Interviste 2019
INTERVISTA A CLAUDIA PAVONE [Simone Ricci] Roma, 18 gennaio 2019.
OperaLibera ha rivolto alcune domande a Claudia Pavone, tra i più promettenti giovani soprani del panorama lirico italiano, in scena con la rassegna “Prime donne” al Palladium di Roma (il 21 gennaio) e tra le protagoniste de “La traviata” capitolina che vanta la regia di Sofia Coppola.
Ha già interpretato più volte il ruolo di Violetta, c’è qualche responsabilità in più nell’affrontare un’opera con la regia di Sofia Coppola e gli abiti di Valentino?
Ho affrontato questo ruolo tante volte, più di 60 repliche. La responsabilità di indossare gli abiti di Valentino si sente, anche perché sono meravigliosi ma impegnativi da indossare e da portare sul palcoscenico del Costanzi. La scenografia è abbastanza semplice, molto raffinata ed elegante, non ci sono grandi elementi e tutto è incentrato sul personaggio. Bisogna essere grandi interpreti per poter far uscire una Violetta di spessore. Abbiamo grandissime responsabilità, su questo non c’è dubbio. Questa Traviata la adoro, mi sento libera di poter interpretare quello che ho studiato precedentemente.
Ho avuto modo di ascoltarla nel “Rigoletto” dello scorso dicembre a Roma. Che ricordo ha di questa esperienza e della regia decisamente particolare?
Avevo interpretato un anno fa un Rigoletto più tradizionale, a dicembre ho avuto l’onore di lavorare con grandi nomi come quello del Maestro Gatti con cui mi sono trovata benissimo e con cui spero di collaborare nuovamente. A livello musicale Gatti ha dato vita a una lettura magnifica, forse la mia voce è un po’ troppo lirica per questo ruolo, però mi sono trovata a mio agio. Non giudico la regia, comunque il personaggio di Gilda non è stato troppo distante dalle intenzioni di Verdi. Forse l’ambientazione e la scenografia erano abbastanza forti, ma il carattere di Gilda coincideva con quello che voleva Victor Hugo per il suo “Il re si diverte”. Non ho trovato grandi difficoltà nell’interpretazione, si è vista una Gilda apparentemente ingenua e bisognosa d’affetto fino al suo dare la vita per amore.
Per la rassegna “Prime donne” del Palladium ha scelto brani di Strauss, Schubert e Bellini accomunati all’omaggio al mondo notturno. Come spiega questa scelta?
La notte e la luna mi hanno sempre affascinata, è un mondo che non si vede e un po’ misterioso. Di notte sogniamo tutti ed è un po’ quello che faccio io quando canto, mi sembra sempre di vivere un sogno. Ecco perché ho dedicato la mia serata a tutto questo, sperando che nessuno si addormenti (ride ndr). Sono brani molto dolci, è un programma forse d’élite ma spero che il pubblico possa apprezzarlo.
Il 2019 è appena cominciato. Che cosa si aspetta dal nuovo anno e quali progetti la riguarderanno nei prossimi mesi?
Ho un calendario pieno, sarò a Trieste per “L’elisir d’amore”, poi a Las Palmas per il debutto come Fiordiligi in “Così fan tutte”: in questo caso sarò diretta dal Maestro Giuseppe Sabatini che è anche il mio maestro. Sarò anche allo Sferisterio di Macerata, un impegno a cui tengo tantissimo, un altro Rigoletto dopo quello del Costanzi. Dopo le Marche tornerò al San Carlo per “La traviata”, prima del debutto in “Bohème” al Petruzzelli di Bari. Nel 2020, invece, avrò un impegno importante con “La traviata” all’Opera di Sydney. Quello che dico sempre è che non mi interessa la fama e arrivare al successo, il mio sogno è quello di poter vivere cantando, non considero questo un lavoro ma la mia passione.
FESTIVAL VERDI 2019 – INTERVISTA A FRANCESCO IZZO [William Fratti] 26 agosto 2019.
Il Festival Verdi non è soltanto spettacolo. Già da alcuni anni l’attività del Teatro Regio di Parma è saldamente legata all’attività scientifica volta alla ricerca del volere originario del compositore, al fine di ripulire il suo lavoro il più possibile, fortemente popolare e fin troppo saturo della tradizione del Novecento.
“Le edizioni critiche in programma quest’anno al Festival Verdi sono tre – ha spiegato il direttore scientifico Francesco Izzo – alcune disponibili già da tempo, altre più recenti. Quella di Nabucco, curata da Roger Parker e pubblicata nel 1987, fu tra le prime a uscire nella serie di cui ora sono direttore. E Luisa Miller, curata da Jeffrey Kallberg, fu pubblicata nel 1991. I due Foscari, invece, curata da Andreas Giger, è molto più recente ed è uscita a stampa nel 2017. Quest’ultima si serve innanzitutto, come d’abitudine e come è giusto, della partitura manoscritta autografa di Verdi, conservata ancora oggi nell’Archivio Storico Ricordi a Milano. In base a una lettura meticolosa di quella fonte sono stati corretti o introdotti numerosi segni di articolazione e fraseggio, e sono stati modificati dettagli relativi al testo poetico. Dobbiamo ricordare che prima dell’Unità d’Italia, le attività dei teatri per i quali Verdi componeva le sue opere erano rigorosamente controllate dalla censura dei vari stati italiani. Gli autografi di Verdi spesso riportano tracce degli interventi dei censori, con singole parole o talvolta anche passi piuttosto estesi che venivano cancellati e riscritti. Per nostra fortuna, le versioni originali sono spesso ancora leggibili, e possiamo quindi restituirle agli interpreti e al pubblico così come Verdi li aveva intesi. Un esempio affascinante è nel primo numero cantato dal Doge, la romanza nell’Atto I. Il recitativo, così come l’abbiamo spesso ascoltato, si concludeva con le parole “Padre e prence qui sono sventurato”, ma il testo originale, che si legge nell’edizione critica e che quindi ascolteremo a Parma, è molto più drammatico e dispregiativo nei confronti dell’autorità politica: “Uno schiavo qui sono incoronato”. Altrove, la parola “maledetto” era risultata sgradita ai censori dello Stato Pontificio e pertanto alterata in “scellerato” o in altre maniere; per esempio nel secondo atto Jacopo ora canterà, come intese Verdi, “Maledetto chi mi toglie”, non “Pera l’empio che mi toglie”. “Sul suo campo piombi Iddio”, espressione fortemente drammatica, era stato cambiato in “Sien vendetta al dolor mio” e noi abbiamo restaurato la versione