“Le Maschere” e la comicità incompresa di Mascagni
Sette grandi palcoscenici e una campagna pubblicitaria che farebbe invidia a quelle dei giorni nostri: “Le Maschere”, ottava fatica operistica di Pietro Mascagni si preannunciava come una novità teatrale importante e in grado di far riassaporare i fasti della Commedia dell’Arte. In realtà, le cose non andarono come il compositore livornese aveva sperato, un fiasco solenne che va approfondito e spiegato. Troppa ambizione nello scegliere sette teatri per una prèmiere in contemporanea? Oppure un pubblico dai gusti più esigenti e pienamente proiettato nel XX secolo?
Quella serata del 17 gennaio 1901, appena dieci giorni prima della morte di Giuseppe Verdi, ha fatto versare fiumi di inchiostro e di critiche, senza che gli interventi e le mutilazioni successive di musica e libretto siano riuscite a migliorare il giudizio su quest’opera buffa. Procediamo con ordine. Iris aveva garantito a Mascagni grandi onori e successi in tutto il mondo, l’800 stava per finire e con l’avvicinarsi del ‘900 il musicista si concentrò su un contratto che prevedeva due lavori da ultimare simultaneamente. Tutto fu poi ridotto a una sola opera, la Commedia, titolo originale delle Maschere. Mascagni lavorò con molta calma, secondo alcuni eccessiva, visto che la consegna era stata fissata per il mese di marzo del 1900.
L’editore Sonzogno puntava molto su questo contratto e ne parlò in termini entusiastici alla stampa. Proprio sul più bello l’opera si bloccò per vari motivi. In particolare, Mascagni si arrabbiò parecchio per un annuncio di cui non fu messo a conoscenza, cioè l’impegno di rappresentare per la prima volta l’opera al Lirico di Milano (era già stato contattato l’Adriano di Roma). Dopo una lunga e faticosa tournée in Russia, il compositore tornò con un nuovo umore e più aperto alle idee di Sonzogno. Inizialmente si pensò a una esecuzione in due teatri diversi, poi si puntò su ben sette città (Roma- Costanzi, Milano-La Scala, Genova-Carlo Felice, Torino-Regio, Venezia-La Fenice, Verona-Filarmonico e, due giorni dopo, il San Carlo di Napoli).
Solamente a Roma vi fu un buon apprezzamento da parte del pubblico, grazie alla presenza carismatica di Mascagni come direttore d’orchestra, ma per il resto i fiaschi e i fischi furono numerosi. La constatazione amara dell’insuccesso è ben descritta da una frase del musicista: Credevo di avere in mano il settebello e invece mi vien fuori il sette…brutto! Il libretto di Luigi Illica gli aveva consentito di affrontare un genere a lui non molto comune, quello comico, una esperienza che però non spaventò certo Mascagni, toscano e dotato di umorismo nella vita di tutti i giorni. I dubbi circondarono comunque la sua mente. Per un lavoro del genere non si doveva assolutamente scadere in soluzioni troppo semplicistiche o tipiche dei dilettanti, rischi non semplici da evitare.
La trama è presto detta: nella parabasi, la sinfonia viene interrotta dall’impresario Giocadio, il quale descrive i vari personaggi. Ci sono poi altri tre atti. Rosaura ama e ha intenzione di sposare Florindo, anche se Pantalone l’ha promessa a Capitan Spavento. Brighella, fidanzato di Colombina (amica di Rosaura), la convince ad accettare il volere paterno, visto che userà una polverina magica durante la festa di fidanzamento per risolvere tutto. Tutti parlano e gridano, sono in preda a una sorta di follia e si crea una grande confusione. Alla fine Pantalone accetterà le nozze tra Rosaura e Florindo, i quali gli promettono un nipote. Il ritmo dell’azione è piuttosto sciolto e vi sono trovate musicali azzeccate. C’è però da dire che spesso Mascagni ha sfruttato dei recitativi leggermente stucchevoli.
L’obiettivo era quello di ricalcare fedelmente i modelli del ‘700, ma di alcune situazioni si poteva fare a meno. Per quel che riguarda la vocalità, poi, fu scelto un cast che fosse preparato a muoversi correttamente sul palcoscenico e a rendere vitale ogni singola maschera. L’orchestra è sobria ed emerge nettamente nel corso della sinfonia. Perché la comicità mascagnana non convinse? Erano passati dieci anni da “Cavalleria Rusticana” e sembrava quasi di trovarsi di fronte a un altro compositore. Nel 1890 Mascagni intuì la sete di novità del pubblico, nel 1901 invece c’era ancora questo desiderio di nuovo e la Commedia dell’Arte, seppur modernizzata, rappresentava una sorta di passo indietro. Le Maschere hanno diviso anche dopo la morte di Mascagni, alcuni vi hanno letto l’anticipazione di nuove intuizioni musicali, altri una improvvisazione casuale e senza carattere.