Il fiasco di “Un giorno di regno” e la presunta rivalità tra le cantanti
Il pubblico maltrattava l’opera di un povero giovane, ammalato, stretto da tempo, e col cuore straziato d’un’orribile sventura! Io non ho più visto da quell’epoca il Giorno di Regno e sarà certo un’opera cattiva, pure chi sa quante altre non migliori sono state tollerate o fors’anco applaudite. Oh, se allora il pubblico avesse, non applaudita, ma sopportata in silenzio quell’opera io non avrei parole sufficienti per ringraziarlo!
È il 4 febbraio del 1859 quando Giuseppe Verdi scrive queste parole in una lettera indirizzata a Tito Ricordi: sta parlando della sua seconda opera, “Un giorno di regno, ossia il finto Stanislao”, e la delusione per il trattamento ricevuto dal pubblico della Scala è evidente, un sentimento che non si era ancora placato a distanza di 19 anni.
Il fiasco fu evidente nel corso della serata della prima rappresentazione, il 5 settembre 1840, un disastro che si aggiunse alle disgrazie familiari che avevano funestato la vita di Verdi nei mesi precedenti, vale a dire la morte della giovane moglie e dei due figli. Ancora oggi questo melodramma giocoso in due atti non trova molto spazio nei cartelloni teatrali, probabilmente ancora penalizzato dal giudizio di 175 anni fa. Le motivazioni che vengono ripetute da tanto tempo per comprendere i fischi dei milanesi sono sempre le stesse.
Si fa riferimento allo stato d’animo poco adatto del compositore, triste e affranto per i lutti e non in grado di affrontare un’opera buffa, ma anche a una qualità musicale scadente e a un pubblico ormai stanco del genere, visto che non molto altro poteva essere scritto e composto dopo i trionfi di Gioachino Rossini. Ma non si può parlare di una vera e propria opera buffa, più che altro di un lavoro da inserire nel genere semiserio, inoltre il buon successo ottenuto da questa composizione qualche anno dopo al Teatro San Benedetto di Venezia farebbe pensare a qualcosa di diverso alla base del fiasco di cui tanto si è discusso.
Una versione alternativa e piuttosto trascurata è quella di un testimone diretto della prèmiere del 1840, il baritono bolognese Raffaele Ferlotti. Ferlotti fu il primo Belfiore (uno dei protagonisti dell’opera) e nel 1890 scrisse una lettera al Trovatore di Milano per raccontare alcuni retroscena. Secondo il suo punto di vista, l’insuccesso e la conseguente eliminazione di “Un giorno di Regno” da parte dell’impresario della Scala Bartolomeo Merelli furono il risultato di una rivalità a dir poco accesa ed esasperata tra le due interpreti del titolo, vale a dire il soprano Antonietta Marini-Rainieri e il mezzosoprano Luigia Abbadia. Ferlotti parlò anche di non insolite picche fra artisti.
Cerchiamo di capire meglio cosa potrebbe essere successo. Si può fare davvero affidamento su una lettera scritta ben mezzo secolo dopo lo svolgimento dei fatti? Lo stesso ragionamento andrebbe fatto per le dichiarazioni di Giuseppe Verdi sull’opera, visto che le ricostruzioni storiche del Cigno di Busseto sul fiasco sono state fatte a distanza di dieci e anche di 39 anni (in un’altra lettera a Giulio Ricordi), il tanto tempo trascorso potrebbe aver alterato la memoria. Obiettivamente, però, sia Antonietta Marini-Rainieri che Luigia Abbadia potevano avere buoni motivi per prevalere l’una sull’altra.
Antonietta Marini-Rainieri aveva già ottenuto dei buoni successi prima del 1840, in particolare nel ruolo di Giulietta ne “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini, mentre Luigia Abbadia aveva appena 19 anni e nello stesso anno di “Un giorno di Regno” era stata composta per lei da Giovanni Pacini la parte da protagonista nella “Saffo”. Erano entrambe in rampa di lancio, se le loro carriere fossero sintetizzate al massimo: Verdi era ancora un giovane musicista pressoché sconosciuto, ma il palcoscenico della Scala può aver fatto gola a due cantanti per cui si prospettava un futuro artistico incoraggiante.
Forse non si potrà mai conoscere la verità completa, comunque rimane il fatto che la seconda opera di Verdi è gradevole e piacevole, tenendo sempre in considerazione che si sta parlando di una emulazione di Rossini e Donizetti da parte di un 27enne. La sinfonia è forse una delle parti più apprezzabili e in cui si può intuire la tipica spontaneità melodica del compositore: una serie di sfortunate coincidenze, dal libretto poco amato da Verdi (Lessi e rilessi, nessuno mi piaceva, ma viste le premure che mi si facevano, prescelsi quello che mi parve meno male) alle disgrazie familiari, passando per le rivalità artistiche e i gusti dei milanesi di allora, ha relegato questi due atti in disparte senza tante possibilità di appello.