incensurata. E così via. Anche se l’edizione critica de I due Foscari fu già eseguita alcuni anni fa, proprio a Parma in occasione del Festival 2009, si trattava allora di una versione preliminare. Lo studio attento di un manoscritto conservato nella biblioteca del Conservatorio di Napoli ha permesso di individuare annotazioni di mano di Verdi, che ci hanno portato a modificare alcuni dettagli nell’edizione critica che ora consideriamo definitiva. Dunque, non sorprendiamoci se noteremo qualche piccola differenza rispetto a quanto abbiamo ascoltato in precedenza! Infine dobbiamo ricordare che qualunque edizione critica, preparata scrupolosamente e con uno studio attentissimo di tutte le fonti disponibili, informa l’interprete di varie possibilità e alternative disponibili, fornendo note a piè di pagina e un dettagliato commento critico che permettono di scegliere tra lezioni diverse. Ricordiamo che, soprattutto nella prima parte della sua carriera, Verdi lavorava a stretto contatto con i suoi interpreti, e talvolta componeva versioni modificate o addirittura del tutto nuove di alcuni passaggi delle sue opere. Ne I due Foscari per esempio, in occasione della prima parigina al Théâtre Italian dove il ruolo di Jacopo fu interpretato dal celeberrimo tenore Mario (Giovanni Matteo De Candia, ndr), grande belcantista dotato di estrema facilità in acuto, Verdi scrisse una nuova cabaletta per questo artista, “Sì, lo sento, iddìo mi chiama”. Questa cabaletta, già ascoltata talvolta nelle incisioni di grandi tenori del nostro tempo, è inclusa nell’edizione critica e gli esecutori possono decidere di utilizzarla al posto di quella che si ascolta comunemente, “Odio solo, ed odio atroce”. Questo non avverrà a Parma quest’anno, ma è una possibilità. Analogamente l’edizione critica di Nabucco fornisce una versione puntata, ovvero con la tessitura spostata verso l’alto, della preghiera di Fenena, preparata appositamente da Verdi per una certa Amalia Zecchini, che cantò la parte in una ripresa dell’opera alla Scala nell’autunno del 1842. Se disponiamo di una voce che si trovi a suo agio con questa versione, non dobbiamo esitare a utilizzarla. Dalle mie poche osservazioni a proposito de I due Foscari, è già chiaro che un’edizione critica, quando si tratta di un’opera di Verdi, nella maggior parte dei casi non stravolge il testo che già conosciamo, ma lo ripulisce, diciamo così, e lo rende più accurato e più vivido, così come avviene quando si restaura un dipinto o una scultura. Si rimuovono le tracce del tempo, le correzioni o aggiunte fatte affrettatamente, arbitrariamente, o per ragioni di decoro, per esempio nascondendo dettagli anatomici che erano ritenuti offensivi. Nell’Ottocento, oltre agli interventi dei censori, c’erano copisti e impiegati delle case editrici che lavoravano spesso con scadenze molto ravvicinate. Il lavoro del curatore è proprio come quello del restauratore; tutto va fatto con estrema cautela, e controllando meticolosamente ogni fonte, ogni dettaglio; ed è per questo che impieghiamo più tempo a preparare un’edizione critica di quanto non ce ne mettesse Verdi per comporre una nuova opera!”.
Molto di frequente si accendono intensi dibattiti in merito alla vocalità del primo Verdi. Nelle opere che saranno eseguite al Festival 2019 – Nabucco, I due Foscari e Luisa Miller – quanto c’è di belcanto, quanto c’è dei predecessori come Donizetti, Bellini e Rossini, quanto invece c’è già del Verdi maturo?
“Ottima domanda. Spesso consideriamo Verdi radicalmente diverso dai suoi predecessori del primo Ottocento. Ma non dobbiamo dimenticare che la nostra percezione di Verdi, e soprattutto della sua vocalità, si è formata non tanto durante la vita del compositore, ma principalmente nel ventesimo secolo, prendendo in considerazione con rare eccezioni le opere da Rigoletto in poi. Si pensi a quanto fece il Metropolitan di New York per il bicentenario del 2013: sette opere verdiane in cartellone e nessuna di esse anteriore a Rigoletto! Restano fuori da questo quadro più della metà delle opere di Verdi. Quelle che spesso, sbagliando grossolanamente, vengono chiamate le opere degli “anni di galera”. Facciamo attenzione, per carità; se vogliamo proprio usare questa espressione, ricordiamoci almeno che essa fu coniata dallo stesso Verdi e che comprende, come egli scrisse, “sedici anni di galera”, ovvero da Nabucco alla gestazione di Un ballo in maschera. In realtà, se studiamo attentamente quelle sedici opere che precedono Rigoletto, ma anche le opere della cosiddetta trilogia popolare, troviamo tanti elementi di continuità con le convenzioni del primo Ottocento, per esempio nell’impiego frequente di procedure formali e convenzioni drammaturgiche già definite all’epoca di Rossini. E troviamo una vocalità che è certamente belcantistica: Verdi richiede alle sue voci non tanto veemenza, ma agilità, controllo, e duttilità. Nelle opere di Verdi c’è canto di agilità, ci sono trilli e volate, ci sono indicazioni di cantare piano o anche pianissimo, con due o tre o più “p”! E, come abbiamo detto a proposito di Nabucco e de I due Foscari, egli scrive sempre per e con cantanti specifici, lavorando fianco a fianco con loro, sfruttandone e mettendone in risalto le doti. Questo avviene non solo nei casi che ho descritto della preghiera di Fenena e della cabaletta di Jacopo Foscari, ma in molte altre circostanze, da I lombardi alla prima crociata ed Ernani alla musica per Foresto in Attila, mostrandoci che, se cambiano gli interpreti o le circostanze, può cambiare anche la musica. In poche parole, nel rapporto tra Verdi e i cantanti si vede la continuità con un sistema creativo e produttivo già consolidato, che poi si rinnova anche grazie a Verdi, ma gradualmente e senza strappi o tagli netti”.
Negli ultimi venti anni è diventato sempre più difficile ascoltare cantanti adeguati al repertorio verdiano, mentre si è alzato tantissimo il livello degli interpreti di Rossini e del barocco, dove l’attività scientifica ha fatto passi da gigante. Come e quanto può influire il lavoro di revisione ed edizione critica sull’interpretazione?
