Nicola Manfroce, il rivale mancato di Rossini
Ventidue anni di vita sono davvero pochi per lasciare un segno, ma a qualcuno sono stati sufficienti per essere ricordato come “il rivale mancato di Gioachino Rossini“. Si sta parlando di Nicola Antonio Manfroce, compositore calabrese scomparso prematuramente nel 1813, tre mesi prima che nascesse Giuseppe Verdi per la precisione: le notizie biografiche che sono disponibili su di lui sono piuttosto scarse, però è possibile approfondire lo stesso la sua breve esistenza e quello che è riuscito a “donare” all’opera lirica. La passione per la musica fu influenzata senza dubbio dal padre Domenico, maestro di cappella, tanto è vero che dalla natia Palmi fu mandato a Napoli per gli studi classici in collegio.
Gli studi musicali lo affascinarono sin da subito e il suo genio fu evidente già a dodici anni, quando compose una interessante Messa senza avere ancora appreso le regole del contrappunto. Nel 1804 ebbe quindi la possibilità di studiare nel Conservatorio della Pietà dei Turchini a Napoli: qui seguì le lezioni di composizione di Giacomo Tritto (compositore che ebbe tra i suoi allievi anche Bellini, Meyerbeer, Spontini e Mercadante), mentre quelle di armonia gli furono impartite da Giovanni Furno. La permanenza partenopea fu caratterizzata da una produzione di tutto rispetto, vale a dire due Messe, una sinfonia e un Dixit a quattro voci e grande orchestra, sempre con grande consenso.
Il percorso di studi venne poi ultimato a Roma grazie a Nicola Antonio Zingarelli, maestro di cappella della Basilica Vaticana. Per il debutto non passò molto tempo, visto che nel 1809 compose la cantata “La nascita di Alcide” in onore di Napoleone e del suo compleanno da festeggiare a Napoli. La prima opera lirica, invece, è datata 10 ottobre 1810. Si tratta del melodramma “Alzira”, la cui prèmiere fu organizzata al Teatro Valle di Roma: il pubblico romano apprezzò subito questi due atti su libretto di Gaetano Rossi e Jacopo Ferretti, in particolare il gusto scelto per rappresentare le scene della prigione.
D’altronde, il cast era davvero importante e ben amalgamato, con i tenori Andrea Nozzari e Manuel Garcia, oltre al soprano Marietta Marchesini e soprattutto il contralto Adelaide Malanotte, futura interprete del “Tancredi” di Rossini e acclamata a lungo nel ruolo di Zamoro. La vita di Manfroce è praticamente giunta al termine, ma è densa di avvenimenti negli ultimi anni. Nel 1811 fu colpito più che positivamente da “La vestale” di Spontini, un’opera che lo impressionò e ispirò. La consacrazione era a portata di mano, tanto è vero che il 13 dicembre del 1812 la sua “Ecuba” furoreggiò al San Carlo di Napoli: per quale motivo questa tragedia in tre atti su libretto di Giovanni Schmidt è considerata il suo capolavoro?
L’impresario Domenico Barbaja ci aveva visto giusto, l’ispirazione spontiniana fu fondamentale per la vena tragica e il controllo formale di questo melodramma. Nonostante i problemi di salute, Manfroce lavorò con grande impegno e accanimento: il cast era lo stesso dell'”Alzira” e il pubblicò acclamò il compositore calabrese come uno dei maggiori talenti di quel periodo storico. Le novità musicali erano numerose, Manfroce intuì il progressivo declino dell’opera comica settecentesca e puntò con grande entusiasmo su un filone differente. Il musicista di Palmi venne considerato da Francesco Florimo come l’ispiratore del crescendo rossiniano, al punto da avere tutte le carte in regola per diventarne il rivale principale.
L’ouverture è subito intensa e coinvolgente: l’atmosfera fosca e l’ambientazione guerresca vengono resi con uno stile innovativo, in particolare viene messo da parte lo schema recitativo-aria così frequente all’epoca per dare spazio a pezzi solistici, interventi del coro e recitativi drammatici. L’invettiva finale di Ecuba è forse la parte più interessante dell’opera e l’epilogo in do minore con la sola orchestra protagonista fornirà lo spunto a Rossini per il suo “Mosè”. La morte, sopraggiunta l’anno successivo, impedì a Manfroce di ottenere altri successi: “Manfredi” verrà rappresentata postuma al Carcano di Milano nel 1816, senza dimenticare un lavoro incompleto, “Piramo e Tisbe”.
Per ricordare questa meteora dell’opera così sfortunata ci si può affidare alle parole dello stesso Florimo, per capire cosa abbia rappresentato e cosa avrebbe potuto rappresentare:
Tra i primi a studiare e a meditare accuratamente le opere dello Haydn e del Mozart che in quel tempo comparivano in Napoli sicché sarebbe stato più fortunato nel congiungere le soavi melodie della Scuola Italiana a quelle della Scuola Alemanna di quello che non furono il Mayr, il Paër, il Generali. Un anello di congiunzione fra Paisiello e Cimarosa per giungere a Rossini di cui deve essere ritenuto precursore.