Spettacoli 2010
SALOME [Lukas Franceschini] Bologna, 19 gennaio 2010.
Il capolavoro di Strauss Salome, diventata opera di repertorio tanto è rappresentata in tutto il mondo, è il titolo con il quale il Teatro Comunale di Bologna ha aperto la stagione lirica 2010.
Ovviamente nuovo allestimento e un italiano sul podio, particolarità non secondaria, tanto da confermare che trattasi di composizione non relegata solamente al mondo musicale tedesco. Gabriele Lavia, il regista, si riconferma artista di scrupolosa attenzione musicale nonché capace di straordinaria inventiva. Lo spettacolo si sviluppa durante un’eclisse di luna rappresentata anche da uno specchio, con una scena (di Alessandro Camera) atemporale, scarna, con ma suggestiva, mentre i novecenteschi bellissimi costumi, di Andrea Viotti, stanno probabilmente a precisare il momento storico musicale cui Strauss è uno dei pionieri e maggiori esponenti.
Manca il celebre vassoio d’argento su cui dovrebbe essere servita a Salome la testa di Jochannan, la quale enorme appare dal pavimento come fosse l’eruzione di un vulcano, tanto a definire la violenta e incontrollabile psicolabilità della protagonista, che non la bacia ma vi si adagia sopra come in un’estasi completa sia carnale sia sensuale. Ben curato ogni movimento ogni riflessione anche dei personaggi minori, dall’impacciato e stregato Narraboth, alla cinica ed altera Herodias, al sinuoso e viscido Herodes. Su tutto catalizzava la superba focalizzazione di Salome, non tanto evanescente ragazzina, quanto ieratica e sensuale che nella danza dei sette veli, splendidamente realizzata, arriva perfino ad un nudo integrale.
Luisotti ha diretto la difficile partitura con grande impegno ed esemplare energia, controllando le varie sezioni orchestrali in un raffinato cesello di particolarità e la riuscita di questo spettacolo è soprattutto a suo merito. Ottima la compagine orchestrale, attenta e vibrante, dal preciso suono. Purtroppo a questa produzione mancava una protagonista adeguata. Erika Sunnegardh ha dalla sua un colore vocale pertinente, purtroppo è la zona medio bassa ad essere quasi afona, risultando inesistente nel fraseggio soprattutto se accompagnata da sonorità quali straussiane, mentre il settore acuto è ben controllato e accettabile. A suo merito vanno sicuramente un’apprezzabile teatralità e una gestualità da prim’ordine non sufficienti comunque per rendere accettabile la prestazione. Di gran lunga superiore Robert Brubacher, un Herodes squillante e di grande espressione vocale, austero ed ieratico al tempo steso, il migliore del cast. Non da meno Dalia Schaechter una Herodias ambigua e sprezzante e anche il fiero Jochanaan di Mark. S. Doss, che del personaggio ha fatto ormai un punto di riferimento, possente ed esemplare. Ottima la presenza di Mark Milhofer e Nora Sourozian, come anche il gruppo dei cinque ebrei, perfetti. Al termine un vibrante successo per tutti.
LA BOHÈME [Lukas Franceschini] Verona, 22 gennaio 2010.
Il Secondo Concorso di canto dell’Istituto per l’Opera e la Poesia istituito a Verona ha portato poi alla messinscena dell’opera La Bohème di Giacomo Puccini. Capolavoro assoluto di sentimentalismo musicale ma anche cruda realtà di una stagione detta appunto “bohémienne”. Talvolta nell’opera di Puccini le vicende “alla giornata” dei protagonisti è soffocata dalla melodia estatica ed efficace di una delle più belle commuoventi opere dell’intero panorama del melodramma, tanto da essere annoverata tra le più rappresentate.
Le magre vicende di sei giovani artisti parigini sono una pennellata di colori sia intimistici sia di affresco di vita spensierata per nascondere l’evidente impossibilità di una vita costruita su certezze soprattutto lavorative. I sogni e le aspettative sono il pane quotidiano, cui manca nella realtà. Mai simile panorama, evidente in ogni epoca fino ad oggi, è stato tanto ammirevolmente illustrato e musicato come in quest’opera, che supera di gran lunga anche altre ambientazioni sia in prosa sia nel cinema. Lo spettacolo prodotto dal Bassano Opera Festival di qualche anno addietro era curato interamente da Ivan Stefanutti, regista di chiara fama e soprattutto geniale artista. Egli sposta l’azione di qualche decennio, siamo negli anni ’30, quando a Parigi abitavano personaggi come Picasso, Breton, Cocteau, Simenon, Janet, non sempre in condizioni ottimali. Rifacendosi a cineasti come Marcel Carné e Jean Vigo che rappresentarono in pellicola questo stile di vita, Stefanutti ci regala uno spettacolo come fosse un film in bianco e nero, nebbioso, gaio, frizzante d’amore, ma anche tragico e desolante. Le ambientazioni sono classiche: la soffitta, il Quartiere Latino, la dogana, caratterizzati da una reale atmosfera più vicina alla realtà che all’immaginario fantastico, rendendo appieno una visione agrodolce, senza tralasciare inventiva e fascino d’altri tempi. Altra grande prodezza del regista è stata quella di coordinare i giovani cantanti del concorso, alcuni addirittura debuttanti, in un ensemble di alto livello recitativo, credibili e disinvolti. Tra i quali vincitori direi che le migliori prove sono venute da Valdis Jansons, un Marcello vigoroso e sicuro, e da Szymon Komasa, uno Schaunard di strepitosa aderenza al personaggio nonché cantante, seppur chiaro, di alto lignaggio, due elementi questi da riascoltare a breve. I due amanti protagonisti erano un Rodolfo pertinente dalla voce molto lirica e ben timbrata, anche se il registro acuto è ancora limitato, e da una Mimì molto musicale e puntuale, ma vocalmente debole per un timbro secco e disomogeneo nei registri. Agniezska Adamczak era una Musetta molto lontana dallo stile soubrette ma egualmente convincente, cosa che non si può affermare per il Colline di Aleksandar Stefanoski, voce possente ma ancora troppo acerba e sovente monotono. Ottimo, tra i comprimari, il Benoit di Nicolò Rigano e non particolarmente incisivo Maurizio Magnini nel ruolo di Parpingol. La vera sorpresa della serata l’ha regalata il podio e precisamente il giovane Andrea Battistoni. Questo ragazzo, appena ventiduenne, mi ha entusiasmato per la sua attenta e vibrante concertazione. Gesto elegante, attento ai particolari, capaci di giochi di colore di grande effetto, efficace nella dinamica e soprattutto nel coordinare i cantanti con superba incisività. Certo, non tutto era perfetto, ad esempio il valzer di Musetta era lento, il finale atto II non particolarmente “festivo” e in altri momenti mi sarei aspettato più espansione orchestrale, più abbandono, ma considerata la giovane età e la professione iniziata da qualche anno, non si può che essere soddisfatti e compiaciuti di tanto entusiasmo e talento, i cui risultati nei prossimi anni dovrebbero portare performance ancor più mirabili. A risentirla presto M° Battistoni, con tante aspettative! Teatro affollato e giustamente caloroso d’applausi per il direttore e i giovani cantanti, particolarmente gradito il tenore Kim, toni più smorzati all’uscita del regista, il quali sono del tutto ingiustificati, a meno che non si volesse sottolineare che tre intervalli per una Bohème sono assurdi, se non improponibili al giorno d’oggi.