“Credo che il lavoro scientifico, anche alla luce di quanto ho detto prima sulla vocalità, sia importante perché ci permette di liberarci di certi stereotipi, o per lo meno di metterli in discussione. Il canto verdiano non è una categoria astratta, né tantomeno qualcosa di totalmente distaccato dal repertorio belcantistico. Dobbiamo comprendere che, anche se possiamo giustamente venerare la memoria di tanti grandi interpreti verdiani del Novecento, e persino provare una certa nostalgia per certe interpretazioni leggendarie che abbiamo potuto ascoltare dal vivo o apprezzare in registrazione, tante cose venivano fatte arbitrariamente; si tagliavano lunghi passaggi di musica (per esempio le ripetizioni delle cabalette, che invece sono importantissime, o le seconde strofe delle arie di Violetta ne La traviata), si utilizzavano cadenze banali, si resisteva all’idea di introdurre abbellimenti e variazioni. Queste sono tutte cose che ora stiamo rivalutando e rettificando. Personalmente non credo che ci sia una carenza di interpreti verdiani, ma credo che il canto verdiano di oggi stia cambiando, e questa non è una cosa di cui rammaricarsi. Anzi, abbiamo tanti cantanti già affermati che si sono avvicinati a Verdi con grande apertura mentale e originalità (ne nomino una: Lisette Oropesa, che ha fatto un lavoro splendido alla Scala ne I masnadieri e che nel prossimo anno sarà Violetta in varie produzioni importanti), e abbiamo giovani interpreti che negli anni a venire, con le guide giuste, con le edizioni critiche a portata di mano, lavorando con direttori e colleghi bene informati e con il sostegno di un pubblico dalla mente aperta, potranno non solo eccellere come voci verdiane, ma dare un apporto creativo e farci vivere Verdi in maniera sempre nuova. Questo per me è il significato più importante e più alto dell’espressione “viva Verdi!”: non parliamo di monumenti, di immobilità e di stereotipi che si perpetuano, ma piuttosto, soprattutto, di creatività, immaginazione, studio, scoperta e riscoperta, insomma, di un’arte che sia davvero “viva”.
Ci sono in serbo delle novità per il 2020?
“Sì, nel 2020 avremo una grossa novità: eseguiremo per la prima volta una nuova edizione critica di un’opera importante del primo Verdi, un titolo che mi sta molto a cuore. Potremo darvi notizie più specifiche in autunno!”.
INTERVISTA A BEATRICE MEZZANOTTE [Simone Ricci] Ancona, 18 settembre 2019.
Il Teatro delle Muse di Ancona sta per preparare due nuovi allestimenti che arricchiranno la stagione lirica 2019. Uno di questi è “La Traviata” di Giuseppe Verdi, con il direttore Andrea Sanguineti sul podio, la regia di Stefania Panighini, le scene di Andrea De Micheli e i costumi di Veronica Pattuelli. L’appuntamento è un nuovo allestimento della Fondazione Teatro delle Muse in coproduzione con la Daegu Opera House della Corea del Sud e IMG Artists, la prima collaborazione in assoluto tra il teatro anconetano e un teatro dell’estremo oriente. OperaLibera ha intervistato una delle cantanti scelte per questa Traviata, il mezzosoprano marchigiano Beatrice Mezzanotte, cercando di saperne di più a pochi giorni dal debutto. Ecco le domande che le abbiamo posto:
Come stanno andando le prove? Questa prima collaborazione con un teatro dell’estremo oriente vi fa sentire il peso di una certa responsabilità?
Abbiamo lavorato molto bene e il clima è stato dei migliori. Il Teatro di Ancona ha una tradizione lirica pluriennale e ho trovato un ambiente iperprofessionale che ha reso tutto più semplice. A livello di messa in scena devo dire che si tratta di una Traviata non convenzionale, non abbiamo sentito tanto la responsabilità proprio per la leggerezza del clima lavorativo, più che altro c’è la responsabilità di fare qualcosa di nuovo e non visto.
Questa leggerezza è forse merito della regista Stefania Panighini, giovane e spesso descritta in maniera positiva da tutti i cantanti per il suo approccio?
Abbiamo lavorato benissimo con lei, forse una delle esperienze migliori. Stefania Panighini è estremamente esigente, oltre che preparata. Posso dire che è una delle registe più consapevoli e con le idee chiare con cui abbia collaborato finora. Non so quale sarà la risonanza tra il pubblico però di sicuro dietro alle sue scelte c’è uno studio incredibile, senza dimenticare il suo atteggiamento leggero e rispettoso. Quest’ultimo aggettivo sembra scontato ma non lo è, soprattutto quando si parla degli ultimi giorni di prove in cui solitamente ci si può aspettare di tutto.
Il tuo personaggio, Flora Bervoix, viene descritta ogni volta come una donna esuberante, frizzante e spigliata. Come ti stai preparando e che Flora vedremo ad Ancona?
Mi sono trovata un po’ spiazzata. La mia unica esperienza con Flora è stata in Oman, dove questo personaggio era la classica maîtresse, la prostituta più famosa di Parigi in termini di anzianità, amica di Violetta e prodiga di consigli per via dell’età. Questa regia è completamente diversa, ecco perché ci si potrebbe chiedere il motivo di un mezzosoprano di coloratura per un ruolo che non lo è affatto. Stavolta si è pensato di renderla più giovane, un personaggio quasi invidioso di Violetta, quello che lei vorrebbe essere e che non è. Il “Solo?” di Flora quando Alfredo parla di ritornare in campagna con i soldi vinti al gioco viene normalmente trascurato, al contrario Stefania Panighini l’ha inteso come un interrogativo per “pungere” Violetta, al limite dell’umiliazione. In poche parole è una Flora che non avevo in mente, non avrei mai pensato di farla in questo modo ed è sicuramente più facile. Un personaggio più “pesante” mi avrebbe messo maggiormente alla prova. Confesso di avere un po’ paura per il ritorno, non so che riscontro ci sarà a livello di pubblico e critica, però quello è il nostro lavoro.
Com’è il tuo rapporto con Giuseppe Verdi? Ti ho ascoltata a Roma in “Suora Angelica” di Puccini: preferisci altri compositori per la tua vocalità?
Il mio rapporto con Verdi è inesistente. Ho studiato in precedenza il ruolo di Fenena, ma la vedo ancora come una sfida ambiziosa, mi sento un mezzosoprano di stampo rossiniano e mozartiano. La mia vocalità può essere considerata lontana dalle opere verdiane. Quando mi hanno proposto questa Traviata ho accettato volentieri perché adoro le sfide. Mi preoccupo di quello che la gente scriverà, ma dall’altra parte la mia testa mi dice di provare lo stesso. Il mio amore per l’opera è nato proprio con Verdi, ho conosciuto poca gente a cui non piaccia questo compositore, fa parte del nostro Dna, è fondamentale per la nostra cultura musicale. La Traviata, poi, è un caposaldo. Ce ne siamo resi conti alle prove: il titolo è sempre presente nei cartelloni, ma ogni volta lo rendiamo vivo, è un privilegio riproporlo nella sua immortalità.
Puoi parlarci dei tuoi progetti futuri?
