Il volo che Nicolò Massa non spiccò mai
Una vita e una carriera che potevano essere più lunghe e piene di successi, ma interrotte bruscamente prima di arrivare alla gloria: Nicolò Massa è stato a un passo dal raggiungere obiettivi e traguardi importanti come operista, purtroppo il suo è diventato uno dei tanti nomi dei compositori dimenticati del XIX secolo. In questo caso, però, la sfortuna ha influenzato e non poco il corso degli eventi. Vale decisamente la pena ripercorrere e approfondire i fatti principali della sua breve esistenza. È il 26 ottobre del 1854 quando Bellenda Felicina dà alla luce Nicolò (il padre si chiamava Bartolomeo), nato nel piccolo comune di Calice Ligure (provincia di Savona).
La famiglia era piuttosto agiata, ma gli studi classici all’istituto privato “Danovaro” non facevano per lui (uno dei compagni di classe fu comunque Giacomo Della Chiesa, futuro papa Benedetto XV). La passione per la musica era cominciata infatti molto presto, una vocazione che lo portò a prendere lezioni di pianoforte da Giovanni Papa, senza dimenticare quelle di contrappunto e armonia dal tedesco Martin Roedel. L’anno della svolta per la carriera musicale di Massa fu senza dubbio il 1875, quando venne ammesso al Conservatorio di Milano, più precisamente alla classe di composizione di Antonio Bazzini, il suo primo grande estimatore.
Dovranno passare ben quattordici anni, però, prima che lo stesso Bazzini gli rilasci un attestato, documento che certifica come Massa si sia distinto in maniera costante come uno dei giovani più intelligenti e dotati nell’arte della composizione. Grandi attestati di stima, anche da parte di maestri stranieri, ma di riscontri concreti neanche l’ombra. Un esempio emblematico è rappresentato proprio dalla scena medioevale “Aldo e Clarenza”, composta in occasione del diploma al Conservatorio, apprezzata e lodata a più riprese (il libretto era di uno dei principali scapigliati dell’epoca, Ferdinando Fontana), ma rimasta un semplice lavoro giovanile.
Non bisogna stupirsi più di tanto, dunque, se i primi anni successivi agli studi siano stati trascorsi sbarcando il lunario a Milano, eseguendo per lo più alcuni lavori di riduzione per canto e pianoforte per conto degli editori Lucca e Ricordi. La grande occasione, però, arrivò nel 1882, quando vi fu l’opportunità di mettere in scena il primo spartito operistico. Si trattava de “Il conte di Chatillon”, melodramma in quattro atti rappresentato presso il Teatro Municipale di Reggio Emilia (il libretto era stato curato da Rodolfo Paravicini) e capace di ottenere un ottimo successo di pubblico. La musica di Massa era influenzata e non poco da quella di Richard Wagner.
L’accoglienza positiva da parte degli spettatori reggiani convinse Ricordi a mettere il compositore ligure sotto contratto e la commissione di una nuova opera fu la naturale conseguenza di tutto questo. Non più Reggio Emilia, ma un palcoscenico notevolmente più importante come La Scala. Ne venne fuori il dramma lirico in quattro atti “Salammbò” su libretto di Angelo Zanardini. Quest’ultimo aveva insistito parecchio per introdurre il decadentismo nell’opera italiana e riuscì a ridurre il romanzo sterminato di Gustave Flaubert, il quale racconta di una complicata vicenda amorosa ai tempi delle guerre puniche. La prèmiere fu fissata per il 15 aprile del 1886 e il cast prometteva bene.
In effetti, il soprano Gemma Bellincioni e il direttore d’orchestra Franco Faccio assicurarono un buon successo, condito da sedici chiamate al proscenio riservate a Massa: le rappresentazioni successive andarono ancora meglio, grazie all’invenzione melodica piuttosto ispirata, all’orchestrazione accurata e al senso teatrale deciso. Qualche critica, invece, venne mossa ai caratteri poco determinati dei personaggi. La ripresa del dramma avvenne un anno dopo al Carignano di Torino e nel 1889 a Genova. Sembrava l’inizio di una carriera sfolgorante, in realtà “Salammbò” fu l’ultima opera del musicista calicese.
Gli ultimi anni di vita furono trascorsi alla ricerca di un lavoro che lo facesse entrare nell’olimpo dei compositori lirici, ma il successivo melodramma, “Eros” (commissionato dalla Bellincioni e dal marito Roberto Stagno), verrà rappresentato solamente postumo (nel 1895 per la precisione), lo stesso destino che toccò a “Onesta” (1929). L’improvvisa morte del figlioletto fu un colpo troppo duro e pochi giorni dopo, nel gennaio del 1894, morì anche lui, dopo essere stato colpito da una polmonite (a 39 anni, come Alfredo Catalani). Illuminante per comprendere quello che poteva essere e non è stato è la lettera scritta da Giuseppe Verdi ai familiari:
Io lo vedevo rare volte, ma sempre con il più grande piacere perché apprezzavo i suoi modi gentili ed ammiravo il suo valore nell’arte.