I pregi sottovalutati de “La cena delle beffe” di Giordano
Successo e riserve: la storia delle rappresentazioni de “La cena delle beffe”, poema lirico drammatico di Umberto Giordano su libretto di Sem Benelli, è stata accompagnata costantemente da questi due fattori, un mix che va approfondito con la massima cura. Il 20 dicembre del 1924, i quattro atti del compositore foggiano venivano rappresentati per la prima volta in assoluto al Teatro alla Scala di Milano. Le premesse per un’ottima riuscita c’erano tutte, visto che la direzione venne affidata ad Arturo Toscanini, mentre la regia fu curata da Giovacchino Forzano, librettista di Mascagni e Puccini. L’attesa era comunque durata parecchi anni, cioè dal primo interessamento di Giordano.
Quest’ultimo si era lasciato affascinare dal soggetto sin dal 1919. “La cena delle beffe” era già un dramma teatrale piuttosto conosciuto e affermato (il debutto al Teatro Argentina di Roma risaliva al 1909), ma Giordano era stato battuto sul tempo da un altro compositore, Tommaso Montefiore: i diritti erano stati acquisiti, ma la musica non era mai stata realizzata, ragione per cui qualche speranza poteva essere ancora nutrita. Purtroppo, però, ogni tentativo di ottenere la cessione dei diritti era fallito miseramente. Il musicista pugliese non rimase comunque con le mani in mano, tanto è vero che il trascorrere inesorabile degli anni fu sfruttato per portare avanti la composizione, al punto che la partitura diventò definitiva a pochi mesi di distanza dalla risoluzione della disputa legale.
Il cast scelto per quella prèmiere di nove decenni fa era di tutto rispetto: per il ruolo di Ginevra fu scelta Carmen Melis (prima Thaïs nell’opera omonima di Jules Massenet), senza dimenticare Cesarina Valobra (Lisabetta), Cesira Ferrarubu (Laldomine), Lina Lanza (Fiammetta), Gina Pedroni (Cintia), Hipólito Lázaro (Giannetto Malaspini), Emilio Venturini (Gabriello Chiaramantesi), Palmiro Domenichetti (Lapo), Alfredo Tedeschi (cantore), Francesco Dominici (Trinca), Benvenuto Franci (Neri Chiaramantesi), Aristide Baracchi (Fazio), Ernesto Badini (dottore), Giuseppe Menni (Calandra) e Fernando Autori (Tornaquinci). I consensi non mancarono, ma qualche appunto da parte della stampa gettò delle ombre.
In particolare, si parlò di un “dramma da arena o da cinematografo”, oltre che di una “assoluta mancanza di ogni vita interiore” per quel che riguarda i personaggi principali. I meriti di Giordano furono invece circoscritti all’ingegno musicale e alla qualità delle sue note. Le riserve riguardarono soprattutto il libretto di Benelli, mentre lasciarono indenni i cantanti, con Lázaro ottimamente espressivo, Franci esuberante e dal suono potente e la Melis avvenente e disinvolta. La trama è presto detta: siamo nella Firenze di Lorenzo de’Medici e Giannetto, astuto ma debole, è il rivale in amore del violento Neri. Ginevra è la ragazza per cui entrambi spasimano.
Giannetto riesce a far imprigionare Neri con uno stratagemma, ma egli riesce ad evadere e decide di vendicarsi, convinto che Ginevra abbia ceduto al rivale. In realtà verrà pugnalato per errore Gabriello, fratello dello stesso Neri, con quest’ultimo che impazzirà di dolore. Gli spunti imprevedibili non mancano, come anche i colpi di scena, quello che fece maggiormente storcere il naso fu il linguaggio di Benelli, elegante e realistico, ma anche pieno zeppo di termini antichi (interpretati da qualcuno come una sorta di autocompiacimento), al punto da non dare molta credibilità alle emozioni dei personaggi.
Cosa c’è da dire, invece, a proposito della musica? Giordano dimostrò di aver effettuato una ricerca molto accurata dal punto di vista vocale, in particolare per quel che riguarda il fraseggio e i vari timbri. Le orchestrazioni felici e delicate non mancano, come anche le pagine più complesse, a testimonianza di un contrappunto ben studiato. Il giudizio può essere completato, poi, dal ritmo versatile e dal mix azzeccato tra l’intimismo e i momenti più raccolti, il tutto senza esagerare nel numero degli strumenti da sfruttare: il lirismo domina abbondantemente e le tipiche caratteristiche del filone verista, già piuttosto affermato nel 1924, vengono superate in maniera brillante.
La prèmiere fu definita trionfale grazie alle ventiquattro chiamate alla ribalta, sia per il direttore d’orchestra che per tutti i cantanti. Nel giro di un lustro, poi, furono conquistate moltissime città in ogni parte del mondo (si possono citare, ad esempio, le due stagioni al Metropolitan di New York). Le rappresentazioni in epoca più moderna sono diminuite, anche se un’uscita vera e propria dai cartelloni non c’è mai stata; nel 1987, in particolare, il pubblico irlandese di Wexford ebbe la possibilità di assistere a una importante ripresa, ma non meno fondamentale è stata quella allestita otto anni dopo dall’Opera di Zurigo. I pregi ci sono eccome e andrebbero semplicemente valorizzati con attenzione.