Preferirei glissare su questa domanda. Ci sono dei progetti in corso, ma nessuna certezza, quindi ne riparleremo probabilmente in futuro.
INTERVISTA A JÉRÉMIE RHORER [Simone Ricci] Roma, 7 ottobre 2019.
Al Teatro dell’Opera di Roma è appena terminata la rappresentazione del “Don Giovanni” di Mozart. La regia di Graham Vick ha diviso il pubblico, mentre la musica è stata apprezzata dagli spettatori del Costanzi. OperaLibera ha quindi deciso di intervistare il direttore d’orchestra di questo allestimento, Jérémie Rhorer. Ecco l’intervista che ci ha concesso tra una prova e l’altra del capolavoro mozartiano.
Nella recensione dedicata da OperaLibera al Don Giovanni in scena a Roma, ho parlato molto bene del versante vocale e musicale. In particolare ho apprezzato l’ouverture, definita “baldanzosa”, nel senso di “energica” e “piena di verve”. Cosa ne pensa?
L’ouverture è intervenuta nella composizione alla fine e riassume bene il mito di Don Giovanni. Vorrei partire proprio da questo aspetto. La visione di Mozart a proposito del mito è estremamente forte e personale. Il compositore si approccia con forza a determinare gli aspetti del libretto, la drammaturgia, la psicologia. Le versioni di Mozart furono diverse, ma ne scelse soltanto una, il classico gesto di un drammaturgo consumato. Il senso drammaturgico, ma anche quello morale e musicale devono sempre emergere nell’ouverture del Don Giovanni. Secondo il mio punto di vista questo pezzo è la quintessenza della storia e si intuiscono tutti i momenti salienti. In “Don Giovanni” c’è l’idea del movimento ma anche della fuga. La scena finale, poi, è straordinaria: tutte le distanze sono state distrutte in modo da far capire che bisogna credere ancora di più nell’amore.
Il finale immaginato dal regista Graham Vick qui al Costanzi ha fatto e sta facendo discutere. Le scelte sono state provocatorie e discutibili. Come ha trovato questa regia? E’ stato difficile dirigere un’opera con delle scene tanto particolari?
Spesso le regie vanno oltre le partiture. Voglio ribadire ancora una volta che è Mozart il principale autore della drammaturgia, in quanto ha una visione personale, forte e chiara, anche dal punto di vista filosofico e simbolico. Non ho nulla di personale contro Vick, ma la sua visione è all’opposto di quello che intendo e in cui credo. La scena finale qui a Roma è una tortura che si ripete ogni sera. Si tratta di un controsenso rispetto al messaggio che voleva lanciare Mozart.
Un pubblico meno esperto può travisare la trama. Abbiamo visto tante allusioni al sesso che potrebbe essere la chiave scelta dal regista per conquistare più giovani. Si è andati un po’ oltre?
Il sesso in Don Giovanni è soltanto suggerito, sussurrato, mai mostrato ed è il tipico approccio culturale che va dal ‘700 fino alla prima guerra mondiale: se ne parla, ma non lo si fa vedere. I sottintesi sono fondamentali, ogni spettatore ha la possibilità di immaginare. Questo avviene anche ne “Le nozze di Figaro” e in “Così fan tutte”. Tutti possono comprendere il senso dell’allusione ma non c’è bisogno di aggiungere altro. Mi sembra strano che si pensi che i giovani non siano in grado di cogliere questi aspetti sottili. Su Don Giovanni ci sono stati persino degli studi psicoanalitici. Don Giovanni non è come Casanova che consuma e descrive in ogni dettaglio come lo fa. Don Giovanni parla di seduzione, di frenesia della seduzione.
Molta gente è disposta ad accettare determinate regie pensando che si possano sempre chiudere gli occhi e cercare di ascoltare semplicemente la musica.
L’aspetto visuale è troppo importante per l’opera, anche se le ultime generazioni hanno perso il contatto che c’era in precedenza con l’udito. Al momento non si può proprio rinunciare alla visione dello spettacolo.
A proposito di Mozart, a breve sarà impegnato a Parigi con “Le nozze di Figaro”. A che punto è la ricerca che lei sta conducendo sugli aspetti peculiari dei personaggi mozartiani, in particolare la loro ambiguità?
(La risposta a questa domanda è avvenuta in italiano nda) Ho notato che Mozart vuole veramente caratterizzare la psicologia dei suoi personaggi. C’è sempre un’indicazione per capire il sentimento del compositore nei confronti dei protagonisti delle storie. C’è un’empatia incredibile con i personaggi femminili e ancora non riesco a capire il perchè. Quando vuole elevare un personaggio sa perfettamente come farlo: un caso emblematico è quello di Donna Elvira, intesa da Mozart come un simbolo d’amore, l’amore puro oserei aggiungere. Per inquadrare meglio questa immagine sfrutta degli aspetti musicali chiari e precisi: si fa riferimento alla nobiltà utilizzando i ritmi francesi, in modo da far capire che c’è una nobiltà in senso stretto ma anche d’animo. Per me l’ambiguità è quella che emerge dalla visione limitata di alcune persone. Donna Elvira viene spesso considerata un’isterica che non sa controllarsi, ma non è vero. Mozart vuole che tutti possano credere nella verità dei sentimenti.
Lei è un virtuoso del clavicembalo. C’è un futuro per questo strumento o anche la possibilità che le nuove generazioni si avvicinino con interesse?
Il clavicembalo è uno strumento musicale imprescindibile, l’orchestra può sfruttarlo come meglio crede. Il suo suono così penetrante aggiunge colori unici alle partiture. La singolarità del clavicembalo ha fatto la fortuna di tanti compositori. Mozart è passato a suonare il pianoforte che per me è qualcosa di totalmente diverso, ma torno a ripetere che il clavicembalo è uno strumento straordinario di cui non si può fare a meno.
C’è qualche compositore o musica che lei sogna di dirigere in futuro?
Ho un’inclinazione particolare e naturale per la musica italiana, soprattutto Giacomo Puccini. Non smetto di fare questo sogno musicale e non è un caso la mia passione per opere come “Tosca” e “La fanciulla del West”. Sono dei titoli difficili e in più in Francia Puccini viene sottovalutato e considerato decadente o poco interessante, un punto di vista che non condivido affatto.
INTERVISTA A MARTA CALCATERRA [Marco Faverzani e Giorgio Panigati] Novara, 8 ottobre 2019.
Incontriamo il soprano Marta Calcaterra, impegnata in questi giorni con le prove di Ernani, che apre la stagione lirica del teatro Coccia di Novara. Artista versatile, si muove fra opera ed operetta e vanta presenze nei più importanti teatri italiani.
