“I Shardana”: opera sopravvalutata o capolavoro?
La più grande opera lirica composta in Italia in questo dopoguerra. Non usò mezzi termini Felix Karlinger, uno dei maggiori conoscitori dell’etnomusicologia e della letteratura popolare sarda, per descrivere “I Shardana”, dramma musicale di Ennio Porrino rappresentato per la prima volta al San Carlo di Napoli il 21 marzo del 1959. Eppure non sono in molti a conoscere questo lavoro, messo in scena poche volte dopo la prèmiere di oltre mezzo secolo fa e quasi sempre in Sardegna: il giudizio di Karlinger era forse esagerato oppure c’è dell’altro che spiega un oblio così lungo? Porrino, classe 1910 e nativo di Cagliari, si era affermato negli anni del fascismo, ma dopo la fine della guerra fu costretto ad accettare incarichi minori (soprattutto come bibliotecario).
Nella sua carriera possiamo trovare facilmente sia un punto di partenza che uno di arrivo. Il primo è senza dubbio la sinfonia “Sardegna” (1932-1933), una accurata rielaborazione della musica popolare sarda, mentre il secondo non può essere che quest’opera lirica di cui si sta parlando. Di cosa si tratta esattamente? “I Shardana”, il cui libretto venne curato dallo stesso Porrino, si compone di tre atti ambientati nell’isola, più precisamente nel periodo nuragico (circa tremila-quattromila anni fa). La storia della Sardegna è piena zeppa di invasioni e gli shardana erano proprio una di queste popolazioni. La trama è presto detta.
Nel primo atto Orzacco e Torbeno, figli del capo Gonnario, sono impegnati in alcuni riti religiosi, quando interviene il guerriero cantore Perdu, il quale affida la guida del popolo a Gonnario. Quest’ultimo viene rimproverato dalla moglie Nibatta di dedicare troppo tempo alla guerra. I due ragazzi ricevono elmi, spade e scudi ed ha inizio la danza nuragica. Torbeno è però innamorato di Berbera Jonia, una ragazza che è giunta nell’isola insieme alle armate nemiche: la guerra viene dimenticata per un momento e ha luogo un incontro romantico. Nel secondo atto, poi, l’azione si svolge a Montalba, la città in cui è nato Gonnario, in cui si combattono gli invasori.
Torbeno e Berbera Jonia si incontrano nuovamente e decidono di unirsi al nemico, ma Gonnario scopre il tradimento: nel corso della battaglia, il padre potrebbe uccidere il figlio, ma la ragazza riesce a fermare la sua spada. Nel terzo atto, infine, Torbeno è condannato dal popolo e condotto nel nuraghe. Berbera Jonia vorrebbe unirsi all’amante, ma Orzocco la uccide senza esitazioni. I due giovani sono morti, ma le loro anime invocano pietà, in quanto la loro unica colpa è quella di essersi amati. L’opera termina con un flash-back in cui Gonnario invita popolo e poeti a cantare per celebrare la vittoria nei mari.
Nel corso di quella prima rappresentazione di 55 anni fa vi furono applausi a scena aperta e una ventina di chiamate (la maggior parte delle quali rivolte a Porrino). Le rappresentazioni successive avvennero, invece, nel 1960 a Cagliari e, sempre nello stesso anno, all’Auditorium del Foro Italico a Roma, poi un lungo silenzio interrotto soltanto in tempi recenti, nonostante molti sardi non conoscano il lavoro in questione. È un peccato che non sia stato dato seguito a una tipologia di opera e di stile nuovissima, fino a quel momento sconosciuta ai palcoscenici dei teatri italiani. I grandi apprezzamenti all’estero, in particolare in Germania e negli Stati Uniti, non sono evidentemente bastati.
Eppure ne “I Shardana” ci sono dei pezzi che meritano parecchio spazio: si possono citare, ad esempio, il cosiddetto Inno dell’isola e la danza nuragica del primo atto, dai vaghi sentori ancestrali, ma non meno interessante è la disperazione di Nibatta nel terzo atto, quando piange la morte del figlio Torbeno, un lamento funebre tipicamente sardo (la parola giusta da usare è attittidu) che viene cantato in italiano. Uno dei principali ostacoli al pieno successo del lavoro di Porrino fu rappresentato dalla sua “pericolosità”. Può sembrare un termine forte, ma “I Shardana” non venne considerata opportuna dal punto di vista politico.
In effetti, il capolavoro moderno poteva mettere a rischio le identità culturali, linguistiche, letterarie e musicali della Sardegna: di conseguenza, il lavoro fu dimenticato (in maniera più o meno volontaria) ed evitato dai teatri isolani per moltissimo tempo, tanto è vero che l’opera sparì dalla memoria dei sardi. La riscoperta, comunque, è appena cominciata e finalmente si potrà comprendere, lentamente ma meglio, se i giudizi degli anni Sessanta del secolo scorso (è ben vero che dopo Puccini nessun musicista ha dato alla musica italiana tanto quanto Porrino) sono stati affrettati o meno.