UN GIORNO DI REGNO [Lukas Franceschini] Parma, 29 gennaio 2010.
Avviandoci al bicentenario verdiano del 2013, Parma prosegue il percorso nell’allestimento di tutte le opere del suo concittadino. Per l’inaugurazione della Stagione invernale 2010 la scelta è caduta su Un giorno di regno o Il finto Stanislao seconda opera nel catalogo di Giuseppe Verdi e suo unico approccio con il melodramma giocoso.
In 54 anni di carriera questo resta l’unico tonfo del compositore, all’inizio ci furono anche altri titoli non particolarmente graditi dal pubblico o dalla critica, poi titoli con buon successo e molti trionfi, pertanto non è irrispettoso definire Un giorno di regno la più infelice.
Questa affermazione può dar adito a commenti e dissensi di vario tipo, ma chi scrive trova assurdo non poter considerare che quest’opera è la più debole, la più mal strutturata e la più estranea all’estro compositivo di Verdi. Gabriele Baldini, nel programma di sala, elenca tutte una serie di giustificazioni a difesa del compositore, le quali certamente sono attente, scrupolose e veritiere ma non sovvengono l’esito dello spartito. Sintetizzando si può affermare che il libretto era datato (1818) anche se per penna di Felice Romani, la struttura dell’opera era tipicamente quella buffa settecentesca e la compagnia di canto alla prima era scadente. Tutte situazioni che sommate ad una vistosa estraneità del compositore verso il genere buffo, hanno creato questo insuccesso. Comunque nell’opera non mancano certo arie o momenti felici, come l’aria di sortita della Marchesa del Poggio, il duetto Belfiore-Edoardo e i due duetti dei bassi buffi, ma in generale zoppica, è stantia e musicalmente si riscontra un forte divario tra primo e secondo atto. Come riporta Budden, se paragonata a simili partiture coeve, Don Pasquale, La fille du regiment o anche L’elisir d’amore, ne fa una gran magra figura. Lo spettacolo al Regio era una ripresa di una produzione di successo del 1997, poi allestita nel 2001 a Bologna, curata per intero da Pier Luigi Pizzi, il quale con arguta fantasia incornicia il canovaccio in un astratto ‘700, ben regolarizzato da movimenti ritmici e ben guidando, per quanto possibile, i sei protagonisti. Bellissime le scene, con cambi a vista, sfarzosi e sgargianti i costumi. Delizioso, infine, l’omaggio alla città di Parma nella scena prima del II atto ambientata nella dispensa del palazzo adornata da prosciutti e forme di parmigiano. Sul podio un Donato Renzetti, non particolarmente persuasivo, direi accomandante e discreto accompagnatore, senza verve e mordente, diversamente dai precedenti Foscari. L’orchestra era in parte appannata e il coro sempre puntuale e preciso non è certo emerso perché gli interventi nell’opera sono uno dei punti più deboli. Quando si riprendono tali partiture il minimo denominatore dovrebbe essere un grande cast, il quale aiuta a sopperire in parte a lacune compositive, ma in questa occasione, diversamente delle precedenti del ’97 e del ’01, l’accortezza latitava. Anna Caterina Antonacci, unica del cast presente nelle citate precedenti edizioni, è forse stata la migliore per garbo stile, puntualità e fraseggio, anche se attualmente il registro acuto e forzato e tremulo. Altro elemento di lode è Paolo Bordogna che sempre più si conferma ottimo cantante, brillante attore soprattutto nel repertorio buffo, musicale e vivace belcantista. Tutti gli altri erano molto inferiori alle aspettative, Guido Loconsolo monotono e gutturale Belfiore, Alessandra Marianelli una precisa Giulietta ma fin troppo esile e vibrata, Andrea Porta era un fiacco e limitato Klebar. Ivan Magrì, Edoardo, è un giovane ancora troppo acerbo, il quale sfoggia sicuramente un registro acuto interessante ma monocorde e la carenza tecnica è lampante, tanto che nella difficile aria del II atto è inciampato più volte in clamorosi incidenti, che fortunatamente il temibile loggione ha solo apostrofato con qualche mugugno. Al termine successo cordiale.
UN GIORNO DI REGNO [William Fratti] Parma, 31 gennaio e 9 febbraio 2010.
Un giorno di regno, seconda opera di Giuseppe Verdi, sua unica incursione nel genere comico prima di Falstaff – l’ultimo capolavoro del genio bussetano – ha aperto la Stagione Lirica 2010, proseguendo l’ambizioso progetto del Teatro Regio di Parma di completare l’intero lavoro verdiano prima del Bicentenario del 2013, riprendendo ad alta risoluzione ognuna delle opere rappresentate.
Per l’occasione è stato riproposto lo spettacolo creato ed interamente firmato da Pier Luigi Pizzi nel 1997 per il palcoscenico parmigiano, andato nuovamente in scena nel 2001 al Teatro Comunale di Bologna, al Municipale di Piacenza e alla Scala di Milano. L’imponente impianto scenografico neoclassico ed i colorati costumi settecenteschi non sembrano affatto invecchiati, godendo ancora della freschezza e dell’eleganza tipiche del regista milanese, che si è avvalso delle luci belle e suggestive di Vincenzo Raponi e delle coreografie di Luca Veggetti, semplici e d’effetto in alcuni punti, leggermente banali in altri.
Ad avvalorare la rappresentazione di domenica 31 gennaio è la partecipazione di Anna Caterina Antonacci, già titolare del ruolo della Marchesa del Poggio nella produzione originale di Parma e nelle riprese bolognesi e piacentine. La cantante ferrarese, che possedendo una voce scura e particolarmente flessibile è in grado di interpretare parti sopranili e mezzosopranili, molto apprezzata nel repertorio barocco e belcantista, è propriamente adatta a vestire i panni della Marchesa, ruolo inizialmente scritto per soprano, ma più confacente ad una vocalità brunita, che possieda corposità nelle note gravi e centrali. La Signora Antonacci entra in scena con la celebre cavatina “Ah! Non m’hanno ingannata!… Grave a core innamorato” e si prodiga in un canto efficace, sicura nelle pagine più liriche, abile nel trillo e nelle agilità della cabaletta “Se dee cader la vedova”.