Lei ha appena partecipato a Gianni Schicchi (produzione di OperaLombardia), dal sorriso di un ruolo buffo alla tragedia di Ernani, cosa sente più calzante alla sua personalità?
Il Gianni Schicci, (rappresentato in questo allestimento insieme alle Heure Espagnole di Maurice Ravel) è prodotto dal circuito OperaLombardia, abbiamo debuttato a Brescia a settembre e lo abbiamo portato in scena pochi giorni fa a Pavia, il Direttore è Sergio Alapont, la regia di Carmelo Rifici. Nello Schicci interpreto Nella, l’ambientazione è spostata agli anni cinquanta del novecento, ma comunque mantiene inalterati i rapporti gerarchici fra i personaggi. La particolarità di questo allestimento è che alcune scene sono riprese come se si trattassedi un film e proiettate su schermo nel palco. Il mio ruolo nello Schicchi è incredibile, sono in scena per un’ora intera, accadono cose in continuo: si alternano burle e beffe fino al dolore per l’eredità perduta. Sono in scena diverse coppie, io ad esempio sono sposata con Gherardo: piccole famiglie che si scannano letteralmente all’interno di un clima di totale ipocrisia, insomma è divertentissimo! Non rispettando i rigidi canoni sociali del medioevo, come previsto nel libretto originale, i personaggi possono avere una libertà d’azione ed un approfondimento psicologico notevole, io posso permettermi di sgridare continuamente il mio marito di scena come se fossi una signorina di Franca Valeri. Ci sono gag molto divertenti come quando ci ritroviamo ad ubriacarci al bancone del bar in casa di Buoso Donati. E’ quasi uno shock quindi passare da un’opera dove si è in continuo movimento con vere e proprie corse sul palco e molta fatica fisica all’Ernani dove tutto è invece statico. Questa è la grande e classica opera verdiana, dalla notevole compostezza e classicità. L’allestimento che vedrete è splendido, tradizionale e maestoso con la regia di Pier Francesco Maestrini e la direzione di Matteo Beltrami. Qui interpreto Giovanna; la trama è caratterizzata da intrighi e segreti, la nutrice è un po’ la segretaria filtro da cui tutti devono passare per parlare con la protagonista, cosi come fa anche Don Carlo. Ovviamente la nutrice preferirebbe vedere sposata Elvira con un re piuttosto che con quello che sembra inizialmente uno scapestrato. Nell’Ernani è necessario usare un tipo di recitazione molto compassata e il carattere psicologico dei personaggi è chiuso: solo pochi sguardi e gesti, l’ambientazione nel 1500 spagnolo comporta poi un maggiore senso di oscurità, erano questi gli anni della terribile Inquisizione. Interpreterò ancora il ruolo di una nutrice verdiana a breve, a novembre, in Trovatore che inaugura la stagione del Carlo Felice di Genova. In definitiva rispetto al mio carattere mi sento più vicina allo Schicchi e alla sua atmosfera divertente e scherzosa.
Continuiamo a parlare di Verdi: durante il Festival Verdi che ha luogo a Parma in questi giorni, si è assistito ad una produzione di Nabucco accolta da forti contestazioni soprattutto per la regia: quale è il suo rapporto con la parte scenica dello spettacolo? Come vede l’eterna diatriba tra allestimenti tradizionali e allestimenti atemporali e talvolta spiazzanti?
Ho seguito la vicenda Nabucco, che ha avuto grande eco sui social, ma non l’ho potuto vedere per i miei impegni lavorativi, non posso quindi esprimere una opinione in particolare su questo allestimento. Però in generale per le regie moderne posso dire che mi è capitato spesso di partecipare ad allestimenti che scelgono ambientazioni contemporanee anche se il libretto non lo prevede: mi è capitato con questo Schicchi, con Elisir d’Amore più volte, con Traviata. Il problema non è lo spostare l’opera a livello temporale, il pubblico oggi non si scandalizza più se si dice spada e si usa una pistola. L’essenziale è rispettare le gerarchie, la psicologia e i rapporti fra i personaggi, solo allora l’allestimento funziona e, anche se l’ambientazione è contemporanea è piacevole vedere qualcosa di diverso. Ugualmente belli sono gli allestimenti classici, come questo ora a Novara, con la sua corretta ambientazione e con i bellissimi costumi in stile. Insomma, in ogni caso, ci vuole sempre la testa, il buon gusto ed una grande cultura, se ci sono questi elementi sono sicura che il pubblico non fischierà. Poi aggiungo una notazione pratica: i costumi moderni sono molto più leggeri, comodi e agevoli rispetto a quelli tradizionali, per noi cantanti non è cosa da poco!
Quale è la domanda che vorrebbe le venisse fatta in una intervista e nessuno le ha mai fatto?
La domanda che vorrei farmi è sicuramente questa: in quale ruolo vorrei debuttare? Anzi ne approfitto per propormi come Musetta di Boheme, io sono allegra e gioiosa, amo la Valencienne della Vedova Allegra e tutti i ruoli di carattere! Mi piacerebbe anche interpretare Zerlina, del Don Giovanni e Micaela di Carmen che è forse tradizionalmente meno caratterizzata ma sono sicura che riuscirei a conferirle una certo pepe! Mi piacerebbe debuttare anche ruoli del repertorio barocco, che adoro, penso ad Händel in particolare, sarebbe splendido portare sul palco Alcina e la Cleopatra del Giulio Cesare.
Chi è per lei Giuseppe Verdi ?
Giuseppe Verdi è un monumento italiano da tutelare, insieme a Puccini, dovrebbero veramente trovarsi nelle liste Unesco. Così come altri autori italiani ma in particolare questi due grandi musicisti portano la nostra lingua in tutto il mondo. anche se non mi sento di dire che siano realmente valorizzati oggi, non lo è neppure il Colosseo, la cultura in toto in Italia non è tutelata a sufficienza.
Tra i suoi personaggi spicca sicuramente Valencienne de La Vedova Allegra. Parliamo del Rapporto opera – operetta. Crede ci sia, soprattutto in Italia, una subordinazione di stampo culturale?
