi Promessi Sposi e l’Adelchi troveranno trascrizioni in musica) Victor Hugo e i Dumas, Schiller e Soumet; librettisti tenaci e pazienti riducevano in versi per musica opere shakespeariane rendendo all’arte musicale e al Melodramma un servigio di grande significato: Salvatore Cammarano, Temistocle Solera, Francesco Maria Piave, Felice Romani, saranno i fedeli collaboratori dei musicisti del tempo. Verranno poi Arrigo Boito, Illica e Giacosa ed ecco che il Melodramma, dopo la parabola verdiana, entrerà nella stagione irripetibile di Puccini. Gli anni ’30 di cui parliamo sono segnati da Bellini, Donizetti, Mercadante.
Norma: la sua fonte letteraria
La Norma di Bellini trovava in una tragedia dallo stampo neoclassico di Alexander Soumet, già citato, “Norme ou l’infanticide” la sua fonte e il suo riferimento letterario. Come sempre accadeva con i modelli letterari, anche con l’opera di Soumet, Felice Romani, il librettista di Bellini, si concesse delle modifiche che riteneva utili e funzionali alla trasposizione melodrammatica. Fermeremo la nostra attenzione sulla prima e seconda scena del secondo atto, su quel “Dormono entrambi” di straordinario fascino musicale e potenza drammatica: Norma è sul punto di commettere l’infanticidio, ma si ritrae inorridita perché prevale in lei l’istinto materno. E vedremo come il finale stesso dell’opera belliniana si discosti da quello concepito da Soumet per la sua tragedia: a Bellini interessava (e il Romani era d’accordo con lui) la sublimazione finale dell’amore fra Norma e Pollione, il proconsole romano amante della donna, piuttosto che la truce determinazione della “Norme” di Soumet decisa a punire l’amante fedifrago con il sacrificio delle sue due creature e la distruzione di se stessa.
La creazione di un’opera era una operazione complessa che coinvolgeva non solo il musicista e il librettista, ma gli impresari, i cantanti, gli operatori di scena. Bellini, ma come lui un po’ tutti i musicisti contemporanei, viveva il periodo creativo in uno stato di sovraeccitazione che lo portava spesso a collassi nervosi. Non poteva “creare” in piena libertà: doveva confrontarsi con la fonte letteraria della quale non poteva impunemente tradire i contenuti di fondo, spesso si trovava a discutere verso per verso col librettista; doveva tenere in conto le misure vocali degli interpreti e le loro pretese da primi attori; doveva prevedere le reazioni del pubblico abituato agli stereotipi della tradizione melodrammatica, e tutto questo finiva con l’influire sul percorso creativo e sulla natura complessiva dell’opera e sulle modifiche da adottare rispetto al modello letterario. Il Melodramma si poneva, nascendo, inevitabilmente tra Vero e Verosimile e questo rendeva faticoso l’atto di nascita.
La tragedia di Soumet, pur ridotta da 5 atti a 2 da Romani per la musica del catanese, veniva tuttavia seguita nella trama con le modifiche cui si è fatto cenno. Era una tragedia che nelle intenzioni dell’autore doveva contemperare e fondere “gli ideali classici con quelli romantici… raggiungere l’assoluto equilibrio tra la compostezza della forma, l’ardore della espressione e la libertà della invenzione” (così in “Bellini secondo la storia” di Francesco Pastura – Guanda, 1959 – pg. 289): la Norma di Bellini non vive isolata e inaccessibile sugli alberi della foresta, ma all’interno di una inverosimile dimora nobiliare dove nasconde il frutto dei suoi amori dove si sconfessa come sacerdotessa di Irminsul, dove dimentica di essere celtica e tradisce voti sacerdotali e radici patrie. L’argomento trattato da Soumet, con la tensione al raggiungimento degli obiettivi artistici ed estetici appena descritti, diveniva, però, nelle mani di Romani e nelle note di Bellini fondamentalmente un contenitore di passioni romantiche e vere benché incarnate ed espresse da un’eroina “classica” e dal nome romano.
Bellini “scelse” dunque di musicare la Norma di Soumet tenendo conto, tra l’altro, delle qualità vocali di quella Giuditta Pasta, soprano, che in quel tempo dominava nei teatri e che di certo possedeva tutte le qualità vocali pensate e volute dal musicista per la sua Norma. Quello del Melodramma di cui parliamo non era nuovo come soggetto: già Spontini aveva musicato una “Vestale” e Pacini una “Sacerdotessa d’Irminsul” e nei “Martiri” di Chateaubriand c’era traccia di quel personaggio Veleda cui abbiamo fatto riferimento negli articoli precedenti. Ma la Norma di Bellini cessava di essere “la sacerdotessa veggente, l’oracolo di una divinità sanguinaria che abitava tra le fronde di una quercia (Velleda), di essere una figura astratta per diventare una donna che ha peccato per aver amato e che per amore espia” (F. Pastura, op. cit. , pg. 289). Norma dunque non doveva somigliare a Medea, o a Veleda, o alla Vestale di Spontini. Romani, benché prediligesse le forme classiche e risentisse certamente di Foscolo e di Monti da lui conosciuti e frequentati a Milano, lavorò con molta cura e continui ripensamenti perché la sua Norma apparisse moderna, una sorta di simbolo ampio e omnicomprensivo, un grembo materno che prima di morire si preoccuperà di affidare i suoi figli ad Oroveso, “nonno” di quei due bambini nati dal peccato.