Ma è nel secondo atto che l’artista mostra intensità, salde doti tecniche e un buon uso dei chiaroscuri, con “Si mostri a chi l’adora” arricchendo la successiva cabaletta “Sì, scordar saprò l’infido” con interessanti variazioni. L’arduo si acuto, scritto da Verdi in un’aria che scende al la grave, non è perfettamente pulito, ma non è certo motivo di critica ed il pubblico accoglie calorosamente Anna Caterina Antonacci con uno scrosciate applauso e grida di approvazione.
Il ruolo del protagonista è affidato al giovane baritono Guido Loconsolo, che possiede una buona linea di canto, ma pare più adatto ad un repertorio differente. Il Cavalier Belfiore in effetti può essere considerato un ruolo protoverdiano, già precursore di Nabucco e necessiterebbe di maggiore squillo, sicurezza negli accenti e fraseggio espressivo.
Lo stesso vale per la Giulietta di Alessandra Marianelli, che non sembra sempre omogenea. L’aria “Non san quant’io nel petto” di gusto belliniano e che richiama la Leonora dell’Oberto, avrebbe bisogno di maggiore robustezza tecnica, come pure il duetto con Edoardo “Giurai seguirlo in campo”.
Decisamente migliore è “Cara Giulia alfin ti vedo… Questo bene inaspettato”, pagina ricca di spunti lirici e patetici, che potrebbe affiancare i più bei concertati del Verdi degli anni di galera, dove la Signora Marianelli e il Signor Magrì donano buon esempio di canto spianato. Effettivamente la parte di Edoardo appare scritta per un tenore lirico leggero, che pur possedendo chiare connotazioni verdiane è permeata dell’eleganza del belcanto. Ivan Magrì possiede la giusta vocalità, intensa e squillante, ma esigerebbe di maggiore sicurezza negli appoggi, abilità nell’uso dei colori e padronanza del passaggio dal registro centrale a quello acuto.
Accanto alle due coppie di innamorati sono il Signor La Rocca e il Barone di Kelbar, unici ruoli per basso buffo scritti dal Maestro di Busseto, di derivazione chiaramente donizettiana e a tratti rossiniana. Paolo Bordogna nei panni del tesoriere, oltreché essere allegro e divertente, dimostra di essere un interprete di altissimo livello, che seppur impegnato in gag comiche e situazioni spassose – tanto da condurre i recitativi con accento emiliano durante la serata del 9 febbraio – non si esibisce mai a discapito della voce, sempre sicura, brillante, piena, ricca di accenti e con buona emissione. Esperto del repertorio buffo preverdiano, ma già interprete di Fra Melitone ne La forza del destino, palesa una vocalità luminosa e squillante che lo renderebbe adeguato anche per l’ultimo capolavoro del Cigno. Lo affianca Andrea Porta, artista di indubbia qualità e di buon gusto, leggermente nascosto dalle innegabili doti del collega, col quale si trova impegnato in tre bellissimi duetti durante tutto l’arco dell’opera.
Completano il cast Ricardo Mirabelli e Seung Hwa Paek nei panni del Conte Ivrea e del servo Delmonte e il Coro del Teatro Regio di Parma, guidato da Martino Faggiani, mostra sempre uno standard elevato di preparazione, come pure l’Orchestra diretta da Donato Renzetti.
Nella recita del 9 febbraio il ruolo della Marchesa del Poggio è stato sostenuto da Davinia Rodriguez, che si trova in difetto a dover competere con l’eleganza e la presenza scenica di Anna Caterina Antonacci. Anche la parte vocale non è sgombra di imperfezioni, probabilmente dovute ad una tessitura troppo distante dalla sua vocalità.
Giulietta di Kelbar è interpretata da Arianna Donadelli, in possesso di una voce pulita seppur piccola. La cavatina sembra essere eseguita più lentamente rispetto al consueto, ma il giovanissimo soprano non si risparmia nelle agilità e nelle variazioni nel da capo.
La scelta di affidare numerosi ruoli ad artisti agli inizi della loro carriera, fa onore ai teatri che decidono di offrire queste opportunità, ma non pare particolarmente appropriata in una rappresentazione che deve entrare a far parte della prima e più importante enciclopedia verdiana, ripresa in alta definizione e registrata su supporti video digitali.
DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Milano, 10 febbraio 2010.
Ritorna nella sala del Piermarini “Don Giovanni” di W. A. Mozart nell’allestimento di Peter Mussbach che già approdò da Berlino nel 2006. Mozart, dopo il trionfale successo de “Le nozze di Figaro” ricevette la commissione di una nuova opera. Con Andrea da Ponte, complici di un nuovo sodalizio artistico, furono attratti prevalentemente dal testo di Giovanni Bertati, intitolato “Don Giovanni Tenorio ossia il Convitato di Pietra” già musicato da Gazzaniga.