Assolutamente sì! Io ho iniziato con l’operetta e ne ho fatta tanta. Amo questi ruoli così pieni di vita e sono felice di dirvi che a settembre 2020 sarò nuovamente Valencienne, nella Vedova Allegra al teatro San Carlo di Napoli, con uno spettacolo firmato dal regista Damiano Michieletto. Ma quando parliamo di operetta bisogna distinguere quella italiana da quella mitteleuropea, tedesca in generale (parlo di autori come Lehar, Strauss) che scrivono in modo molto simile all’opera lirica e quindi in questo caso ci vogliono cast di grandi tenori e soprani. Questi spartiti non presentano in sostanza nessuna differenza a livello di tessitura, vocalità e difficoltà rispetto all’opera lirica. Diverso è il caso dell’operetta italiana (ad esempio Virgilio Ranzato con Cin Ci La o Il paese dei campanelli) che prevedono la figura del comico e della soubrette, per questi due personaggi la scrittura musicale è molto bassa e quindi può essere affidata anche ad attori di prosa, magari particolarmente dotati a livello vocale, o a persone che vengono dal musical. In Italia solitamente si vedono rappresentati titoli come La vedova Allegra di Lehar, Il pipistrello di Strauss,al massimo Kálmán con scritture e tessiture che sono decisamente di opere lirica, ma il fatto che siano scritte in tedesco rende più difficile la loro diffusione da noi ed è un vero peccato, perdiamo titoli meravigliosi e poco noti in Italia come la Giuditta ed Il paese del sorriso di Lehar. Lancio un appello ai teatri d’Italia: vi prego non facciamo sempre le solite operette, rilanciamo quelle meno conosciute e soprattutto eseguiamole con la corretta intenzione: spumeggianti, piene di vita e anche di classe!
Nelle ultime stagioni sei una presenza fissa qui al Coccia. Parliamo del rapporto tra il teatro è la città’. come viene vissuto? Cosa si può fare per avvicinare nuovo pubblico e/o creare maggiore affezione verso il teatro?
Per me è sempre un grande piacere ritornare a cantare al Coccia, accetto con piacere gli inviti del teatro. Ho debuttato qui nel 1999, come Apparizione nel Macbeth (accanto ad un cast meraviglioso). Io cantavo già da bambina nel nostro teatro, nel coro delle voci bianche, ricordo le opere nel cortile della canonica, in estate, negli anni in cui il teatro era chiuso per restauri. Questa volontà di non interrompere la programmazione del teatro ha permesso di mantenere attive le sovvenzioni statali (che sono invece state tolte ai teatri di Alessandria, Asti e Cuneo ad esempio). Se oggi abbiamo la Fondazione Coccia è anche grazie a questo lungimirante impegno, ricordo ai lettori che in Piemonte è rimasto solo come teatro d’opera il Coccia ed il Regio di Torino. Per quanto riguarda il rapporto fra il teatro e la città devo dire che ci sono molte lodevoli iniziative, ad esempio i titoli d’opera riadattati per le famiglie e quelli per le scuole con rappresentazioni mattutine che servono a creare un nuovo pubblico di appassionati. Inoltre ci sono eventi quali aperitivi in tatro, e presentazioni con esperti musicologi che spiegano trama e drammaturgia delle opere. Il novarese medio è forse un po’ pigro, e se a volte gli manca la voglia di uscire di casa credo che con minimo sforzo al Coccia possa trovare molti motivi di interesse: titoli più rari e particolari come questo Ernani ed altri titoli più tradizionali e conosciuti, come la prossima Tosca.
Penso che il rapporto del pubblico con il Coccia sia positivo, credo ci sia un grande affetto che lo lega alla città , è un teatro aperto a tutti che propone la prosa, i concerti, i saggi di danza. Questo rapporto d’amore è una buona base per fare diventare sempre più l’opera patrimonio dell’Italia , e anche, lo ripeto, patrimonio Unesco: così come, giustamente, salvaguardiamo la pietà di Michelangelo e restauriamo la cappella Sistina così bisogna fare anche con la nostra amata lirica, che porta la nostra bella lingua e musica in tutto il mondo.
INTERVISTA A MARIELLA DEVIA [Marco Faverzani e Giorgio Panigati] Parma, 10 ottobre 2019.
Non è facile intervistare un mito della lirica, il soprano Mariella Devia, abbiamo il piacere di rivolgerle alcune domande in occasione del suo concerto “Verdi Romantico” nella cornice del Festival Verdi 2019, sicuri di fare cosa graditissima al suo vasto pubblico.
Sig.ra Devia, dividiamo idealmente la sua carriera in tre parti: la prima dal debutto del 1973 a Treviso a quello scaligero del 1987, la seconda gli anni della grande fama internazionale e la terza a ridosso del nuovo millennio. Qual è per ogni periodo il ruolo più significativo da lei affrontato e l’aggettivo che sente più adatto a descrivere quel momento artistico?
Non ho mai pensato di suddividere la mia ‘carriera’. E’ stato un percorso progressivo dettato dalle scelte di repertorio che sentivo maggiormente adatte alla mia vocalità. Alcuni ruoli – come Lucia, Gilda, Konstanze – mi hanno accompagnato per anni e per fortuna il repertorio che mi si addice coincide con i miei gusti musicali, quindi non mi sentirei di parlare di ruoli maggiormente significativi.
Il suo primo incontro con il Festival Verdi sarebbe dovuto essere nel 2003, nei primi anni della manifestazione, quando un infortunio le impedì di cantare I Lombardi alla prima crociata. Con il tempo, dentro di se, ha conservato una punta di rimpianto per quel mancato incontro? Esistono, oltre quelli da lei interpretati, altri personaggi verdiani a cui avrebbe gradito avvicinarsi?
Certamente avrei avuto piacere di farlo, ma con un braccio appeso al collo sarebbe stato impossibile. Avendolo già preparato e non avendo più avuto occasione di poterlo interpretare in recita, ho mantenuto vivo quel ricordo continuando a cantare le arie di Giselda in concerto.
Il Festival Verdi negli ultimi anni ha avuto la particolarità di usare come palco location evocative ma insolite: quest’anno ad esempio la chiesa in restauro di San Francesco del Prato. Fra una location dalla forte valenza evocativa e un teatro istituzionale che garantisca la perfetta acustica cosa crede sia meglio preferire? Nella sua carriera ha mai cantato in luoghi che l’hanno messa in oggettiva difficoltà?
Gli spazi non abituali per gli spettacoli d’opera spesso sono suggestivi e indubbiamente hanno un grande fascino anche per il pubblico; si tratta comunque di rispettarli come luoghi storici e possono creare delle difficoltà da un punto di vista acustico. Mi riferisco in particolare alle Chiese nelle quali ho avuto modo di cantare, sia pur soltanto in forma di concerto.
Negli ultimi anni le regie teatrali sono sempre più innovative e lontane dalla tradizione, come si è visto anche nel Festival Verdi. Quale è il suo rapporto con la parte registica dello spettacolo? Come è cambiato secondo lei negli anni il modo di fare regia?
Per quanto mi riguarda le regie cosiddette ‘innovative’, se sono aderenti alla storia raccontata dalla musica e dalle parole, mi piacciono molto e non ho mai avuto problemi nell’affrontarle. Negli ultimi anni la parte visiva dello spettacolo ha acquistato sempre maggiore importanza e intendo non soltanto la regia, ma la scenografia, i costumi, le luci. Trovo che sia del tutto normale giacché viviamo in un’epoca in cui il predominio dell’immagine è prevalente in ogni aspetto della quotidianità.
