La Gioconda
La Gioconda, il capolavoro del 1876 di Amilcare Ponchielli su libretto di Arrigo Boito, torna finalmente sul palco del Teatro alla Scala.
“Venezia giace ancora dinanzi ai nostri sguardi come era nel periodo finale della sua decadenza: un fantasma sulle sabbie del mare, così debole, così silenziosa, così spoglia di tutto all’infuori della sua bellezza, che qualche volta quando ammiriamo il suo languido riflesso nella laguna, rimaniamo incerti quale sia la Città e quale l’ombra”. Così scriveva John Ruskin, storico dell’arte e poeta, nel suo volume Le pietre di Venezia del 1851. E, alla Scala di Milano, la Venezia immaginata da Davide Livermore per questa Gioconda ha proprio questo aspetto: una città ricreata con strutture leggere, bianche, trasparenti, quasi come in una veduta lagunare del pittore Virgilio Guidi. Belle video proiezioni (a cura di D-wok) evocano il Palazzo Ducale e l’acqua, il cui riflesso è onnipresente, una Serenissima tratteggiata con poesia, sempre accarezzata e mai violentemente imposta. Le scene di Giò Forma, storico collaboratore del regista, sanno essere imponenti ma leggiadre al tempo stesso; innegabilmente impattante la grande nave che irrompe in palco nel secondo atto, così come la piattaforma rotante che permette alle imponenti strutture di muoversi in modo spettacolare. Peculiare la scelta, non prevista dal libretto, di fare vivere alla protagonista l’ultimo atto come un fantasma che va, infine, a ricongiungersi con lo spirito della madre. Forse l’unica nota stonata è quella data dalla massiccia presenza di angeli custodi che svolazzano nel palco restando sempre poco legati visivamente alla scena. Perfette le luci di Antonio Castro, sempre aderenti al progetto registico.
Belli i costumi, ricchi e preziosi, di Mariana Fracasso. Forse un po’ meno riuscite, poiché poco originali, le coreografie di Frédéric Olivieri, importanti in un’opera come questa, dove uno dei brani più conosciuti è proprio il balletto della danza delle ore. Nota positiva però per gli interpreti: gli Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala che, seppur giovanissimi, si fanno apprezzare per classe e perfezione esecutiva.
La Gioconda è un’opera “da far tremare i polsi”, tanto è l’impegno vocale ed interpretativo richiesto a ciascuno degli interpreti principali. In questa produzione il Teatro alla Scala riesce a radunare alcuni tra i cantanti più affermati dell’attuale scena lirica internazionale.
A partire dalla protagonista, Saioa Hernández, che aveva debuttato questo ruolo al Teatro Municipale di Piacenza nel 2018 e che è stata chiamata in questa produzione a pochi giorni dalla prima per sostituire l’annunciata collega titolare. Il soprano madrileno presenta una vocalità ideale per questo personaggio: il timbro è corposo, la cavata ampia e sicura in acuto come negli affondi nel registro grave. La parte viene affrontata con grande tenacia vocale sino al quarto atto dove la Hernández sfodera una invidiabile precisione esecutiva senza accusare segni di affaticamento nonostante l’ultimo atto sia davvero massacrante. Da segnalare lo splendido finale secondo e, in particolare, il grintoso duetto con Laura Adorno e, ancora, l’accurata esecuzione della celebre aria di quarto, “Suicidio!”, dove il soprano mantiene un controllo magistrale su tutta la linea, sempre omogenea e compatta. L’interprete, poi, appare ampiamente coinvolta, grazie ad un fraseggio scolpito e diretto, sempre controllato e mai sguaiato. Da segnalare, inoltre, l’elegante presenza scenica della Hernández, a proprio agio sul palcoscenico, tutta avvolta nei suoi bellissimi costumi.
Sorte analoga ha coinvolto anche Stefano La Colla, giunto in extremis a sostituire il collega titolare ritiratosi dalla produzione per indisposizione. La Colla possiede un colore lirico e timbro squillante che si fa apprezzare già dal suo ingresso in scena con l’acuto su “Assassini!”, sicuro e ben piazzato. La bellezza della linea vocale, unitamente al peso specifico del mezzo, risultano ideali per vestire i panni dell’appassionato Enzo Grimaldo. Lo scarso, se non inesistente, periodo di prove non hanno giovato alla completa maturazione dell’aspetto interpretativo del personaggio, pur comunque già notevole; siamo convinti che con l’avvicendarsi delle prossime recite, il tenore riuscirà ad acquisire la totale immedesimazione nel disegno registico voluto da Livermore.
Roberto Frontali è un artista di razza e se la voce, per ragioni anagrafiche, ha perso di freschezza ed elasticità, l’interprete è straordinario per verità e profondità d’accento. Il baritono riesce così ad esprimere, con linea vocale sonora, il giusto controllo tecnico, e soprattutto un fraseggio pertinente, sempre misurato ed insinuante, le sfaccettature del diabolico personaggio di Barnaba, precursore, a tutti gli effetti, dello Jago verdiano. Nel finale dell’opera, grazie all’impiego di accenti ben chiaroscurati, questo Barnaba sa essere tremendo e spaventoso senza risultare truculento e gigione.