L’argomento apparteneva ad una tradizione europea molto ramificata, anche se è difficile poter affermare con esattezza la paternità letteraria del soggetto, infatti, vi sono addirittura due presunte date di nascita: 1611-1612 epoca nella quale fu presumibilmente composta la commedia “Tan largo me lo fiáis” (prima versione del “Burlador de Sevilla) che però fu pubblicata solo qualche decennio più tardi con falsa attribuzione a Pedro Calderón de la Barca; 1619 quando all’incirca sarebbe stato elaborato “Burlado de Se villa y Convidado de pietra” ovvero la versione definitiva dell’opera precedente e capostipite di tutti i Don Giovanni. La genialità compositiva di Mozart rende questo personaggio al di sopra di tutti quelli da lui affrontati per sfaccettatura musicale ed intrepida padronanza del suo essere. L’eccesso d’espressione generale enfatizza ogni situazione, dove i personaggi sono tutti protagonisti in quell’avversità contro il demoniaco seduttore il quale nell’ultima prova non si pente, e così vince moralmente la sua battaglia con l’ignoto: sarà dannato, ma l’eco delle sue imprese resterà intatta, senza ombra di vigliaccheria. Lo spettacolo di Mussbach, che fu oggetto di contestazione nel 2006, passa oggi quasi inosservato, sia per le scene spoglie sia e i banali costumi. Premetto che personalmente non mi dispiacque, anche se non ritengo sia un allestimento memorabile, oggi però, la ripresa a cura di Lorenza Cantini altera o meglio diversifica molte cose rispetto all’originale di mia memoria. Ecco pertanto un Leporello saltimbanchi quasi maschera carnevalesca, una donna Anna ieratica, un insignificante palpeggiamento Leporello-Don Giovanni di dubbia comprensione o almeno di insignificante lettura. Ritengo inopportuno tali sconvolgimenti registici in base al criterio che una ripresa dovrebbe essere precisa all’impostazione primaria. In buca abbiamo trovato un’egregia bacchetta in campo sinfonico come quella di Louis Langrée, il quale già dall’overture faceva intuire che la drammaticità e la scansione orchestrale mozartiana non era il suo pane. Orchestra pulita, suoni precisi e misurati, ma era totalmente assente quel nervo istrionico e personale tale da rendere l’intero dramma incalzante, mordente, tragico, talvolta grottesco. Erwin Schrott, dopo il deludente Escamillo, riprende possesso di uno dei suoi migliori personaggi e lo fa con somma capacità, incredibile presenza scenica, disinvoltura espressiva, anche se la voce mi è parsa leggermente meno timbrata rispetto al suo standard. Ottimo il Leporello di Alex Esposito, escluso il continuo piroettare che non so se dovuto alla regista o a un suo gusto personale, sicuramente il migliore del cast per calda e rotonda voce e recitativi scolpiti. La voce di Juan F. Gatell, è povera di peso specifico, elegante ma linfatica, il suo Don Ottavio e scarno amorfo ed è inutile chiedere particolari acrobazie che non sarebbe in grado di sostenere. Mirko Palazzi disegna un Masetto giovanile e ruspante con buona vocalità, mentre Georg Zeppenfeld è un tonante e greve commendatore. Sul versante femminile la situazione non migliorava a cominciare dall’imbarazzante Carmela Remigio in palese difficoltà sia di tessitura sia d’accento per non parlare delle agilità (“Or sai chi l’onore” è stata immediatamente zittita). Emma Bell che era l’unica ad esprimere temperamento lo faceva nei limiti di una fastidiosa voce vibrata e di un incomprensibile pronuncia, mentre Veronica Cangemi si rifugiava nella compassata interpretazione di Zerlina soubrette svenevole e leziosa. Teatro esaurito, pochissimi applausi durante l’esecuzione, qualche zittio e dei “buh” dopo “Mi tradì…” ma al termine successo pieno per tutti con punte di entusiasmo per Schrott e soprattutto Esposito.
IL BARBIERE DI SIVIGLIA [Lukas Franceschini] Venezia, 11 febbraio 2010.
Le tre recite fuori abbonamento de “Il barbiere di Siviglia” di Giochino Rossini alla Fenice di Venezia, secondo titolo della stagione, lasciano spazio ad una considerazione sulla programmazione artistica.
È evidente che durante il Carnevale, momento cultural-popolare della città, anche il teatro debba inserirsi in tale contesto. Ebbene, allestire poche recite di uno dei titoli più famosi senza un nesso, peraltro in un vecchio e logoro allestimento non fa certo onore ad un’istituzione che in simbiosi con la città che la ospita ambirebbero all’esclusività territoriale nonché storica per la sede e il luogo occupato. Una programmazione artistica non si fa sommando una serie di titoli, più o meno conosciuti, senza una logica di produzione e di intenti di proposte culturali che dovrebbero essere tali. Inoltre il Barbiere è opera tra le più rappresentate al mondo, non vanta certo di un’esclusiva, in uno spettacolo poi misero che per una continua riproposizione non vanta nemmeno lentamente genialità registiche come ad esempio quello di J. P. Ponnelle. Un’ottica interessante avrebbe potuto essere quella di inserire un’opera avente un nesso con il tema odierno del Carnevale, dunque sarebbe servita una diversa oculatezza nella scelta di titolo, cast, regia ecc. Col senno di poi questo Barbiere si scosta anni luce da tutto quel processo denominato Rossini Renaissance che ha avuto il compito negli ultimi 40 anni di valorizzare stilisticamente l’esecuzione rossiniana, inoltre, essendo un’opera di repertorio meritava una riproposta anche a fronte di un cast di peculiare proprietà. L’interesse primario di questo allestimento era rappresentato dalla giovane bacchetta di Daniele Rustioni, già apprezzato direttore su scala europea. Infatti, non mi ha deluso anzi, ho trovato la sua concertazione calzante e briosa, attenta alla narrazione e particolarmente frizzante, con la viva certezza di confermare questo in prossime occasioni. Del cast emergeva il Basilio di Lorenzo Regazzo, il quale non possiede certo una voce da basso profondo, ma con intelligenza proietta vocalmente il personaggio su tessiture altre piuttosto che sorvolare sul grave, in aggiunta ad un’ottima presenza scenica. Manuela Custer interpreta Rosina da mezzosoprano, con intelligenza, gusto e verve, semmai sono i registri a non essere omogenei e mi è parsa un po’ affaticata e sfasata, probabilmente non in serata rispetto ad altre esibizioni da me ascoltate. L’Almaviva di Enrico Iviglia si colloca sulla linea dei tenorini leggeri sconfinanti nel linfatico, tipici negli anni 50’ e ’60, egli è comunque corretto e si impegna anche in una certa fioritura vocale pur entro certi limiti, evitando accuratamente il rondò del II atto. Christian Senn ed Elia Fabbian non si distinguono per particolari proprietà, entrano nella semplice e banale routine. Simpatica e frizzante la Berta di Giovanna Donadini, buoni gli altri comprimari e il coro del Teatro la Fenice si comporta egregiamente. Della regia, con scene banalissime e scontati costumi di Lauro Crisman, non saprei cosa aggiungere oltre logoro ed abusato. Gags e parodie d’avanspettacolo, forzature inappropriate, gusto folkloristico, come se nel Rossini del “Barbiere” non fosse già tutto inserito nel libretto e nella musica per sorridere. In teatro pubblico di carnevale, taluni in maschera, festante e plaudente al termine.
IL TROVATORE [Lukas Franceschini] 19 febbraio 2010.
La città del Polesine è stata l’ultima tappa di un nuovo allestimento de “Il trovatore” nato a Bassano del Grappa ed itinerante poi nella regione Veneto. L’opera rappresenta assieme a Traviata e Rigoletto il fulcro di snodo della produzione verdiana, assumendosi l’onere dell’inizio della piena maturità artistica.
