La Scala di fine ‘700 e il divieto di bissare le arie d’opera
Forse non esiste un’espressione più chiara e inequivocabile di un bis per capire il gradimento del pubblico d’opera. Si può dire che questa richiesta della ripetizione di un’aria o di un coro ci sia da quando esiste il melodramma, un punto fermo e imprescindibile, spesso non capito fino in fondo da alcuni cantanti dei giorni nostri. Il bis urlato a squarciagola tra gli applausi continuerà dunque a caratterizzare l’opera dei giorni nostri e di quelli futuri, ma c’è stato un periodo in cui è addirittura sparito. Per capire cosa è successo, bisogna fare un salto indietro nel tempo di oltre due secoli e rivivere l’atmosfera della Milano di fine ‘700.
Il 23 novembre del 1797 il Dicastero Centrale della Repubblica Cisalpina stabilì che non si potevano ripetere le arie d’opera nel Teatro alla Scala di Milano. Sembra quasi incredibile leggere un provvedimento del genere, ma i governanti di allora proibirono tassativamente il bis con un breve e conciso dispaccio. La Repubblica Cisalpina era nata appena cinque mesi prima come conseguenza della Rivoluzione Francese e comprendeva diversi territori, tra cui quelli del Ducato di Milano, il Ducato di Mantova, la Valtellina e il Bergamasco, dunque gran parte della Lombardia odierna.
Lo Stato governava tramite una forma direttoriale e i suoi interventi riguardavano ovviamente anche il teatro d’opera, così in voga in quel periodo storico. Il divieto fu sancito con questo proclama:
In nome della Repubblica Cisalpina, l’inscienza probabilmente per parte di molti, che una legge si opponesse alle repliche delle pezze musicali nel teatro diede luogo jeri sera a richiedere che si replicasse l’aria della prima cantante, e con questo principio vi ha la Polizia aderito. Ora si prevengono i cittadini sì nazionali, che esteri dell’esistenza della mentovata legge, persuaso il Dicasterio Centrale di Polizia che il risovvenirla, possa bastare per ottenerne la corrispondente esatta esecuzione.
Alla fine del testo si legge poi la data, cioè quella del 3 Frimaio del sesto anno repubblicano (la Repubblica Cisalpina aveva adottato il calendario rivoluzionario francese e questa data corrisponde proprio al 23 novembre 1797). Neanche un anno e mezzo dopo il Direttorio avrebbe stabilito che il palco reale della Scala sarebbe stato abolito. Furono due proibizioni pesanti per un teatro d’opera, ma concentriamoci solamente su quella delle arie. Nel proclama si fa riferimento alla serata precedente, quella del 22 novembre. Che cosa era successo di così scandaloso?
Per approfondire la questione si può esaminare il cartellone previsto dal teatro milanese per quel 1797. Si possono trovare composizioni e autori di cui non ci si ricorda quasi più, fatta eccezione per qualche raro caso. La stagione prevedeva “Aldemira” e “La congiura pisoniana” di Angelo Tarchi (Carnevale), “La moglie capricciosa” di Vincenzo Fabrizi, “I molinari” di Ferdinando Paër, “L’albergatrice vivace” di Luigi Caruso (Primavera), Axur re d’Ormus di Antonio Salieri (Estate), “La pietra simpatica” di Silvestro Di Palma, “Il principe di Taranto” di Ferdinando Paër (Autunno), “La bella pescatrice” di Pietro Guglielmi, “Il barbiere di Siviglia” di Giovanni Paisiello (Autunnino).
Fatta eccezione per Paisiello, Salieri e Paër, si sta parlando di musicisti e lavori di cui non c’è quasi più traccia se non negli almanacchi. La Repubblica Cisalpina formalizzò il divieto a fine novembre, quindi fu la reazione al comportamento del pubblico durante una delle rappresentazioni di autunnino, il periodo che andava proprio da novembre a dicembre. “La bella pescatrice” di Guglielmi risaliva a sette anni prima, mentre il “Barbiere” di Paisiello aveva già quindici anni e godeva di un successo che sarebbe durato fino al 1816, anno in cui Gioachino Rossini rappresentò per la prima volta lo stesso soggetto all’Argentina di Roma (i sostenitori di Paisiello sono stati ritenuti i “sabotatori” di quel debutto).
Non è difficile immaginare che la Polizia della Repubblica Cisalpina si sia lasciata infastidire dai bis richiesti dal pubblico proprio in occasione dell’opera di Paisiello, dato che le arie erano in voga e ben conosciute. Come è noto questo Stato non ebbe vita lunga. Già nel 1802 si trasformò in Repubblica Italiana con Milano scelta come capitale e Napoleone presidente. Appena tre anni dopo, poi, lo stesso Napoleone sancì la nascita del Regno d’Italia, incoronandosi Re, un’altra esperienza breve e destinata a durare appena nove anni (l’armistizio con l’Austria spezzettò nuovamente l’Italia in tanti stati e staterelli, tra cui il Lombardo-Veneto).