Daniela Barcellona è Laura Adorno e la sua vocalità brunita rifulge già nell’incontro con la Cieca in primo atto. La linea melodica del mezzosoprano triestino risalta per nitore e morbidezza che, combinata ad una innata proprietà di fraseggio e di pertinenza stilistica, sembra così pennellare con svariate sfumature le inquietudini e i palpiti di questa donna travolta da contrastanti affetti. Si aggiunga inoltre la figura longilinea della cantante che si mostra a proprio agio nei suoi eleganti costumi. Diversi i momenti di grande interesse di questa Laura Adorno, ma basterebbe il duetto con Alvise di terzo atto, affrontato con bruciante passione, per definire superba l’interpretazione della Barcellona.
Strepitoso l’Alvise Badoero di Erwin Schrott che, aiutato dalla sua figura asciutta ed atletica, sembra qui essere un dandy spietato e crudele. Il mezzo vocale è impressionante per ampiezza e volume, la linea sempre appoggiata e squillante, specialmente nella salita verso l’acuto che suona tonante e rotondo. Finissimo l’interprete che sa infondere in ogni frase mille colori e sfumature. Con l’aria di terzo atto, “sì morir ella de’”, eseguita con energica baldanza (vocale ed interpretativa), Schrott conquista definitivamente il pubblico che gli riserva così un’accoglienza trionfale.
La Cieca di Anna Maria Chiuri è semplicemente perfetta. La Chiuri è artista di grande esperienza, di quelle che sa scolpire le parole e disegnare un personaggio a tutto tondo. La linea vocale appare sempre solida e ben tornita, grazie al calore della voce e alla facilità di espansione dei centri. L’attacco di “A te questo Rosario” è dolcissimo e commovente, così come di grande potenza espressiva il proseguimento del concertato. Impareggiabile anche la presenza scenica, mai come in questa produzione fondamentale dal momento che il personaggio ha un ruolo centrale nella vicenda (anche quando non è chiamato a cantare come, ad esempio, nell’ultimo atto dove gli accadimenti del libretto sono narrati come per effetto di un lungo flashback visto che la protagonista si pugnala già dai primi accordi del preludio introduttivo dell’atto).
Efficace e sonoro lo Zuàne di Fabrizio Beggi.
Francesco Pittari disegna un Ispèpo ben tratteggiato tanto sotto il profilo vocale quanto sotto quello interpretativo.
Completano la locandina i puntuali Giorgio Valerio, impegnato nel duplice ruolo di un cantore e di un pilota, e Guillermo Esteban Bussolini, un barnabotto.
A tenere le redini del discorso musicale è chiamato il Maestro Frédéric Chaslin. Una lettura, la sua, che si muove nel solco della tradizione e che solo in pochi momenti riesce a comunicare qualche guizzo interpretato che vada al di là di una sostanziale routine. Ecco allora che difficilmente si colgono il sinistro alone di morte che sovrasta la vicenda sin dal principio, la bruciante passione amorosa che anima i protagonisti, il sogghigno beffardo di Barnaba o la santa protezione della Cieca. Si evidenzia, piuttosto, una certa tendenza ad uniformare le diverse situazioni drammaturgiche, oltre a ricercare, talvolta, sonorità eccessivamente roboanti. Dinanzi a siffatte premesse, l’Orchestra del Teatro alla Scala suona molto bene e mantiene la politezza e precisione sonora cui siamo abituati; spiace tuttavia constatare qualche scollamento tra buca e palcoscenico mettendo così a dura prova i cantanti coinvolti.
Eccellente, secondo consuetudine, il Coro del Teatro alla Scala diretto dal Maestro Alberto Malazzi. Difficile trovare aggettivi adeguati per lodare la bravura di questa meravigliosa compagine corale, sempre precisa negli attacchi, solerte nella ricerca della giusta intensità sonora e del colore più appropriato. Eccellente anche l’apporto del Coro delle Voci Bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala diretto dal Maestro Bruno Casoni.
Grande successo al termine per tutti gli interpreti con punta di particolare entusiasmo per Saioa Hernández ed Erwin Schrott.
LA GIOCONDA
Melodramma in quattro atti
Libretto di Tobia Gorrio (Arrigo Boito)
Musica di Amilcare Ponchielli
La Gioconda Saioa Hernández
Laura Adorno Daniela Barcellona
Alvise Badoèro Erwin Schrott
La Cieca Anna Maria Chiuri
Enzo Grimaldo Stefano La Colla
Barnaba Roberto Frontali
Zuàne Fabrizio Beggi
Un cantore / Un pilota Giorgio Valerio
Isèpo Francesco Pittari
Un barnabotto Guillermo Esteban Bussolini
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Frédéric Chaslin
Maestro del Coro Alberto Malazzi
Maestro del Coro di voci bianche Bruno Casoni
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Mariana Fracasso
Luci Antonio Castro
Video D-WOK
Coreografia Frédéric Olivieri
FOTO: BRESCIA/AMISANO – TEATRO ALLA SCALA