Si è visto, quindi, come parlando di Norma ci è stato dato di incontrare quella Veleda tacitiana di cui abbiamo detto nel primo articolo e abbiamo dovuto registrare già la presenza dei Druidi e di Oroveso gran Sacerdote e padre di Norma. Ora è tempo di “entrare” nel libretto e nell’intreccio della storia: la Sacerdotessa si muoverà nel contesto di una tribù celtica dominata e guidata da quei sacerdoti Druidi di cui si è fatta conoscenza storica in Cesare, Tacito e Strabone. L’ascolto della musica belliniana, per certe sue tonalità, per quel patetismo romantico che le sono propri, potrà renderci in qualche modo l’immagine di quel giovane musicista morto giovanissimo e di cui si ammirava il “portamento effeminato, elegiaco, etereo e la persona che aveva l’aria di un sospiro, il giovane dagli occhi azzurri e languidi, capelli biondi e chiari, quasi dorati e pettinati a riccioli” (riportato in “Viaggio nel Melodramma italiano da Bellini a Mascagni” – di F. Niglio – Stamperia Liantonio 2008, pg 36).
L’Opera si apre con una sinfonia
La sinfonia, come tutti i brani strumentali di apertura, ha lo scopo, anche per Bellini, di “introdurre il dramma sotto l’aspetto emotivo e di ambientazione, senza ricorrere, salvo la melodia “già mi pasco ne’ tuoi sguardi” al materiale impiegato nell’Opera” (Così in “Invito all’ascolto di Bellini” di Bruno Gallotta – Mursia – 1997 – pg. 153). Come in un’opera di storia, le riflessioni iniziali, il quadro di insieme e le notazioni di apertura fanno da preludio ai motivi tematici che saranno poi la “materia” del saggio storico vero e proprio. La Sinfonia della Norma si annuncia con dei potenti accordi nella tonalità di Sol minore come a voler indicare il percorso tragico e drammatico dell’intero melodramma: quello degli strumenti è un “linguaggio” che può essere certamente accostato a quello della parola scritta nella quale si rapprendono sentimenti, tonalità interiori, pensieri e riflessioni mentali. È risaputo peraltro che in taluni strumenti sono rintracciabili le voci umane: quella del basso, per esempio, la si ritiene applicabile al flauto, al sassofono, al clarinetto, al flicorno dalle estensioni gravi; quella del soprano è rintracciabile nel “flicorno soprano in mib”; quella del tenore, nel flicorno tenore; quella del baritono nel flicorno euphonio volgarmente detto “bombardino”.
Alla sinfonia segue, all’alzarsi del sipario sulla prima scena, l’apparire della foresta sacra dei Druidi, il lento procedere della processione sacerdotale e l’arrivo in iscena di Oroveso che intima ai Druidi di recarsi sul colle a “spiar ne’ cieli” l’apparire dell’argenteo disco della luna nuova in attesa che il bronzo sacerdotale ne annunzi tre volte il “primier sorriso e il viso verginal”: nelle tenebre della foresta ove campeggia l’albero sacro ad Irminsul con “al pie’ la pietra druidica che serve d’altare” (così nella didascalia) la voce del “basso” risuona cupa ed inquietante cui fa eco il coro dei druidi, i sacerdoti che invocano Irminsul perché “informi e ispiri” in Norma odio e ira contro i romani: che la pace sia infranta! (nel primo articolo è Velleda a “ispirare” nei cuori dei Bructeri la sollevazione contro Roma). Oroveso incalza invocando la terribile voce del dio che “sgombrerà le Gallie dall’aquile nemiche”, mentre nella città dei Cesari, “pari al fragor del tuono, echeggerà tremendo il suono degli scudi”.Un inizio, quindi, che può portarci a pensare alle riunioni sediziose dei Bructeri sobillate da Velleda e guidate da Civile.
Il Coro e la guerra
L’Opera quindi si apre con un coro che inneggia alla guerra liberatrice e nella Milano austriaca non mancò di infiammare i cuori dei patrioti e dei liberali: era questo un nesso tra Melodramma e politica e quotidianità sociale che sarebbe apparso più chiaro e funzionale ai fini libertari nelle composizioni verdiane dei decenni successivi (la funzione didascalica e ideologica del Melodramma cui si è fatto cenno). Nella scena seconda una sorta di intermezzo, un dialogo tra Pollione, il proconsole romano, e Flavio, suo compagno d’armi, nel quale Romani anticipa le cause del dramma futuro: Pollione confessa che nel suo cuore “è spenta la prima fiamma, un dio la spense, un dio nemico al suo riposo”: un abisso si apre ai suoi piedi perché, innamorato ora di Adalgisa, futura sacerdotessa e novizia di Norma, teme l’ira della prima amante e madre di due figli, la teme perché nel cuore di Norma non potrà che essere “atroce ed orrenda”. Pollione l’ha vista in sogno, Norma…
Era a Roma con Adalgisa, presso all’altare per i casti imenei, fra il fumare degli incensi, rapito di “voluttade e amor” quando un’ombra si colloca fra i due, fra Pollione ed Adalgisa, un’ombra dal mantello druidico che manda in rovina l’altare mentre il giorno si copre di un velo. Adalgisa scompare nel nulla e da lunge s’ode un gemito misto al pianto dei figli; in fondo al tempio echeggia una voce orribile: “Norma così fa scempio di amante traditor”. La Sacerdotessa, quindi, la protagonista del dramma di cui parliamo, viene così presentata e tutto nel sogno di Pollione è presagio di morte e di vendetta. Eppure la Norma paventata dal proconsole nella dimensione onirica è la sacerdotessa druidica che successivamente dominerà la scena sgombrando ancora il campo dai venti di guerra e che leverà poi al cielo quella splendida preghiera alla “Casta Diva”. Il fascino del Melodramma è tutto qui, nella parola cantata, nella storia e nell’evento rivestiti di musica purissima.