Opera romantica per eccellenza, scura notturna (così la definiva Gavazzeni) scolpisce i personaggi in maniera encomiabile, rendendoli accesi ed incalzanti nelle più diverse “idee musicali”. Il libretto è tra i più belli della storia dell’opera, sottile, misterioso, perché drammaturgicamente spazia tra il ricordo del passato e il presente, ma è soprattutto la musica che esalta, rapisce, atterrisce e trasporta l’ascoltatore nel vortice delle passioni che si rincorrono e si scontrano in un ritmo serrato, quasi sublime. Denis Krief è un regista che non scivola mai nella banalità, riuscendo spesso a scovare chiavi di lettura audaci ed innovative, qui però ha messo un po’ troppa carne al fuoco. L’idea di fondo è decisamente coerente analizzando la vicenda sia come scontro politico tra le parti (l’opera è del 1853, e siamo in pieno risorgimento) sia come introspettiva psicoanalitica. Conte di Luna e Leonora L’allestimento è attualizzato in epoca partigiana, dove questi erano rappresentati da Manrico e gli zingari mentre i malvagi erano i seguaci del Conte, l’idea non nuova funzionava anche ma non supera una semplice coreografia. Diversamente la lettura quasi psicoanalitica dell’inconscio nei gesti e nei ricordi di Azucena, e nel rapporto tra i due fratelli, che non sanno di esserlo, funzionavano meno in quanto non messi sufficientemente a fuoco, banale infine quel fioco lume a rappresentare il fuoco che ne “Il Trovatore” ha altra importanza. La scena era rappresentata da una grande struttura di legno che fungeva da libro, ad ogni scena ne veniva aperta una pagina, ma il tutto era troppo minimalista e tutto sommato freddo, scarno, a cui contribuivano delle luci bellissime ma una recitazione piuttosto sommaria degli interpreti. Per tale concezione il regista abbisognava di cantanti-attori di altra levatura, comunque nulla era fuori luogo o controcorrente, ma mancava quel tratto cavalleresco tipico dell’opera che qui avrebbe dovuto esprimersi in altro linguaggio. Non nego che uno degli interessi primari di questa produzione era la direzione di Omer Meir Wellber, giovane bacchetta di sicura carriera come conferma anche un concerto veronese dell’autunno scorso. Un annuncio qualche minuto prima dell’entrata del concertatore informava il pubblico che l’opera sarebbe stata diretta da Stefano Romani perché improvvisamente colpito da indisposizione Wellber. Si presume che Romani fosse catapultato all’ultimo sul podio, ma abbiamo avuto una felice conoscenza, almeno per chi scrive, in quanto era a me musicista sconosciuto. Sicuro efficace, incalzante nel ritmo e soprattutto nella narrazione, tiene le briglie di un’opera per niente facile, trovando, con successo, una coesione tra buca e palcoscenico. Incomprensibile invece la scelta dei tagli, la quale probabilmente era già impostata precedentemente: non è stato eseguito nessun da capo, anche se Leonora canta la cabaletta del IV, generalmente soppressa. La compagnia di canto presentava elementi, che seppur censurabili, sono in cartellone nelle stagioni dei teatri più importanti, e questo in parte la dice lunga su come versa il settore canoro soprattutto nel versante verdiano. Walter Fraccaro, è un tenore sicuro e corretto a cui manca un fraseggio adeguato, egli si adopra soprattutto nel canto di forza spesso stentoreo, pertanto qualsiasi opera canti (vedi le recenti Cavalleria e Manon alla Fenice) risulta sempre eguale, nel caso odierno manca nel fondamentale aspetto dell’innamorato appassionato. Molto interessanti i mezzi vocali di Kristin Lewis, una voce lirica tendente al drammatico di buon temperamento, timbro bellissimo che però tende a sbiancarsi nel settore acuto, ma la resa drammatica e l’accento erano molto suggestivi. Il conte di Vitaly Bilyy, giovane baritono russo, si apprezzava per lo stile e l’accento sempre controllato, buona l’emissione anche se in taluni momenti non avrebbero guastato qualche colore e qualche espressività più convincente. Anna Smirnova, invece, giocava la carta del temperamento, che decisamente non le manca, ma a parte un registro acuto dissennato manca in lei il fraseggio e l’accento in aggiunta ad doppia voce che segna le insufficienze tecniche. Molto convincete Roberto Tagliavini, non sarà un basso profondo, ma tecnica e soprattutto stile sono meritevoli di plauso. Censurabili i comprimari e buona prova del Coro. Il pubblico che esauriva il Teatro Sociale solo al termine ha manifestato la propria approvazione soprattutto per il soprano, pur con due isolate contestazioni che non potrei dire a chi erano dirette.
ROMÉO ET JULIETTE [William Fratti] Trieste, 23 febbraio 2010.
L’allestimento di Roméo et Juliette, prodotto lo scorso anno al Teatro la Fenice di Venezia e firmato da Damiano Michieletto, con scene di Paolo Fantin e costumi di Carla Teti, è approdato sul palcoscenico triestino sollevando qualche borbottio, soprattutto lungo le fila della platea più tradizionalista, producendo l’esodo di alcuni spettatori durante ciascuno degli intervalli.
In questa produzione si evidenzia lo stile inconfondibile del valente regista veneziano, abile nel costruire spazi ad effetto e movimenti scenici adeguati, ma sembra avere dimenticato non solo le parole del libretto di Jules Barbier e Michel Carré, ma soprattutto la musica di Charles Gounod. Se il celebre dramma di William Shakespeare, sempre attuale nei temi trattati, si presta facilmente a trasposizioni non solo temporali, ma anche contestuali – basti pensare al celebre film di Baz Luhrmann ed interpretato da Leonardo Di Caprio e Claire Danes – la musica del compositore francese è intrisa di eleganza nobiliare e riferimenti romantici, dai quali non è possibile prescindere senza creare una dicotomia fastidiosa tra la buca e il palcoscenico.
Così Michieletto trasforma la festa da ballo in casa Capuleti in una serata disco anni ’80, con scene da Tagadà, abiti e ninnoli fosforescenti, piatti e bicchieri di carta gettati a terra in un immondezzaio che accompagna la vicenda fin quasi alla fine. Incomprensibili richiami discografici e cinematografici – forse non voluti – contribuiscono a generare confusione. Indubbio è il plauso meritato dal regista nella costruzione di un apparato scenografico complesso – anche se gli interpreti sono chiaramente messi in difficoltà dalla pendenza estrema – con un enorme giradischi e un impianto luci da capogiro, oltre a un’idea drammaturgica originale, ma la mancanza di filologia e la lontananza dalla raffinatezza della musica di Gounod rendono lo spettacolo di dubbio gusto, seppur ben costruito.
Silvia Dalla Benetta si trova a suo agio al debutto nella parte di Juliette, presumibilmente forte dall’interpretazione di altri ardui ruoli del repertorio francese, come Marguerite in Faust e i quattro personaggi femminili de Les contes d’Hoffmann. Il suo canto è sempre preciso, tanto nelle agilità quanto nelle pagine più spianate, ma la direzione chiassosa di Julian Kovatchev la costringe ad abbandonare certi colori e le raffinatezze dei filati. Il direttore bulgaro in certi punti si lascia addirittura andare in una guida priva di brio, cosicché l’attesa “Je veux vivre” risulta essere lenta ed insipida, arrivando perfino a mettere a disagio la cantante, costretta a tenere dei fiati lunghi ed interminabili. Ciò non impedisce comunque al soprano vicentino di mostrare le proprie qualità, soprattutto in “Dieu! Quel frisson court dans mes veines?” al termine di cui è accolta dal pubblico con uno scrosciante applauso.
