Boris Godunov
20 dicembre 2022
Dopo le impressioni a caldo sulla prima della Scala che trovate in calce all’articolo, OperaLibera ha assistito nuovamente allo spettacolo in data venti dicembre. L’allestimento, anche privato dei “lustrini” della prima, ci ha convinto. Ad uno sguardo più attento, e da una posizione che permette una migliore visuale rispetto al loggione, il Boris Godunov del regista Kasper Holten e dello scenografo Es Devlin ci è parso monumentale e ben costruito. Abbiamo già accennato alla grande pergamena scorrevole presente sul palco che accoglie il pubblico fin dalle prime scene. Un incessante rimando allo scrivere la storia che , come sosteneva Napoleone, “è la versione di eventi passati che il popolo ha accettato di comune accordo”. Dal punto di vista visivo, in questo allestimento, sicuramente un ruolo preponderante lo hanno le bellissime luci di Jonas Bøgh che mettono sapientemente in risalto i grandi disegni sulla scena, come in una sorta di libro illustrato. Registicamente inappuntabili i movimenti delle masse, il coro, la voce del popolo russo che, con la sua volontà, scrive la storia. La parte più riuscita a livello di immagine resta senza dubbio la scena dell’incoronazione, solenne e densa di ori sfavillanti. La seconda parte dello spettacolo, risulta più statica, meno ispirata e con meno idee, e perciò forse più banale e meno esaltante. Splendidi restano comunque i costumi di Ida Marie Ellekilde, di foggia più antica inizialmente e che poi, via via, si avvicinano alla contemporaneità, sempre curatissimi e belli da vedere. Un plauso particolare al bravo e giovanissimo Martin Novara che interpreta l’ucciso erede al trono, e che, per quasi tutto il tempo, compare sul palco come spettro insanguinato che perseguita Boris. Preziosi e ben coesi con la scena i video di Luke Hall, che completano ed esaltano il comparto visivo.
Eccellente il versante musicale dello spettacolo.
Il Maestro Riccardo Chailly offre una lettura illuminata di questa partitura che, nella sua stesura originaria del 1869 appare, rispetto alle orchestrazioni successive, più concentrata, nella sua asciutta drammaturgia, sulla figura del protagonista e, in particolare, sulla analisi approfondita dei turbamenti che si annidano nella sua psiche. In questa versione di Boris Godunov, nota anche con l’appellativo di Ur Boris, viene a mancare, infatti, un intreccio amoroso che possa fare da motore della vicenda. Pochi, inoltre, i personaggi femminili (nessuno veramente di rilievo), mentre a prevalere sono i registri vocali maschili e, in particolare, quelli gravi.
Chailly compie un lavoro prodigioso sullo spartito, smussando le eventuali asperità di un racconto musicale caratterizzato, per lo più, da atmosfere cupe ed inquietanti. La vicenda di Boris ci viene raccontata attraverso un equilibrio perfetto tra sonorità maestose (si pensi, su tutte, al magnetismo della “scena dell’incoronazione) e altre più delicate e sospese (proprie degli episodi monastici). Il gesto del direttore attinge a piene mani dal fulgore dei complessi scaligeri e riesce ad ottenere dinamiche variopinte e sfumate sin nel minimo dettaglio. Il quadro di apertura, ad esempio, con quell’incipit che trasuda disperazione, proietta l’ascoltare nello squallore e nella miseria di una vita di stenti dove le uniche certezze ideologiche, alle quali si deve obbedire ciecamente, sono quelle imposte dal potere. Nella successiva scena della taverna, al contrario, compiano sonorità moderatamente brillanti che, con il loro richiamo a temi popolari, animano la ballata di Varlaam e la scrittura vocale dell’Ostessa. Nella seconda parte dello spettacolo, poi, prevalgono dinamiche struggenti ed oniriche che ci catapultano in quella infernale follia di rimorsi che alberga nell’anima dello zar. E si giunge alla scena finale, quella della morte di Boris, dove il tappeto orchestrale si fa via via sempre più impalpabile e sottile sino a dissolversi nel silenzio, quasi irreale, del pubblico, rapito da tanta bellezza. Il direttore milanese offre così una prova ineccepibile non solo per la sua perfezione esecutiva, ma per lo scavo meticoloso nelle pieghe dello spartito, restituito, attraverso la scelta azzeccatissima dei tempi, in tutta la sua sfolgorante, quanto sconvolgente bellezza.
Merito anche dell’eccellente prova dell’Orchestra del Teatro alla Scala, in autentico stato di grazia per precisione e, soprattutto, per coesione. Da ogni singolo esecutore si propaga un costante, magmatico, flusso sonoro che valorizza al meglio la vivida tensione drammatica della partitura. Perfettamente ben calibrato, inoltre, il rapporto con gli interpreti presenti sul palcoscenico, elemento quanto mai essenziale in un’opera con personaggi tanto numerosi.
