Lo sconosciuto repertorio delle opere-parodia ottocentesche
Nell’opera lirica non c’è un vero e proprio genere “parodistico”, ma la lettura di alcuni libretti permette di stilare un elenco piuttosto interessante di composizioni giocose o comiche pensate come parodie di altri lavori: è una lista non semplice da compilare, anche perché non ci sono solamente i titoli che fanno capire immediatamente l’intento “canzonatorio” dell’opera, ma persino quei melodrammi in cui la parodia dipende da riferimenti minimi a un solo personaggio, una situazione o un’aria. Ovviamente non si può che guardare al repertorio buffo napoletano dell’intero XIX secolo. Esiste un arco temporale ben preciso a cui fare riferimento e va dal 1813 al 1875. Che cosa è successo esattamente in questi 62 anni?
Il 1813 è l’anno in cui nascono Giuseppe Verdi e Richard Wagner, ma anche quello in cui si rappresenta “La lavandara”: il titolo fa già intuire l’intento parodistico dell’opera e in effetti si tratta della parodia de “La Vestale” di Gaspare Spontini. Nel 1875, invece, viene rappresentato l’ultimo lavoro di questo tipo, vale a dire “Mamma Angot a Costantinopoli”, parodia de “La figlia di madame Angot” del francese Charles Lecoq. In mezzo ci sono tanti titoli buffi e curiosi che sottolineano bene lo sviluppo del repertorio.
Si va da “I corsari damigelle” (1846), melodramma storico-spettacoloso di Francesco Terracciano in risposta alla “Lucia di Lammermoor” donizettiana, a “La pirata” (1849), versione al femminile de “Il pirata” di Vincenzo Bellini. Inoltre, non bisogna dimenticare “I bravi” (sempre del 1849) che fanno il verso a “Il bravo” di Saverio Mercadante, e le numerose parodie delle opere verdiane, ovvero “Una prova del Trovatore” (1854), “Il traviato” (1855), “Un amore col Trovatore” (1859) e “Aida di Scafati” (1872). Gli autori di tutte queste composizioni avevano una vera e propria passione per i dialetti, i fenomeni musicali locali e le tradizioni culturali di una certa parte del paese.
I due esempi che meglio descrivono la produzione parodistica dell’800 sono senza dubbio “La lavandara” e “I corsari damigelle”. Nel primo caso, la musica fu ideata da Pietro Raimondi su libretto di Giovanni Schmidt. La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro del Fondo di Napoli nell’autunno del 1813: la storia è quella di Giulia (proprio come nella Vestale di Spontini), una lavandaia, per la precisione una ragazza costretta a svolgere questo lavoro per colpa di suo padre. Anche gli altri personaggi principali trovano una corrispondenza con quelli spontiniani, dato che l’anziano podestà innamorato di Giulia e la padrona della lavanderia Margherita non sono altro che la trasposizione giocosa e parodistica del gran sacerdote e della grande sacerdotessa.
Questa Lavandara si caratterizza soprattutto per l’assenza del dialetto napoletano e l’uso attento dell’italiano: questo vuol dire che la parodia si ottiene non tanto con il linguaggio ma con il contenuto del libretto. C’è parecchia fedeltà nei confronti del “modello” originale, tanto è vero che non sono pochi i versi che cominciano esattamente come quelli della Vestale per poi cambiare radicalmente. L’opera comunque è ben distante dalla tipica produzione giocosa e buffa del XIX secolo, se si fa eccezione per la presenza di strumenti particolari e popolari come le nacchere e i tamburelli.
Per “I corsari damigelle” vale un discorso diverso. Terracciano era spesso presente nei cartelloni dei teatri napoletani, anche se al giorno d’oggi se ne parla molto poco. Il libretto venne invece curato da Carlo Zanobi Cafferecci, altro artista attivo soprattutto nei palcoscenici minori (nonostante una collaborazione proficua con Vincenzo Fioravanti). In questo caso il testo è indipendente rispetto al libretto originale, quello della “Lucia di Lammermoor”: Cafferecci non fa mai riferimento a Donizetti e al teatro dell’epoca, con brani cantati e altri in prosa che fanno pensare immediatamente a un qualcosa di più simile alla commedia in dialetto.
Un’ultima precisazione riguarda il personaggio che compare maggiormente nelle parodie ottocentesche, Pulcinella. La celebre maschera napoletana si presta bene a queste reinterpretazioni giocose, sia che si parli di versioni romanzate che di altre tipologie melodrammatiche. Il suo carattere sciocco e stupido si inserisce perfettamente all’interno del repertorio in questione, persino quando si dà maggiore spazio alla lingua italiana piuttosto che al dialetto napoletano. Oggi non si rappresentano praticamente più opere del genere, oscurate dalle loro sorelle più celebri a cui intendevano fare il verso, ma anche una piccola riscoperta potrebbe consentire al pubblico moderno di apprezzare quello che i compositori erano in grado di produrre in un secolo fertile come l’800.