Antonino Siragusa prova a cimentarsi con il ruolo di Roméo, distante dal suo repertorio d’elezione – principalmente rossiniano e donizettiano – la cui tessitura è forse un po’ troppo pesante e non gli permette il fine uso dei chiaroscuri che tanto lo contraddistingue. Il tenore messinese, elegante nella linea di canto e saldo negli acuti, dà buona prova di sé stesso, ma senza eccellere e anche nel suo caso le raffinatezze dei piani e delle mezzevoci sono coperte dall’eccessivo fragore orchestrale.
Anche l’impronta drammaturgica data da Michieletto non aiuta i due protagonisti, che invece di vestire i panni dei due adolescenti shakespeariani – maturi e consapevoli delle loro scelte – si sono visti costretti a giocare con l’avventatezza e l’inconsapevolezza di due ragazzini da discoteca, che pur di non doversi dividere, si nascondono le scarpe a vicenda.
La bella voce e l’energia di Massimiliano Gagliardo nei panni di Mercutio contribuiscono a rendere particolarmente vivace lo spettacolo, soprattutto nella ballata della regina di Mab, pur dovendosi cimentare in una tremenda lotta con i sacchi del pattume che gli costa la vita. Poco prima del duello Elena Belfiore intona correttamente la serenata di Stéphano, immedesimandosi in un graffitaro impudente. Frère Laurent è il bravo Giovanni Battista Parodi, che pare un sacerdote in visita a un ricovero di senzatetto.
Tutti gli interpreti sono dotati di buone qualità, purtroppo non evidenziate da una regia ed una direzione discutibili. Completano il cast Hans Ever Mogollon, Chiara Fracasso, Dax Velenich, Armando Badia, Giuliano Pelizon e gli efficacissimi ed imponenti Nicolò Ceriani e Manrico Signorini nei panni di Capuleti e del Duca di Verona.
IDOMENEO [Lukas Franceschini] Bologna, 23 febbraio 2010.
Mozart compone la sua grande opera seria “Idomeneo” nel 1781 su in carico del Grande Elettore Karl Theodor per il teatro di Monaco di Baviera. Il soggetto, scelto dallo stesso principe e commissionato all’abate Varesco, pur rifacendosi a un dramma mitologico, dal risolto fiabesco, risulta spesso profusamente retorico e si rifà completamente alla scuola metastasiana.
La parte musicale subì pesanti ritocchi ancora in fase di allestimento soprattutto nella parte del protagonista: Mozart dovette piegarsi alle esigenze di Anton Raaf, celeberrimo cantante, ma nell’incontro con Idomeneo in netto declino. L’opera ebbe un successo di stima, o meglio venne apprezzata dai musicisti poco dal pubblico e le recite furono solamente due. In quest’opera Mozart iscrisse alcune rivoluzionarie novità drammaturgiche e musicali. Innanzitutto trasformò i recitativi accompagnati in un vero dialogo musicale, ampliò l’impianto orchestrale in base all’esperienza di Mannheimer, dove fece conoscenza della prima orchestra d’Europa per la perfezione del suono, cosicché l’arte orchestrale trova un’importanza primaria soprattutto nelle parti d’assieme e nelle parti non cantate. Inoltre, la musica oltre all’innovazione è straordinariamente luminosa, ricca per non dire della raffinatezza. Lo spettacolo di Bologna era coprodotto con Torino, e l’interesse era centrato sulla figura di Davide Livermore, regista mai triviale. La lettura altamente multiforme, più incentrata sull’enfasi della ricerca filosofica tra gli elementi che nel caratterizzare i personaggi. La vicenda è ambientata nel fondo del mare, il mare è elemento fondamentale nell’opera, con dei piccoli oggetti di puro richiamo al classicismo e non solo, la televisione e l’automobile, come a voler sottintendere che il mito è atemporale, pertanto ci troviamo in un non tempo, ma dove comuni esperienze umane combattono per il trionfo del bene senza tralasciare le debolezze. Guarderemo a questa regia con attenta precisione soprattutto nel finale secondo quando viene mostrato un occhio gigantesco che forse rappresenta il male inconscio che v’è in ognuno, oppure quella mano di Idomeneo che scaraventa con ferocia i pezzi di una Creta distrutta. Molti altri elementi con vaghe intuizioni e stranezze assecondano una scena, peraltro bellissima, ma si staccano in generale dalla drammaturgia del testo. Operazione tutt’altro che deludente, ma avremo preferito qualche accento più preciso e determinato. Vagamente anonimi i costumi. La bacchetta di Michele Mariotti mi ha in parte deluso, certo egli e attento e preciso, non mancando neppure un ragguardevole stile, ma quello che in particolare mi ha lasciato perplesso era un suono secco e talvolta sfibrato, nonché un accompagnamento “strappato” senza linea di continuità e decisamente poco sonoro, non si comprendono inoltre i numerosi e scellerati tagli adoperati. Considerando le peculiarità del giovane direttore forse è stato un approccio mozartiano non sufficientemente messo a fuoco, augurandoci in futuro altri traguardi. Della compagnia di canto purtroppo dobbiamo registrare che solo Francesco Meli rispondeva almeno in parte alle esigenze musicali stilistiche del ruolo. Apprezzato il timbro bellissimo, orami risaputo, ho trovato il giovane tenore molto migliorato nel fraseggio, nell’accento e soprattutto nei colori, è sua abitudine cantare sempre “aperto” ma in questa occasione lo ha fatto meno del solito, inoltre, ha eseguito il temibile “Fuor del mar” nella versione più impegnativa con apprezzabili risultati anche se messo a dura prova, da non sottovalutare l’impegno nel cesellare il recitativo. Giuseppina Bridelli interpreta un Idamante soprano! Non si comprende né la filologia né l’opportunità considerato poi che è soprano corto e di misura, seppure musicale ma carente d’ampiezza. Più incisiva l’Elettra di Angeles Blancas Gulin, almeno per temperamento, il materiale vocale è seducente nel timbro ma disordinato tecnicamente, il che le permette di superare sufficientemente la prima aria, di essere in palese difficoltà nella seconda e di fallire nella celebre “D’Oreste, d’Ajace”.Anche Barbara Bargnesi non brilla certo di luce propria, è un soprano educato ma dalla voce flebile e petulante oltre che inespressiva, esegue le sue due bellissime arie senza mordente e colore, le quali passano inosservate, annoiando pure. Discreta la prova di Andrea Sala quale Arbace, seppur con parte pesantemente soppressa, buoni gli altri elementi di contorno. Orchestra leggermente sbiadita rispetto al solito elevato standard e Coro all’altezza del compito. Successo di misura con qualche isolato dissenso alla Gulin e particolari apprezzamenti per Meli.