Lei è considerata dalla critica e dal pubblico come una delle più grandi interpreti attuali del repertorio belcantistico, ma ha anche dato grandi prove nel campo verdiano. Come si deve porre una cantante rispetto a questi due mondi? Quale è il modo corretto di affrontare due repertori così differenti?
Direi semplicemente che il primo Verdi, che ho cantato subito dopo Mozart, Rossini, Donizetti e Bellini, non è poi così lontano dal contesto musicale precedente: semmai ne è la naturale evoluzione. Rimango nella mia convinzione che non esista un modo ‘corretto’ in astratto, ma che l’interpretazione viene solamente dopo uno studio approfondito dello spartito ovviamente tenendo conto delle proprie possibilità espressive.
Sappiamo che parte del suo tempo è dedicata all’ attività di docente: qual è la chiave da passare ai giovani che permetta loro di capire ed affrontare Giuseppe Verdi?
In genere tento di far capire ai giovani quale è il repertorio nel quale possono riuscire meglio, in base alle loro potenzialità. Se c’è una propensione verso l’opera verdiana suggerisco di approfondirla e di essere ben consapevoli dell’importanza del testo, delle psicologie dei personaggi e del contesto storico, cosa che del resto vale quando ci si cimenta con tutti i grandi musicisti.
Concludendo, chi è per lei Giuseppe Verdi?
Per me, oltre a essere quel grandissimo compositore che tutti conosciamo, è l’uomo che nel corso della sua lunga vita seppe accostarsi a tutte le innovazioni che emergevano in quei decenni. Un intellettuale raffinato, capace di prevenire i tempi,circondandosi di personalità di spicco nei campi della letteratura, dell’ingegneria, dell’architettura, della botanica, delle arti figurative. Mi piace anche ricordare la sua generosità verso i musicisti, con la istituzione di Casa Verdi a Milano.
INTERVISTA A SAIOA HERNÁNDEZ [Marco Faverzani e Giorgio Panigati] Parma, 27 ottobre 2019.
In occasione della nuova produzione di Nabucco all’interno del Festival Verdi 2019, incontriamo Saioa Hernández, uno dei soprani più importanti e ricercati dell’attuale panorama lirico internazionale.
Saioa, lei ha avuto la possibilità di seguire gli insegnamenti di due grandissime cantanti: Renata Scotto e Montserrat Caballé che strumenti le hanno dato per affrontare in particolare le partiture verdiane con i loro temibili personaggi?
Entrambe sono state grandissime DAME dell’opera, e questo lo dico con tutto il senso possibile, e da persone e personaggi così si impara tantissimo anche solo a vedere com’è il loro atteggiamento col canto, con l’arte, con le persone, con lo studio. Questa sarebbe la prima cosa. Ma poi ci sono anche degli insegnamenti particolari come il canto sulla parola e con la parola, cioè, il canto che dà importanza alla parola ed il canto che si fa sulle parole, sul fiato, a fior di labbra. Ma la cosa piú importante di tutte è il rispetto per questa arte e per il pubblico.
A tema festivaliero, quali sono i personaggi verdiani che le piacerebbe debuttare?
Mi piacerebbe tanto debuttare Elisabetta del Don Carlo e Leonora di La forza del destino.
E in un gioco dell’impossibile quale personaggio non sopranile, anche maschile, le piacerebbe interpretare?
Mi piacerebbe tanto cantare Macbeth, ma anche Manrico, Eboli ed Amneris. Filippo II è anche un bellissimo ruolo.
Lei frequenta abitualmente il repertorio belcantistico e quello verdiano, quali sono gli aspetti migliori che lei prende dai due ambiti?
Il mio approccio al repertorio verdiano è sempre dal punto di vista belcantista. Verdi ha scritto belcanto e poi ha sviluppato questo belcanto in una serie di opere che sono diventate uno stile tanto unico da chiamarlo verdiano, ma sempre proveniente dal belcanto. Dal belcanto prendo la morbidezza, la flessibilità degli abbellimenti, dal verdiano l’eroicità, la bravura e gli accenti.
Questi due ambiti musicali cosa le permettono di comunicare al suo pubblico?
Entrambi mi apportano degli strumenti espressivi per trasmettere al pubblico delle emozioni attraverso diversi aspetti tecnici acquisiti nel cantare questo repertorio, e mi permettono di continuare a sviluppare uno strumento più ampio e più omogeneo e flessibile.
Parma, terra di musica e di eccellenza gastronomica, quali sono i suoi ingredienti segreti per la ricetta perfetta dell’interpretazione verdiana?
Bisogna avere un kilo di bravura, mezzo kilo di linea di canto, tre etti di dizione e di accenti, un buon pizzico di agilità e due cucchiai ben pieni di capacità interpretativa.
In alcune interviste ha dichiarato di apprezzare Laura Pausini, crede che il mix fra lirica e pop sia ancora qualcosa di sensato e possibile?
Sì certo, perché no? Mi piacciono tantissimo questi mix. Basta che le cose si facciano per bene e con eleganza, rispettando lo stile e gli autori. Sono tanti i cantanti lirici che hanno cantato musica leggera o popolare dei loro paesi, e se lo facciamo bene, non può altro che arricchire le nostre capacità. Ma bisogna farlo bene, anche al contrario. Poi, duettare con cantanti pop ecc. anche, perché no? Sono i mix pop-opera quelli più rischiosi, ma hanno anche il loro pubblico. É stato così che io mi sono avvicinata al canto lirico, come tanti altri.
Potrebbe rientrare nei suoi piani futuri un duetto in chiave pop, magari rivolto al pubblico delle nuove generazioni che la segue anche sui social?
Si, perché no? Mi piacerebbe tanto, ma anche includere dei pezzi leggeri o della musica del mio paese, ad esempio la copla ed altri nei miei concerti. Chissà, tutto dipende da come potrebbe reagire il pubblico.
La prima di Nabucco in questo festival è stata caratterizzata da grandi contestazioni verso la regia, accusata di discostarsi troppo dalla visione tradizionale dell’opera. Al di là del pubblico notoriamente tradizionalista di Parma, cosa pensa in generale di produzioni di questo tipo?
