Rubriche 2021

Rigoletto-Viscardello e la censura di Giuseppe Gioachino Belli

Dal putrido dramma di Victor Hugo, “Le roi s’amuse”, nel quale vengono in sozza gara di colpe il Re di Francia, Francesco I ed il di lui buffone Triboulet, non potea generarsi che una fetida contraffattura quale è questa sconcezza del Viscardello che ci fu già regalata e vuol regalarcisi ancora. Strana e lacrimevole epoca di corruzione è pure la nostra!

Magari qualcuno si stupirà, ma queste parole così dure sono state pronunciate da Giuseppe Gioachino Belli, la voce del popolo romano con i suoi sonetti acuti e disincantati. Belli non fu solamente un abile e salace poeta, ma anche il segretario dell’Accademia dell’Arcadia e censore artistico per conto dello Stato Pontificio, dunque spettò a lui il compito di esaminare il “Rigoletto” di Giuseppe Verdi nel 1851, quando la nuova opera del compositore bussetano approdò a Roma.

È una storia avvincente e che merita di essere approfondita. Ma procediamo con ordine. L’11 marzo di quello stesso 1851 i tre atti in questione erano stati rappresentati per la prima volta alla Fenice di Venezia e, nonostante i numerosi tagli imposti dalla censura austriaca, il successo fu enorme. Rigoletto era pronto per essere allestito in altre città, futura capitale in primis. Il libretto di Francesco Maria Piave, già profondamente modificato rispetto alla versione originaria (“La maledizione”), era destinato a subire nuove e ulteriore varianti, a partire dal titolo. Un completo stravolgimento che non piacque ovviamente a Verdi.

Rigoletto divenne “Viscardello” e anche altri personaggi subirono la stessa sorte: il Duca di Mantova fu tramutato in Duca di Nottingham, per non parlare di Marnullo, del Conte di Goring e di quello di Mornand. La scena, poi, venne mantenuta nel XVI secolo, ma dalla corte mantovana si passò agli Stati Uniti e a Boston. Perché tanti “travestimenti”? Belli censore è meno noto rispetto al Belli poeta. Se messo a confronto con i suoi colleghi revisori dell’epoca, comunque, non era più ridicolo ed esagerato dal punto di vista dei provvedimenti. Forse può essere considerato riflessivo in tale ruolo, ma possedeva tutte le debolezze di una “macchina” che in quel periodo funzionava a pieno regime e le cui osservazioni oggi ci fanno sorridere.

Con Rigoletto-Viscardello può anche essere successo che Belli, perfettamente a suo agio e a conoscenza dei pensieri del pubblico (abituato com’era a vivere e ad aggirarsi tra il popolo), abbia espresso un voto sfavorevole ripensando a qualche rimostranza udita tra i popolani. Resta però il fatto che una parola del libretto non lo convinceva affatto, “vendetta”. Non è un caso che le proposte di varianti siano state diverse, a conferma della volontà ferrea di togliere di mezzo un vocabolo che poi sarebbe finito nelle bocche dei popolani e magari avrebbe suggerito loro qualche idea malsana nei confronti dello Stato Pontificio. Soltanto in una occasione questa parola la passa liscia, per la precisione in uno dei momenti più importanti dell’opera, il finale del secondo atto.

Viscardello grida il famoso Sì vendetta, tremenda vendetta, di quest’anima è solo desìo, frase tra le più incisive del lavoro verdiano. Un altro punto di vista importante è quello del cardinale Vannicelli, secondo cui Rigoletto era fin troppo pieno di adulteri, rapimenti, omicidi e immoralità di ogni sorta. Il suo consiglio di proibire nella maniera più assoluta l’esecuzione in tutto lo Stato Pontificio non fu però ascoltato, se è vero come è vero che nel 1853 si tornò nuovamente a discutere del Viscardello. Forse era stato evitato a Roma, ma non in altre città, visto che il voto di Belli si concluse con una frase sibillina: Men cattivo consiglio pare il permettere di nuovo una cosa che forse non doveva prima permettersi.

Il poeta era un suddito fedele di papa Pio IX e temeva di vedere in scena regicidi e irriverenze contro re e sovrani: la censura dell’800 era tutto questo, non si poteva esprimere nessun tipo di satira contro il potere e contro la religione, c’era il pericolo si prendesse spunto da storie che invitavano ad approfittarsi di personaggi lesi nella loro dignità. Ma chissà cosa avrà suggerito la coscienza a Belli, proprio lui che nei suo sonetti se la prendeva contro Gregorio XVI e i suoi ministri: forse qualche rimorso dev’esserci stato, ma è anche vero che Viscardello può essere considerato il rimaneggiamento più fedele del libretto originale di Piave, in quanto l’unica scena soppressa è quella del rapimento di Gilda.