SOGNO DI UNA NOTTER DI MEZZA ESTATE [Lukas Franceschini] Parma, 25 febbraio 2010.
Il secondo titolo della stagione Lirica del Regio di Parma prevedeva l’esecuzione di “Ein Sommernachtstraum” di Felix Mendelssohn-Bartholdy che propriamente non si tratta di un’opera, ma che inserita nel contesto teatro musica ne fa un tipo di spettacolo particolare molto in voga nella prima metà del XIX secolo proprio nei teatri d’opera.
Le musiche di scena del Sogno furono composte da Mendelssohn per Federico Guglielmo IV di Prussia in occasione della rappresentazione del lavoro shakespeariano al palazzo di Potsdam nel 1843. La composizione si ascrive nel pieno della maturità artistica, anche se l’Overture risale al periodo adolescenziale, tale capolavoro appartiene a un genere del tutto particolare della musica romantica, appunto quello delle musiche di scena scritte per il teatro drammatico. Un genere ibrido imparentato spesso con la musica sinfonica dalla quale si distingue e differenzia per forma. Altri fortunati lavori legati a questa prassi sono ad esempio Egmont-Beethoven e Manfred-Schumann. Nel nostro caso il compositore ci offre una delle più preziose partiture romantiche ottocentesche per quell’aurea fiabesca, aerea, della pièce shakespeariana. Ogni episodio musicale è marcato da un segno espressivo molto forte e segue uno schema musicale autonomo anche perché intervallato dalla recitazione, mentre l’orchestrazione è sobria ed efficace. La partitura riesce a restituire musicalmente la natura composita del testo nel quale confluiscono fonti assai eterogenee (leggende popolari, Ovidio, Boccaccio). Oggi sarebbe improponibile allestire una rappresentazione del Sogno in forma integrale come si usava nell’800, tra poema e musica la durata sarebbe quasi di quattro ore (senza intervalli). Pertanto si è dovuto optare per una riduzione del testo affiancandolo alla musica, e come scriveva Guido Salvetti, prima ancora di scegliere “come eseguire” la partitura del Sogno il direttore deve decidere “cosa eseguire”. Problematica non effimera. A Parma la collaborazione con il Teatro Due ha prodotto un lavoro di altissima levatura, Temirkanov e le Moli hanno optato per uno spettacolo di efficacia musical-teatrale e rispettoso filologicamente ma selezionando quanto di meglio era possibile assimilare per circa 110 minuti. L’esecuzione musicale era quasi integrale e la bacchetta del direttore russo ha rianimato l’Orchestra del Regio in una performance di delicata e toccante precisione, regalandoci lo splendore del romanticismo orchestrale di cui è autentico concertatore. Pregevoli gli interventi del coro e delle due voci soliste. La principale sorpresa di questo spettacolo arrivava dalla strepitosa compagnia del Teatro Due, la quale pur nella sintesi di una trama complessa e prolissa si prodigava in una recitazione brillante, fantasiosa e di gusto. Tutti sul palcoscenico con buca dell’orchestra rialzata adoperata dagli attori, la scena scarna essenziale di classe di Tiziano Santi si collocava perfettamente nel clima neoclassico, e i bizzarri e cromatici costumi di Gianluca Falaschi completavano un quadro cui gode un meritato apprezzamento. Tra la folta schiera degli attori primeggiava il Puck di Luca Nucera, autentico folletto punk, ma l’intera affiatata compagnia entusiasmava piacevolmente. Una particolare menzione al regista che nel contenuto spazio del teatro ha creato un’azione efficace e un ritmo incalzante nel gioco teatrale che si regge sulla bellissima traduzione di Luca Fontana che pur in sintesi raccoglie tutto l’essenziale del testo di Shakespeare. Accoglienze entusiastiche al termine.
DA UNA CASA DI MORTI [Lukas Franceschini] Milano, 2 marzo 2010.
Il Teatro alla Scala proponendo nell’attuale stagione lirica “Da una casa di morti” di Leoš Janácek ha avuto coraggio ma soprattutto ha realizzato una delle migliori messinscene degli ultimi anni. L’opera apparve nella Sala del Piermarini solo una volta, nel 1966 nella versione italiana, oggi invece e giustamente è proposta nella lingua originale e in un memorabile spettacolo che ha già debuttato nell’estate del 2007 al Festival di Aix-en-Provence.
L’ultima opera del compositore moravo è singolare e vanta peculiarità non indifferenti. Innanzitutto Janácek completa i primi due atti ma non riesce a completare in “bella copia” la stesura del terzo, morirà nel 1928. L’opera verrà rappresentata postuma il 12 aprile 1930 a Brno ma sia il direttore, sia il regista cui va ad aggiungersi il compositore Osvald Chlubna, decisero di intraprendere una revisione: approntando una nuova stesura del libretto, rimpolpando l’orchestrazione e scelleratamente cambiando il finale in una specie di “happy end” ottimistico in sostituzione di quello ideato dall’autore, più desolante e crudo. In questa versione venne rappresentata in varie località tedesche per poi essere bandita con l’avvento del nazismo. Fu ripresa Praga nel 1958, nella cui occasione il direttore Jaroslav Vogel cercava di ripristinare le intenzioni originali di Janácek, iniziando così un cammino di crescente fortuna pur non diventando mai opera di repertorio. Molti anni prima Luigi Illica propose il soggetto a Giacomo Puccini, il quale lo rifiutò convinto delle difficoltà per l’adattamento scenico e della stesura del libretto. L’opera è tratta dal romanzo di Fëdor Dostoevskij “Memorie da una casa di morti” (1861-62) da cui il compositore utilizza il testo rielaborato quale libretto. È doverosa una precisazione: Dostoevskij fu realmente imprigionato in Siberia per motivi politici e questo suo romanzo è la testimonianza “alleggerita” di quel periodo perché scrivendo sulla società zarista non si poté esprimere liberamente per ragioni di censura e non solo. Considerando che al tempo la società Russa era impostata ancora su fasce sociali dove i “servi della gleba” non avevano dignità né umana né giuridica e si praticava la deportazione, le spaventose condizioni esistenziali e i sadismi polizieschi furono mascherati con una visione patetica e remissiva dei detenuti. Lo scritto, oggi introvabile nella traduzione italiana, resta comunque un’impressionante testimonianza di vita da internati e un documento letterario di grande impatto psicologico sull’umana dignità. Janácek, che nella sua carriera di operista ha sempre prediletto testi ove si affrontavano le vicende dei “diversi” dei “deboli”, ha voluto porre un accento sia narrativo sia musicale in questa sua