Dawson / Duato / Kratz / Kylián – Teatro alla Scala, Milano
Dopo la favola narrativa per eccellenza, lo Schiaccianoci, va in scena alla Scala un quartetto di coreografie contemporanee del tutto astratte e non narrative, ma di forte suggestione visiva, musicale e di grande complessità tecnica che dimostrano tutta la versatilità del corpo di ballo del Teatro scaligero, sempre ineccepibile nell’interpretare linguaggi assai differenti.
Lo spettacolo si apre con il capolavoro di David Dawson, Anima Animus su musica di Ezio Bosso, appositamente composta per il coreografo e con gli strepitosi costumi della ballerina e costumista Yumiko Takeshima. Il balletto, suddiviso in tre segmenti, si apre con un movimento di archi incalzanti e crescenti che sembrano attenuarsi nel passaggio centrale per poi chiudersi con toni quasi drammatici. La coreografia ricorda i dipinti di Mondrian nei quali campi bianchi e bande nere si compongono in perfetto equilibrio, superando l’apparente disordine. Non per nulla il tema ispiratore è il rapporto tra maschile e femminile su cui riflette Carl Jung: due opposti che nelle loro differenze si completano a vicenda. I danzatori esprimono questa ricerca spasmodica in un rincorrersi di difficoltà tecniche, in moto perpetuo, tra lift femminili e prese maschili, movimenti caratterizzati da linee rette, sviluppate verso l’alto, esplicitamente ispirate al neoclassicismo di Balanchine, ma con un maggior compiacimento per il gesto atletico ed energico. I costumi valorizzano perfettamente i movimenti dei ballerini, alludendo al soggetto del balletto e dialogano con la scenografia, un ampio rettangolo bianco profilato di nero sul quale batte una luce abbagliante e piatta che contribuisce al senso di assoluto.
Da un pezzo di grande respiro, complessità scenica e danzato da dieci ballerini, a un piccolo gioiello, contenuto nello spazio, definito da un pannello quadrangolare davanti e dietro al quale danza un terzetto tutto maschile (Roberto Bolle presente ad ogni replica, in questa seconda serata insieme a Nicola Del Freo e Mattia Semperboni) con passaggi quasi ironici e teatrali; singolare è la gestualità della mani. È Remanso di Nacho Duato, ispirato a una poesia di Federico García Lorca, su musica di Enrique Granados. Questo è l’unico pezzo in scena accompagnato da musica dal vivo, al pianoforte il maestro Takahiro Yoshikawa. La partitura ritmata e allegra sostiene una coreografia che con toni lievi narra di relazioni amicali, sensuali, ma non drammatiche, un inno alla gioia di danzare e ai rapporti umani. Duato interpreta lo spazio con le bellissime pose dei ballerini, che compongono quasi un Tangram, eseguite in adesione al pannello e valorizzate dall’illuminotecnica di Brad Fields giocata su controluci e ombre. Semplici ma efficaci i costumi, un colore per ogni danzatore registrati su toni scuri e profondi.
La terza coreografia è la prima assoluta di Solitude Sometimes di Philppe Kratz, indubbiamente il brano più innovativo dal punto di vista coreografico e musicale, non a caso opera del più giovane tra i quattro coreografi. Kratz, su esplicito invito del direttore del corpo di ballo Manuel Legris, ha creato il pezzo su musiche elettroniche di Thom Yorke e dei Radiohead, un genere che varca le soglie del teatro meneghino per la prima volta. La coreografia si ispira, ma solo concettualmente, a un racconto funebre dell’antico Egitto, il libro dell’Amduat, rappresentandone lo scorrere del tempo, in un flusso di nascita e morte, raffigurato dai ballerini che scorrono sul palco da destra a sinistra, comparendo e sparendo più volte. La musica di Thom Yorke esprime sonoramente questo loop temporale, mentre i ballerini che si muovono su linee parallele, richiamano alla mente la pittura egizia bidimensionale su registri sovrapposti. Estremamente innovativa è la gestualità messa in scena, che alterna movimenti ripetuti, eseguiti da più danzatori, a passi che interrompono il loop e dai quali emerge l’espressività e l’individualità dell’artista nel gruppo. Interessante la scenografia, una proiezione monocroma che ricorda certa arte visuale e che sembra raffigurare la musica elettronica. Solo i costumi non sono al pari delle altre scelte artistiche, sia per l’opzione cromatica, che vuole rievocare l’antico Egitto, sia per il taglio, finendo per penalizzare sia gli interpreti sia i costumi stessi.
L’ultimo quarto dello spettacolo è ormai storia della danza. Dei quattro coreografi Jiří Kylián è il più anziano e Bella figura un pezzo già inserito nel repertorio di diversi teatri. Anche nelle scelte musicali (Lukas Foss, Giovanni Battista Pergolesi, Alessandro Marcello, Antonio Vivaldi, Giuseppe Torelli), nella sua sontuosità barocca cromaticamente caratterizzata da luci calde e dal rosso delle ampie gonne indossate dai danzatori, uomini e donne, Kylián trova ispirazione nel passato. Ma la coreografia è del tutto contemporanea, con ardui tecnicismi stemperati da movimenti più intimi e delicati e da passaggi, soprattutto nei passi a due, a tratti sensuali e romantici. Bella figura è una riflessione sulla necessità della bellezza e sul rapporto tra palcoscenico e realtà, resa esplicita dall’uso delle quinte che si aprono e chiudono come un diaframma fotografico, dal sipario che avvolge una delle ballerine, quasi fosse una creatura animata e dalla scelta di aprire lo spettacolo a luci in platea accese, con i danzatori che si scaldano sul palco. I costumi (di Joke Visser) semplici culottes, corsetti e body alternati alle ampie gonne rosse indossate a torso nudo, esaltano la Bella figura dei danzatori la cui pelle è accarezzata dalle luci curate dallo stesso Kylián.
Dawson/Duato/Kratz/ Kylián non è solo il collage di quattro coreografie, ma uno spettacolo compiuto, equilibrato e coerente che mostra le diverse ricerche su cui è indirizzata la danza contemporanea, non un monolite, ma al contrario un fascio di percorsi che puntano tutti, lungo strade diverse, al futuro della coreutica.
Foto: Brescia e Amisano – Teatro alla Scala.