Káťa Kabanová
Il “biondo” Volga. Una volta tanto, l’aggettivo così caro al Tevere deve essere scomodato per un altro fiume, il più lungo d’Europa. Il Volga è lo “spettatore” silenzioso dei tre atti di “Káťa Kabanová”, opera di Leos Janacek che non era mai stata proposta a Roma nei suoi cento anni di storia. Il dramma del compositore ceco, rappresentato per la prima volta nel 1921, è approdato al Teatro Costanzi per un debutto molto atteso e che non ha tradito gli appassionati più sfegatati delle rarità operistiche. Il nuovo allestimento dell’Opera di Roma in coproduzione con il Royal Opera House Covent Garden di Londra ha presentato questa storia poco nota in chiave moderna e con dettagli che hanno strizzato l’occhio al cinema.
Questa recensione si riferisce alla prima recita in programma nella Capitale, quella di martedì 18 gennaio 2022. L’obiettivo della regia di Richard Jones e delle scene e costumi di Antony McDonald è stato quello di focalizzare inevitabilmente l’attenzione sulla protagonista del titolo, una donna visionaria e di grande immaginazione, oltre al suo tracollo tragico dopo aver tradito il marito. Gli ambienti mostrati al pubblico erano volutamente asettici, abitudinari, quasi primitivi e soffocanti. Lo spettacolo in questione ha vinto l’Olivier Award nel 2019 come miglior nuova produzione d’opera, un bel riconoscimento anche se non sono mancati i particolari da criticare in modo negativo.
Il pubblico del Costanzi è stato proiettato in un dramma interiore, con una maggiore concentrazione sulla psiche dei personaggi e meno sul contesto generale. La semplice abitazione di Kat’a è stata stilizzata con una parete che all’occorrenza poteva ruotare per mostrare l’ingresso della casa. Del Volga nemmeno l’ombra, ma semplicemente alcuni pescatori con tanto di canne senza lenza e finti pesci che si muovevano grazie al potere dell’elettricità. I costumi hanno suggerito un’ambientazione a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso: camicie a mezze maniche, pantaloni a sigaretta e zampa d’elefante, senza dimenticare la macchina di Tichon che avremmo di sicuro visto sfrecciare qualche decennio fa.
Vorticoso, anche troppo, il comportamento del coro e dei personaggi di contorno, in una continua corsa sul palcoscenico (da apprezzare la precisione e il coordinamento) che avrebbe fatto girare la testa a chiunque. È stato un po’ come se il delirio interiore della Kabanova si riflettesse su tutto il resto del cast. Nel ruolo della protagonista ha primeggiato Corinne Winters. La sua voce è apparsa subito di grande seduzione timbrica, mettendo in luce una invidiabile maturità artistica. Grazie alle note sfumate nei momenti giusti e ad una immedesimazione profonda nella psiche del personaggio, la sua Kat’a ha conquistato giustamente il più rumoroso tributo finale di applausi.
Il livello del cast non è sceso con gli altri interpreti. Charles Workman ha tratteggiato un Boris adeguatamente introspettivo, con arie ben accentate per enfatizzare la sua passione nei confronti della Kabanova. Il Tichon di Julian Hubbard era apprezzabile dal punto di vista teatrale, senza dimenticare il buon dosaggio dell’emissione. A suo agio si è mostrata anche Susan Bickley nei panni di Kabanicha: se l’intento era quello di far odiare il suo personaggio per aver rovinato psicologicamente Kat’a, ci è riuscita benissimo, in particolare con pochissime incertezze nella posizione dei suoni. Divertente e burbero, il Dikoj di Stephen Richardson ha evidenziato l’esperienza e la duttilità vocale di questo cantante.
Freschi, gradevoli e molto spontanei, poi, sono stati Carolyn Sproule (Varvara) e Sam Furness (Kudrjas). Il mezzosoprano canadese è stato sempre espressivamente ben tornito, con una morbidezza e nobiltà di voce a dir poco pastose. Il tenore, invece, è emerso per il bel portamento scenico (fatta eccezione per l’ukulele suonato in modo fin troppo plateale) e per un colore vocale acceso e mai banale. Sara Rocchi (Glasa) e Angela Schisano (Feklusa), entrambe diplomate con il “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro Costanzi, hanno aggiunto brio e tensione drammatica all’intera vicenda. Spigliato e senza fronzoli il Kuligin di Lukas Zeman. Hanno completato il cast Giordano Massaro (un passante) e Michela Nardella (una donna del popolo).
David Robertson ha guidato con sicurezza l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma: il direttore statunitense ha voluto condurre con garbo gli spettatori nell’universo musicale di Janacek, uno spazio moderno e romantico al tempo stesso. Ci è riuscito con accompagnamenti sempre morbidi ed eleganti, senza perdersi in inutili preziosismi o rallentamenti orchestrali. Il coro del Costanzi, diretto da Roberto Gabbiani, ha fatto più da contorno scenico che vocale, ma non si è mai fatto trovare impreparato nelle sottolineature più drammatiche del crollo psicologico di Kat’a. L’opera verrà rappresentata anche il 21, 23, 25 e 27 gennaio.
KÁT’A KABANOVÁ
Opera in 3 atti
Musica di Leos Janacek
Libretto di Leos Janacek
Direttore: David Robertson
Regia: Richard Jones
Maestro del coro: Roberto Gabbiani
Scene e costumi: Antony McDonald
Luci: Lucy Carter
Movimenti coreografici: Sarah Fahie
PERSONAGGI E INTERPRETI
Savel Prokofjevic Dikoj Stephen Richardson
Boris Grigorijevic Charles Workman
Kabanicha Susan Bickley
Tichon Julian Hubbard
Kat’a Corinne Winters
Kudrjas Sam Furness
Varvara Carolyn Sproule
Kuligin Lukas Zeman
Feklusa Angela Schisano
Glasa Sara Rocchi
Un passante Giordano Massaro
Una donna del popolo Michela Nardella
Orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento dell’Opera di Roma in coproduzione con il Royal Opera House Covent Garden
Foto Fabrizio Sansoni (Teatro Opera Roma)