Due parole da spendere sull’Alzira di Verdi
Non saprei dare alcun giudizio di questa mia opera, perché l’ho fatta quasi senza accorgermene e senza fatica; per cui se anche cadesse me ne dorrebbe poco.
È il 30 luglio del 1845 e mancano appena due settimane al debutto dell’Alzira al Teatro San Carlo di Napoli, eppure l’atteggiamento del suo “creatore”, Giuseppe Verdi, è alquanto distaccato. Molto probabilmente, la sfortuna di quest’opera è nata proprio da questo momento, la scarsa considerazione del compositore bussetano nei confronti di un lavoro frettoloso, ma non privo di pregi. Tra l’altro, a distanza di anni questo atteggiamento di Verdi non cambierà e pare abbia pronunciato una frase sibillina nei confronti dell’Alzira: quella è proprio brutta. Ma si tratta davvero, come in molti pensano, della più brutta composizione verdiana in assoluto? Se ci si basa sui fatti storici e sui giudizi di pubblico e compositore, non si può che dire di sì. In realtà, un attento ascolto può rivelare elementi interessanti e nascosti, i quali meritano se non altro una riproposizione fra un anno in occasione del bicentenario della nascita di Verdi.
Le uniche “fortune” dell’Alzira sono quelle dei paesi sudamericani, visto che è qui che si ripropone, anche se non molto frequentemente, il titolo in questione. Il motivo è semplice da intuire: la trama dell’opera ci fa tornare indietro al ‘500 del Perù, quando nel paese dominavano gli Incas. Il classico intreccio tenore-soprano-baritono è presente anche in questo caso: Zamoro (tenore) è il capo di una tribù guerriera, si oppone all’occupazione spagnola ed è innamorato di Alzira (soprano). Il baritono è invece Gusmano, figlio dell’anziano governatore Alvaro. Quest’ultimo viene rapito e poi salvato da Zamoro e per questo motivo l’inca riesce a scampare alla prigionia. Viene però nuovamente catturato e condannato a morte da Gusmano; Alzira, anch’essa innamorata di Zamoro, si promette in sposa al figlio del governatore per ottenere la libertà dell’amato, ma egli riesce comunque a fuggire. Durante il matrimonio di Alzira e Gusmano, eccolo ricomparire per accoltellare il nemico, il quale morente, lo perdonerà per tutto il male che gli ha fatto.
Insomma, si tratta di una storia complessa, con il libretto di Salvatore Cammarano che non ha conservato nulla dell’esotismo del dramma da cui fu ispirato, Alzire ou les americaines di Voltaire. Verdi confessò immediatamente di apprezzare la storia e si fidò parecchio del talento di Cammarano per ricavarne un lavoro eccellente. Da lì, però, cominciò una serie di fatti che incisero profondamente sulla lavorazione e sul destino dell’Alzira. Anzitutto, Verdi fu colpito da una non meglio imprecisata indisposizione: nell’aprile del 1845 Vincenzo Flauto, impresario del San Carlo, fu informato dallo stesso compositore della malattia e dell’impossibilità di completare l’opera in tempi brevi. In realtà, il cigno di Busseto godette per tutta la vita di ottima salute, camperà fino a oltre 87 anni. In quelle situazioni di forte stress, come avvenuto anche successivamente con l’Attila, Verdi veniva colpito da febbre e altri acciacchi che lo bloccavano a letto: si trattava forse di una paura inconscia di non riuscire a ultimare il lavoro?
Lo stesso Flauto consigliò il clima frizzante di Napoli come rimedio per la guarigione, provocando però soltanto attriti. In più, ci fu il caso relativo a Eugenia Tadolini. È questo il nome del soprano scelto da Verdi per l’Alzira, ma in quel 1845 essa era indisponibile per una gravidanza tardiva. Il 12 agosto del 1845, comunque, l’opera fu finalmente pronta per la sua prima partenopea. La Tadolini era stata scritturata, così come Gaetano Fraschini nel ruolo di Zamoro e Filippo Coletti in quello di Gusmano. Capire come andò esattamente quella prima serata è un po’ complicato, c’è chi parla di entusiasmo e chi di critiche e burrasche. La critica non fu tenera e i napoletani stessi, in gran parte sostenitori di Paisiello, partirono con il piede sbagliato. Negli altri teatri italiani, Alzira non fece presa e cadde in un oblio incredibile.
Eppure, non è proprio un lavoro da buttare.
La sinfonia, ad esempio, impressionò la critica sin da subito, con il suo carattere ambivalente, sia guerriero che amoroso; anche i finali dei due atti sono da menzionare, in particolare il secondo, un crescendo di sentimenti e di drammaticità davvero riuscito, nonostante il pentimento in punto di morte di Gusmano sia un po’ forzato e inspiegabile. È forse la brevità la pecca di quest’opera: appena un prologo e due atti, forse Verdi, nel pieno dei suoi “anni di galera”, intendeva sbrigare la pratica in tempi rapidi e il poco spazio concesso ai pezzi chiusi sconcertò immediatamente il pubblico napoletano. Qualche riproposizione non guasterebbe, almeno per far conoscere a tutti un passaggio necessario della maturazione verdiana.