L’Amleto di Faccio, un oblio meritato?
Un compositore venticinquenne con una sola rappresentazione alle spalle e un librettista ventitreenne alla prima esperienza operistica di livello: è alla musica e alle parole di questi due ragazzi, i quali vogliono innovare da cima a fondo il mondo dell’arte, che sono diretti i gli applausi del pubblico genovese del Teatro Carlo Felice il 30 maggio 1865. Sono passati oltre 150 anni dalla première dell’Amleto, tragedia lirica in quattro atti su cui Franco Faccio, il compositore, e Arrigo Boito, il librettista, riponevano molte aspettative e speranze. Si tratta di un vero e proprio manifesto della Scapigliatura, ma l’accoglienza non fu la stessa qualche anno dopo, quando la Scala fischiò solennemente queste stesse note.
Vale la pena ripercorrere la storia di quest’opera, per capire i motivi dell’insuccesso del 1871, nonostante le evidenti innovazioni e originalità. La storia dell’Amleto di Faccio e Boito è tutto sommato breve. Purtroppo le fonti non sono così copiose come ci si potrebbe attendere: ad esempio, del periodo precedente alla composizione si sa solamente che i due giovani, una volta usciti dal Conservatorio di Milano, erano pieni di progetti e iniziative. Perché proprio una delle massime tragedie di William Shakespeare? Sembra che Boito abbia cominciato a lavorare ancora prima de I profughi fiamminghi, con il libretto che venne dunque completato il 2 luglio del 1862 in Polonia. Molto più numerosi sono i riferimenti a quella serata del 1865 così infelice.
Il cast comprendeva cantanti importanti come Mario Tiberini nel ruolo di Amleto, Angiolina Ortoalni-Tiberini in quello di Ofelia, Elena Corani e Antonio Cotogni come Regina e Re. Il fatto che il Carlo Felice avesse accettato due quasi sconosciuti si deve essenzialmente all’intervento personale di Alberto Mazzuccato, professore di conservatorio di Boito e amico del direttore d’orchestra Angelo Mariani, scelto appunto per questo debutto. Come scrisse il giorno successo la Gazzetta di Genova: L’opera è stata generalmente applaudita alla fine del primo atto, dopo il duetto tra Amleto e Ofelia, nel finale del secondo atto, nella canzone di Ofelia nel terzo e durante la marcia funebre del quarto. Il giovane maestro (Faccio) è stato chiamato alla ribalta diverse volte.
Anche il foglio Movimento non ebbe dubbi: La scorsa notte le porte del Carlo Felice si sono aperte all’attesa performance del nuovo lavoro di Franco Faccio, Amleto. Le aspettative erano alte e il giudizio del pubblico si è mutato dai dubbi e dalle circospezioni all’entusiasmo e alla consapevolezza di un ottimo risultato. Insomma, fu riconosciuto il talento cristallino di Faccio. Non fu dello stesso avviso Giuseppe Verdi, secondo cui nessuno avrebbe potuto capire qualcosa in mezzo a tutto quel rumore. I sei anni che passarono da Genova a Milano furono pieni di avventure ed esperienze, in primis la partecipazione alla Terza Guerra d’Indipendenza nel 1866 sia di Faccio che di Boito, per non parlare del fiasco del Mefistofele nel 1868 alla Scala.
L’arte scapigliata necessitava dunque di una bella rinfrescata, tanto che nel 1870 si parlò di una possibile ripresa dell’Amleto a Firenze. Si optò invece per Milano, la Scala e la stagione 1870-1871. Tiberini fu nuovamente scritturato per il ruolo eponimo, ma anche il resto del cast fu eccellente, con Virginia Pozzi-Branzutti come Ofelia e il direttore Eugenio Terziani a condurre. Purtroppo, lo stesso Tiberini cadde malato e il debutto scaligero fu posticipato di due settimane. Ma non bastarono. In effetti, il tenore marchigiano era completamente senza voce e disorientato, il suo fu un vero e proprio disastro, caratterizzato dalla mancata emissione di moltissime note.
Faccio si mostrò calmo e tranquillo, ma in realtà il nervosismo si era impadronito del suo animo. Qualche applauso non era mancato, ma nel complesso si parlò immediatamente di fiasco. È un vero peccato che non si sia più prodotto l’Amleto fin quando Faccio è rimasto in vita (morirà, cinquantenne, nel 1891 dopo essere impazzito). In fondo, come notò Tito Ricordi, si trattava di un Amleto rappresentato senza Amleto, ma forse era destino che ci si dimenticasse presto di tale tragedia. C’è però da sottolineare la grande passione di Antonio Smareglia, uno dei principali allievi di Faccio, per lo spartito in questione: una musica e un adattamento considerati all’epoca troppo ambiziosi e poco rispettosi di Shakespeare, ma si può parlare anche di una testimonianza tangibile e preziosa di cosa la Scapigliatura tentò di produrre nell’800.