La dama di picche
Pikovaja Dama (La dama di picche) di Pëtr Il’ič Čajkovskij alla Scala di Milano.
A pochi passi dalla Scala di Milano, a Palazzo Reale, due opere dalla mostra “Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento Veneziano” stavano per essere richiamate dal museo dell’ Ermitage, evento scongiurato solo nelle ultime ore. Parallelamente, alla Scala, la programmazione di questa Dama di picche è stata accolta da proteste, ormai ben note, collegate al previsto direttore d’orchestra russo Gergiev e alla sua mancata “abiura” di Putin. L’arte può essere un aspetto della guerra? Può la guerra creare una ideologia culturale? Anche se esistesse non è una cultura accettabile, anzi è deprecabile e restiamo legati al concetto di una cultura slegata da una ideologia. Proprio dall’opera di Čajkovskij possiamo trarre un concreto insegnamento: culture e civiltà apparentemente lontane e contrapposte possono e devono pacificamente confrontarsi in uno scambio sempre proficuo. La dama di picche è tratta infatti da un racconto di Aleksandr Sergeevič Puškin, uno degli autori che meglio riuscirono a coniugare i differenti mondi culturali russo ed europeo. La trama ci porta a San Pietroburgo, città nata nel Settecento dall’idea utopica di Pietro il Grande, creata dall’ architetto ticinese Domenico Trezzini e da maestranze probabilmente italiane. Una storia, quella scritta da Puškin, che celebra la cultura di Pietro il Grande e poi di Caterina II, una inclusività culturale sentita fortemente nella Russia di metà Ottocento, che possiamo trovare non solo nel libretto scritto da Modest Il’ič Čajkovskij ma anche nella scelta musicale: rimandi alla musica del 700, al mondo mozartiano a quello russo coevo si sposano alla cultura musicale popolare (rimandiamo per i dettagli all’ampio saggio nel libretto di sala a firma di Franco Pulcini).
Un’opera complessa insomma, una summa di arte e culture diverse che mirabilmente si muovono insieme. Visivamente, tutto ciò è stato reso dal regista Matthias Hartmann e dallo scenografo Volker Hintermeie con la creazione di uno spettacolo con due anime dove domina il colore nero, che ben si sposa con l’ossessione per la morte che vive il protagonista, alleggerito solo dalle lampade, presenti in colonne o lampadari. A quadri freddi e minimali, mossi solo dalle luci al neon si alternano scene dal sapore più settecentesco anche se sempre piegato in una ottica dark e minimalista. Un colpo d’occhio elegante e sofisticato, soprattutto in alcuni momenti particolarmente riusciti come quello del suicidio della protagonista o la comparsa del fantasma della contessa. I passaggi dal pathos emotivo più alto sono sempre sottolineati dalle luci forti ed importanti di Mathias Märke, che, ad onor del vero, infastidivano però chi assisteva allo spettacolo nei palchi più alti. Essenziali e funzionali i costumi di Malte Lübben e interessanti le coreografie, che riguardavano i momenti dal sapore più settecentesco come la divertente scena pastorale animata da tre satiri.
Deus ex machina del versante musicale, è il caso di dirlo, è il Maestro Timur Zangiev, subentrato nella produzione, a partire dalla seconda recita, per sostituire Valery Gergiev. Il giovane direttore, che aveva già lavorato con i complessi scaligeri durante le prove dello spettacolo, offre una lettura attenta e vibrante del capolavoro di Čajkovskij. La partitura viene affrontata come un grande affresco dalle tinte oscure, livido ed angosciante come l’ossessione che divora la mente di Hermann. Particolarmente riusciti sono i momenti di maggior introspezione dei personaggi (su tutti il drammatico confronto tra la Contessa e il protagonista in secondo atto) dove Zangiev riesce ad ottenere dall’Orchestra scaligera un suono sottile e sfumato, quasi impalpabile, ma ricco di grande tensione e pathos. Di indubbio valore anche la scena della festa di secondo atto alla quale il direttore conferisce sonorità delicate e vaporose, cogliendo alla perfezione l’atmosfera Settecentesca, di stampo mozartiano.
L’Orchestra del Teatro alla Scala interpreta magnificamente le intenzioni di Zangiev, ne segue attentamente il gesto brillando per compattezza e pulizia del suono. I diversi temi che animano la partitura vengono quindi sbalzati con la giusta intensità in un disegno complessivo che risulta sempre ben equilibrato ed omogeneo.
Ben assortito il cast vocale con alcune punte di assoluta eccellenza.
La parte di Hermann presenta una scrittura frastagliata e richiede una grande intensità espressiva; Najmiddin Mavlyanov supera la prova convincendo sotto il profilo vocale e scenico. La linea vocale, caratterizzata da colore scuro, risulta salda nei centri e squillante nel registro acuto, che si espande sonoro e con forza. Il fraseggio restituisce un personaggio infelice, ma, al contempo, innamorato della bella Liza. Sin dal suo apparire sulla scena, si coglie alla perfezione il disagio interiore del personaggio, quella ossessione per il gioco e per il segreto delle tre carte che lo trascinerà ben presto in un vortice autodistruttivo. La scena finale dell’opera, dove Hermann si uccide in preda alla sua follia, viene affrontata con grande impeto e risulta la pagina più riuscita della prova di Mavlyanov.