Il cast è dominato da Ildar Abdrazakov che veste i panni del protagonista e sigla una prova straordinaria. In primis, va detto, la vocalità del basso russo è, nell’attuale panorama internazionale, tra le più preziose per ampiezza e colore. La linea appare sempre musicale e, con grande duttilità, supera brillantemente le richieste dell’autore. Il timbro pastoso e vellutato ben si presta, inoltre, alla creazione di chiaroscuri che assumono grande valenza espressiva nel delineare, soprattutto, i tormenti dell’anima del sovrano. Abdrazakov dimostra non solo di possedere tutte le note per affrontare la parte, in virtù di una spiccata compattezza tra i registri, ma di dominare il personaggio di Boris sbalzandone con grande efficacia tutte le sfaccettature. Se nella scena dell’incoronazione emerge un sovrano autoritario, ma già tormentato dai presagi di sciagura, nella seconda parte dello spettacolo l’anima dello zar è messa a nudo in tutto il suo dolore e nella sua follia. La scena dove Boris si trova dinanzi il fanciullo insanguinato (di shakespeariana memoria) è di sconvolgente forza drammatica e viene impreziosita da accenti permeati di terrore e rabbia. L’ultima parte dello spettacolo, da sola, vale la serata per la presenza scenica magnetica di Abdrazakov, in grado di catturare il pubblico, che assiste impietrito alla morte dello zar, eseguita tutta a mezza-voce con una espressività teatrale di impareggiabile potenza drammatica.
Ain Anger, nel ruolo di Pimen, offre una prova vocale di buon livello in ragione di un mezzo ampio e dal colore notturno. Questo monaco anziano risulta ben tratteggiato, soprattutto nella ultima scena dell’opera, quando Pimen intona il toccante e commovente racconto dello zarevic taumaturgo.
Dmitry Golovnin, affronta il personaggio di Grigorij Otrep’ev, il futuro falso Dimitri, con vocalità squillante e dal bel colore chiaro. Di assoluto rilievo il fraseggio, particolarmente espressivo ed incisivo, tanto nella scena del monastero quanto durante la fuga verso la Lituania al termine della prima parte dello spettacolo.
A vestire i panni dell’ambiguo Šujskij è Norbert Ernst, vocalmente corretto e bravissimo nella caratterizzazione del personaggio, specialmente nel suo essere insinuante nei confronti di Boris.
Molto bene ha fatto Alexey Markovnnel nel dare il giusto rilievo al ruolo di Ščelkalov.
Note positive anche per il Varlaam di Stanislav Trofimov la cui interpretazione della ballata si è distinta per eroico brio.
Ben riuscito l’affiatamento con il Misail di Alexander Kravets.
Yaroslav Abaimov, affronta il ruolo dell’Innocente con vocalità dal colore limpido e un fraseggio toccante e vibrante.
Ottima la coppia dei figli di Boris, il Fedor di Lilly Jorstad e la Ksenija di Anna Denisova, vocalmente omogenei e molto musicali, scenicamente perfettamente credibili.
La nutrice di Ksenija trova in Agnieszka Rehlis la giusta caratterizzazione.
Maria Barakova presta una vocalità sicura e screziata a l’ostessa della locanda.
Completano egregiamente la locandina Oleg Budaratskiy, Roman Astakhov e Vassily Solodkyy con la loro puntuale interpretazione dei ruoli, rispettivamente, del capo delle guardie Pristav, di Mitjucha, uomo del popolo e di un boiaro di corte.
Magistrale la prova del Coro del Teatro alla Scala che, sotto la direzione del Maestro Alberto Malazzi, offre una delle prestazioni migliori di sempre per precisione e unitarietà. Gli interventi delle scene di massa vengono sottolineati con la giusta intensità sonora e, soprattutto, caratterizzati da una naturale espressività drammatica. Il Maestro Bruno Casoni porta in trionfo la prova del Coro delle Voci bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala, il cui intervento, brillante e coeso, ha dato lustro al “quadro di San Basilio”.
Vivissimo successo al termine, molti gli applausi per tutto il cast con punte di autentico, meritatissimo trionfo per Abdrazakov. Acclamazioni incondizionate per il Maestro Chailly.
BORIS GODUNOV
Dramma musicale popolare in un prologo e tre atti (versione 1869)
dalla tragedia omonima di Aleksandr Puškin
e dalla Storia dello Stato russo di Nikolaj Karamzin
Libretto e Musica di Modest Petrovič Musorgskij
Boris Godunov Ildar Abdrazakov
Fëdor Lilly Jørstad
Ksenija Anna Denisova
La nutrice di Ksenija Agnieszka Rehlis
Principe Vasilij Šujskij Norbert Ernst
Andrej Ščelkalov Alexey Markov
Pimen Ain Anger
Grigorij Otrep’ev Dmitry Golovnin
Varlaam Stanislav Trofimov
Misail Alexander Kravets
L’ostessa della locanda Maria Barakova
L’innocente Yaroslav Abaimov
Pristav, capo delle guardie Oleg Budaratskiy
Mitjucha, uomo del popolo Roman Astakhov
Un boiaro di corte Vassily Solodkyy
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Alberto Malazzi
Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
diretto da Bruno Casoni
Regia Kasper Holten
Scene Es Devlin
Costumi Ida Marie Ellekilde
Luci Jonas Bøgh
Video Luke Halls
Foto: Brescia Amisano – Teatro alla Scala
7 dicembre 2022
In attesa della nostra recensione ufficiale, dietro accredito stampa, come ogni anno vogliamo darvi le nostre impressioni a caldo sulla prima della Scala, vissuta con gli amici del loggione.