Io sono partita da questo tipo di creazioni più moderne e più lontane da quelle a cui siamo abituati. Bisogna capire che anche lo stesso Verdi é stato molto contestato all’epoca per essere stato molto avanti rispetto all’idea stilistica del momento. Bisogna andare con animo più tranquillo in teatro e cercare di farsi trasportare dall’universo e dall’idea che il registra ci propone. Anche noi cantanti tante volte arriviamo con un’idea preconcetta e durante le prove possiamo amare o odiare uno spettacolo o idea registica, ma se ti butti dentro quest’idea, escono delle cose bellissime che a volte nemmeno immaginavi. Con questo non voglio dire che non si debba protestare o dire: “questo mi piace o no”, ma sarebbe meglio aspettare la fine dello spettacolo per avere un’idea completa.
Esiste un limite da porre o all’invenzione registica si può concedere tutto?
Non si può concedere tutto, assolutamente no. Bisogna rispettare la musica ed il libretto. Noi siamo soltanto interpreti di queste meravigliose opere d’arte che ci sono state donate. Ma si possono fare le cose in chiave moderna o ambientazione temporale diversa da quella scritta sempre che si mantenga un senso ed un rispetto dell’idea generale del messaggio che si trasmette al pubblico. Se non si capisce ed il messaggio non arriva, siamo sulla via sbagliata.
Infine, chi è per lei Giuseppe Verdi?
Per me Giuseppe Verdi è innovazione, bravura, ed è il compositore che ha dato voce al popolo attraverso le sue opere, attraverso l’uso fantastico delle masse nelle sue composizioni, dove il popolo, Il coro e l’orchestra sono sempre i protagonisti assoluti. Per me Giuseppe Verdi è l’Italia.
INTERVISTA A FRANCO VASSALLO [Marco Faverzani e Giorgio Panigati] 13 dicembre 2019.
Nell’ambito del Festival Verdi 2019 incontriamo Franco Vassallo, baritono di fama internazionale, impegnato in questi giorni a Parma nella nuova messa in scena di Luisa Miller.
Sig. Vassallo, Lei ha avuto modo di spaziare sino ad oggi nei repertori più diversi, dal belcanto al verismo riscuotendo un ottimo successo di pubblico e di critica. Ritiene che la sua vocalità trovi il suo terreno di elezioni in un compositore in particolare? Qualche rimpianto o qualche performance che le è rimasta particolarmente nel cuore?
Il compositore che sento più vicino alla mia voce è Giuseppe Verdi, peraltro il compositore d’elezione della vocalità baritonale, che ne esalta al massimo le possibilità espressive. Ma devo dire che la mia voce ama tutti i compositori che interpreto, tra l’altro tutti giganti del melodramma, ognuno con le sue peculiarità uniche; soprattutto Rossini con la sua gioia luminosissima, Bellini, olimpico e lirico come nessun altro, Donizetti, maestro di stile e precursore di Verdi e Puccini, suo indubbio erede.
Verdi e le figure baritonali: rappresentano padri affettuosi e coraggiosi, talvolta innamorati gelosi ed altre volte ancora truci tiranni o guerrieri. È possibile individuare un filo conduttore tra questi personaggi verdiani? Quali sono le caratteristiche peculiari del baritono verdiano sia sotto il profilo interpretativo sia sotto il profilo vocale?
Che siano indirizzati verso scopi positivi piuttosto che negativi, direi che i tratti distintivi del baritono verdiano sono l’energia e la concretezza dell’uomo, principalmente dell’uomo di mezza età, ma a volte anche del giovane (come il conte di Luna nel Trovatore o Re Carlo nell’Ernani) e dell’anziano (come l’ottuagenario Doge Francesco Foscari nei Due Foscari). Ma se giovane o giovanissimo ha già in se quell’energia e quella concretezza che lo porta a voler combattere per i suoi ideali senza mai arrendersi, se invece è anziano o molto anziano, come appunto nel caso del Doge veneziano, ha ancora in se quella forza che non l’ha abbandonato. Può avere momenti di sogno ed essere idealista, ma ha i piedi sempre saldamente piantati per terra (…a differenza del tenore)!
Spesso le figure baritonali appartengono a nobili stirpi, abbiamo letto, in una recente intervista, delle sue origini nobiliari. Le è stato utile in qualche modo questo suo retaggio nelle sue interpretazioni?
Sì, per quello che riguarda l’attaccamento alle tradizioni e al lustro del blasone, presenti in molti personaggi, le storie e le vicende dei miei avi mi hanno ispirato.
Questa ispirazione però si colora di tonalità diverse, a seconda della natura del personaggio e delle vicende a lui legate.
Pensiamo all’idealismo del Marchese di Posa nel Don Carlo, che sento essere la traslazione in ambito pubblico del retaggio familiare di una nobiltà vissuta nel senso più alto del termine, nel voler liberare ed innalzare le genti al di sopra delle miserevoli condizioni imposte loro dal giogo del potere; e per ottenere questo essere disposto all’estremo sacrificio. Un novello Prometeo!
Mentre in Don Carlo di Vargas, l’antieroe de La forza del destino, il retaggio ed il lustro del blasone di famiglia diventano la terribile condanna che lo trasformano in uno spietato giustiziere che deve attuare una vendetta implacabile e inappellabile, senza più alcun diritto di poter vivere una vita sua propria, ma ridotto a mero strumento di morte dal fantasma di suo padre, il Marchese di Calatrava. Figura tristissima il cui destino mi ha sempre profondamente commosso.
Infine pensiamo ad un altro grandissimo personaggio verdiano, Sir John Falstaff, in cui vediamo il lato comico della prosopopea nobiliare, col blasone ridotto al tappeto sotto cui far sparire la molta polvere di grandi inadeguatezze interiori e di inconfessabili ingordigie!
Se avesse la possibilità di fare un viaggio nel tempo e prendere un caffè con Giuseppe Verdi: da cantante, che consigli potrebbe dare al compositore o quali insegnamenti vorrebbe ricevere?
Eheheh, consigli a Verdi?! Sicuramente penderei dalle sue labbra e gli chiederei ragguagli su tutti gli effetti scenici e vocali che si aspettava nei vari punti delle sue opere. Anche se bisogna osservare che analizzando bene le sue partiture si trova scritto tutto; dinamiche, intenzioni, colori…certo però il poterlo sentire dalla sua viva voce mi emoziona al solo pensiero!
Il confronto con le nuove generazioni. Qual è il messaggio che potrebbe trasmettere ad un giovane cantante relativamente all’intenzione verdiana?
Il bello del messaggio verdiano è che, essendo così strettamente correlato all’essere umano ed a tutto lo spettro delle sue emozioni, è senza tempo, alla stregua di quello dei più grandi drammaturghi di ogni epoca. Quindi direi al giovane cantante di approcciarsi alle partiture verdiane riconoscendole per quello che sono, cioè come una sorgente di immediatezza, forza e verità, di interiorizzare queste qualità e di manifestarle sul palcoscenico perché possano irradiarsi sul pubblico.