Asmik Grigorian disegna una Lisa superlativa. Il soprano è dotato di una innata espressività che, unitamente ad una presenza scenica di grande fascino, riesce a disegnare un personaggio di grande spessore drammatico. Basta un piccolo gesto, uno sguardo della Grigorian affinchè il pubblico rimanga ammaliato da questa Lisa smarrita tra la scoperta dell’amore e l’orrore della follia in cui la trascina Hermann. Vocalmente rileva un mezzo sorretto da un timbro lirico dal colore chiaro, centri ben torniti e compatti, un registro superiore luminoso e ricco di armonici che si espande con forza viscerale sino alle vette più acute della scrittura. Il fraseggio sa essere sempre sfumato e articolato, culminando nella bellissima aria di terzo atto e nel disperato duetto che segue e che si conclude con la sua corsa verso la morte.
La Contessa di Yulia Gertseva è di spaventosa glacialità, una nobildonna decaduta algida, tremenda e chiusa nella propria grettezza. Il fraseggio, nobile ed autoritario, si unisce ad una linea vocale sfumata ed omogena. La canzone “Je crains de lui parler la nuit” (tratta da “Richard – Coeur – de Lion” di André-Ernest-Modeste Grétry), affrontata con inflessioni di nostalgica malinconia e un’emissione ridotta quasi ad un sussurro, sembra immersa in una dimensione onirica. Il successivo monologo di terzo atto, nel quale la Contessa rivela ad Hermann il segreto delle carte, viene permeato di un fraseggio autoritario ed imperioso che conferisce così alla pagina una suggestione sinistra e spettrale.
Ottima impressione anche per Alexej Markov che interpreta il Conte Eleckij con accenti nobili ed autorevoli, resi con grande efficacia da una linea di canto morbida ed espressiva.
Note positive per il Conte Tomskij impersonato da Roman Burdenko cui va il plauso di un fraseggio variegato ed incisivo sorretto da una vocalità duttile e ben appoggiata.
Musicalissima la Polina di Elena Maximova, che spicca per un mezzo prezioso ed opulento, capace di colorare la scrittura dei suoi momenti solistici con accenti quanto mai sfumati ed accorati.
Ben a fuoco, sia vocalmente che scenicamente, la governante impersonata da Olga Savova, ironica e materna quanto basta.
Di assoluto rilievo, e ben assortita, la lunga schiera di comprimari: a partire dal Čekalinskij luminoso di Evgenij Akimov, il Surin sonoro di Alexei Botnarciuc, l’aggraziata Maria Nazarova che, con buona intonazione, affronta il duplice ruolo di Maša e Prilepa, l’efficace Brayan Ávila Martínez nel ruolo di un cerimoniere. Ricordiamo inoltre Olga Syniakova, che con linea vocale composta e ben educata affronta il ruolo di Milovzar, il puntuale Sergey Radchenko, Čaplickji, l’efficace Matias Moncarda, Narumov e una spigliata quanto simpaticamente autoritaria Beatrice Calori come capo della banda dei ragazzini.
Ben riusciti gli interventi del Coro delle voci bianche del Teatro alla Scala, dirette dal Maestro Marco De Gaspari.
Strepitosa, infine, la prova della compagine del Coro del Teatro alla Scala, diretto da Alberto Malazzi, mirabile per precisione, intensità d’accento e varietà di colori. Toccante in tal senso la pagina finale della sola sezione maschile che segue la morte di Hermann.
Successo trionfale al termine tributato dal pubblico che esauriva la sala e che seguiva con grande attenzione questa meravigliosa pagina di storia della musica. Verso la fine, in un breve intervallo, si leva un grido dal loggione: “Stop russian war” e il pubblico della scala risponde con un grande applauso.
PIKOVAJA DAMA (LA DAMA DI PICCHE)
Opera in tre atti e sette quadri
Libretto di Modest Il’ič Čajkovskij
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Hermann Najmiddin Mavlyanov
Il conte Tomskij/Zlatogor Roman Burdenko
Il principe Eleckij Alexey Markov
Čekalinskij Evgenij Akimov
Surin Alexei Botnarciuc
Čaplickij Sergey Radchenko
Narumov Matías Moncada
Il cerimoniere Brayan Ávila Martínez
La Contessa Julia Gertseva
Liza Asmik Grigorian
Polina Elena Maximova
La governante Olga Savova
Maša/Prilepa Maria Nazarova
Il capo della banda dei ragazzini Beatrice Calori
Milovzor Olga Syniakova
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Timur Zangiev
Maestro del coro Alberto Malazzi
Maestro del Coro di voci bianche Marco De Gaspari
Regia Matthias Hartmann
Scene Volker Hintermeier
Costumi Malte Lübben
Luci Mathias Märker
Drammaturgia Michael Küster
Coreografia Paul Blackman
FOTO: BRESCIA AMISANO – TEATRO ALLA SCALA