Un nuovo sette dicembre e un ritorno fra gli amici della galleria, persone, storie, legami che si rinnovano all’insegna della passione comune per l’opera. Mentre in platea i “vip” magari si annoiano un po’, obbligati da vincoli di presenza e di apparenza, i grandi dibattiti operistici e le liti da melomani si consumano, nei piani alti del teatro, più liberi da tutto ciò. Di questo sette dicembre resta un senso di austerità, condiviso ed avvertito da tutti: i pochi fiori presenti in sala lasciavano un velo di tristezza, che ricordava a tutti il periodo storico contingente. Un parterre forse più politico che mondano, con un palco reale colmo, come non mai, di ministri e autorità. Lunghi solenni applausi, meritatissimi, per il Presidente Mattarella, qualche “buuuu” solitario e timido per le altre autorità, perché alla Scala, se non si può buare lo spettacolo, si cerca almeno di farlo in altro modo. L’emozione è sempre la stessa però, bellissima, profonda, quando suona l’inno e ci si sente tutti magnificamente e miseramente italiani, orgogliosi e feriti, orgogliosi di quello che siamo, feriti per tutto ciò che non riusciamo ad essere. Dopo gli inni, quest’anno anche quello europeo, inizia lo spettacolo, un vero spettacolo inaugurale, come non se ne vedevano da anni, solenne, giocato sulle grandi masse corali, su bellissimi effetti di luce, costumi ricchi e all’antica e il loggione, da sempre tradizionalista, non può che gioirne.
Boris Godunov, di Modest Musorgskij opera che trae la propria ispirazione da una libera rielaborazione de “Storia dello Stato russo” di Karamzin e dall’omonimo dramma di Puškin, rappresenta una pietra miliare non solo nel repertorio russo, ma nell’intera storia del melodramma. Una vicenda di stampo storico, dove politica e religione si intrecciano liberamente come due componenti estranee, ma ad un tempo stesso complementari del potere. E poi c’è il tormento del protagonista, dilaniato dalle allucinazioni per quel giovane fanciullo il cui assassinio è stato necessario per favorire la sua ascesa al trono. Una lucida follia che richiama il mondo shakespeariano e che dialoga, volutamente, con il Macbeth verdiano che lo scorso anno ha inaugurato la stagione scaligera, creando un ponte fra musica, dramma ed epoche, come dichiarato dallo stesso Maestro Riccardo Chailly e dal regista dello spettacolo Kasper Holten.
Sempre presente sulla scena una lunga, enorme pergamena su cui tutti noi scriviamo la storia, una trovata scenica semplice ma di grande efficacia, che lascia stupiti nel prologo e nel primo atto, poi lo spettacolo arranca un po’, diventa quasi contemporaneo, si arresta lentamente sulle sue meccaniche e la mancanza di trovate sceniche alla lunga affatica, ma nel complesso il lavoro del regista e del suo team è apprezzato e applaudito da tutta la sala.
Sul versante musicale spiccano quattro grandi protagonisti, Ildar Abdrazakov, il Maestro Chailly, Il Coro e l’Orchestra della Scala.
Per questa inaugurazione scaligera il Maestro Riccardo Chailly sceglie l’edizione Ur Boris, ovvero quella che, tra le tante possibili stesure (alcune delle quali illustri come quella eseguita da Rimskij-Korsakov), presenta l’orchestrazione originaria di Musorgskij stesso. Si tratta dell’edizione che vide la luce nel 1869 e che risulta mancante del più conosciuto “atto polacco”.
Un plauso incondizionato va sicuramente al Maestro Chailly e alla magnifica Orchestra del Teatro alla Scala che si è dimostrata in assoluta e perfetta sintonia con il direttore e con questo tipo di repertorio non semplice.
Il Coro del Teatro alla Scala ha pienamente emozionato, ha costantemente riempito la scena, ha meravigliosamente rappresentato quel popolo previsto nella visione di Musorgskij, incarnandone le speranze e i sogni frustrati.
E poi c’è Ildar Abdrazakov che ha meritatamente avuto una prima scaligera da protagonista assoluto, al di là della splendida voce e della prova canora pressoché perfetta ha colpito la sua interpretazione, potente e fragile al tempo stesso. Il suo saper entrare totalmente nei panni di questo uomo di potere, forte, ma anche in bilico con il rimorso e la pazzia. Un atto di teatro esemplare, una splendida interpretazione.
Non da meno tutti gli altri protagonisti: un cast omogeneo ed affiatato di cui vi parleremo però nella recensione ufficiale.
Per ora è tutto, si spengono le luci su una serata mondana, ricca di spunti culturali ed esistenziali ma anche frivola e leggera , che passa, fra voglia di vivere, di apparire e di sfuggire ai tanti troppi problemi del quotidiano.