ultima opera di strepitosa importanza. Non vi è nessun protagonista: forse si potrebbe definire opera d’insieme dove i personaggi vengono messi in luce illustrando le loro condizioni e i motivi della loro condanna. Inoltre, lo stesso compositore sul frontespizio scrive In ogni creatura c’è una scintilla divina chiara compassione umana nei confronti dei detenuti e condanna del carcere duro inteso come unica ed efferata punizione. La musica è forte, profonda e truce e si scansa dal linguaggio sinfonico, l’affresco di sonorità acute e gravi è perfettamente plausibile con il tema sinistro dell’opera. Le tematiche musicale non si sviluppano, sono piuttosto un insieme di frammenti diversificati ma in perfetta simbiosi. Il primo e il terzo atto caratterizzati da una cupa atmosfera di disperazione si contrappongo e sono simmetrici al secondo che con la pantomima da uno spirito di vita illusoria ai carcerati. Patrice Chérau realizza una delle sue migliori produzioni, svincolandosi da una collocazione precisa, rendendo tutto particolarmente cupo e claustrofobico, ogni gesto, ogni azione rende perfettamente il clima di terrore, inerzia e abbandono della prigione, dove solo nel volo finale dell’aquila si intravede un vano barlume irrisorio di speranza. alt Peduzzi asseconda il regista con un’impostazione scenica grigia e parzialmente movente di forte impatto glaciale, cui contribuiscono i significativi costumi di diverse epoche di Caroline De Vivaise e le strepitose luci di Couderc alle quali spettano il compito di porre accenti drammatici di raffinata teatralità. Coro ed Orchestra in strepitosa serata di grazia raggiungono vette eclatanti se guidati da un direttore come Salonen, preciso, trascinante, talvolta violento ma sempre entro la concezione teatrale della partitura. Della folta schiera di personaggi si deve segnale la brillante prova di Peter Mattei, Stefan Margita e Willard White, i quali assieme a tutti gli altri hanno dato prova di essere autentici eclettici cantanti-attori, anche nelle piccole parti, Hienz Zednik ne è mirabile esempio. Pubblico molto partecipe ed attento che alla fine ha decretato un autentico trionfo.
LA VERA COSTANZA [William Fratti] Reggio Emilia, 5 marzo 2010.
Nel bicentenario della morte di Franz Joseph Haydn, il XXXIX Concorso Internazionale per cantanti Toti Dal Monte, indetto nel 2009, ha voluto omaggiare il celebre compositore austriaco, caro amico di Wolfgang Amadeus Mozart ed insegnante di Ludwig van Beethoven, con la partecipazione dei vincitori della competizione alla messa in scena de La vera costanza.
Lo spettacolo, coprodotto da Teatro Real di Madrid, Teatro Comunale di Treviso, Ópera di St. Etienne, Opéra Royal de Wallonie di Liegi, Ópera de Rouen Haute-Normandie, Teatro Nacional de Sofía, I Teatri di Reggio Emilia, è firmato da Elio De Capitani, che riesce a rendere omogenea una vicenda raccontata attraverso un libretto frastagliato e poco coerente. Il regista bergamasco dirige precisamente, minuziosamente, con maestria ed efficacia i giovani interpreti, creando un’atmosfera divertente e a tratti intrisa di drammaticità, coadiuvato dalle scene di Carlo Sala, semplici ma suggestive, perfettamente in accordo e utili all’economia dell’opera. I bei costumi di Ferdinando Bruni sono particolarmente spinti verso la caratterizzazione dei personaggi, dove i più semplici sono indossati da Rosina, dal fratello Masino e dai pescatori, i più divertenti da Lisetta e Villotto, il più freddo – con tinte nero e argento – dal Conte Errico, fino ad arrivare al viscido Ernesto – quasi una caricatura di Nosferatu e del Conte Dracula – e alla fantasiosa Baronessa Irene, che in primo atto veste un abito blu scuro con una fascia di tulle a ricordare le increspature delle onde del mare e un corpetto ricamato con conchiglie, mentre la gonna del vestito di secondo atto è arricchita dalla pelliccia di alcune volpi grigie. Federica Carnevale possiede la vocalità calda e brunita tipica del mezzosoprano barocco e rossiniano, oltre a doti recitative che le permettono di rendere particolarmente drammatico il personaggio di Rosina, seppur inserito nel contesto di un dramma giocoso. Decisamente intensa è la sua interpretazione durante la lunga scena in cui decide di partire col figlioletto e al termine dell’aria “Eccomi giunta al colmo… Care spiagge, selve, addio” è accolta dal pubblico con un caloroso applauso. La protagonista è affiancata da Anicio Zorzi Giustiniani, giovane tenore fiorentino, già interprete di numerosi ruoli barocchi, che con La vera costanza ha potuto consolidare la propria carriera internazionale. La voce è dotata di un timbro lirico leggero suadente, seppur leggermente acerbo e la parte è sostenuta diligentemente, mancando soltanto di una maggiore esperienza. Arianna Donadelli è una Lisetta simpatica e sbarazzina, maliziosa al punto giusto, abile nelle agilità e deliziosa nel canto spianato, sebbene la voce sia piccola. Il suo personaggio divide le scene comiche con Villotto, “ricco ma sciocco”, interpretato magnificamente da Gianluca Margheri, al quale si possono perdonare certi passaggi musicali poco puliti, visto il suo impegno complesso, ma ben riuscito, nella resa delle parti buffe. Cosimo Panozzo, nel ruolo di Ernesto, conclude la rosa dei vincitori del Concorso Toti Dal Monte, affiancati dal soprano spagnolo Susana Cordon, una Baronessa elegante e vocalmente adeguata, e dal baritono Elier Munoz, nei panni di un efficace Masino. La direzione di José Antonio Montano, sul podio dell’Orquesta-Escuela de la Sinfonica de Madrid, è salutata con scroscianti e meritati applausi.
DIDO AND AENEAS [Lukas Franceschini] Venezia, 18 marzo 2010.
Il dittico rappresentato alla Fenice di Venezia è piuttosto singolare, infatti, abbinare Maderna e Purcell musicalmente è quasi paradossale, logico invece è rendere omaggio al musicista veneziano il quale, compositore d’avanguardia, si riconosceva nel concetto dell’universalità della musica sia antica sia moderna, proponendo nel lontano 1963 alla Piccola Scala la prima esecuzione dell’opera di Purcell nel Teatro Milanese.
Bruno Maderna, enfant prodige, allievo di Gian Francesco Malipiero ed Hermann Scherchen nonché compagno di studi di Luigi Nono, fu il primo in Italia ad accostarsi al serialismo postweberniano equiparandolo in forme di sperimentazione e manifestando un’attrazione musicale sia per i classici, Monteverdi in primis, sia per la musica moderna senza dogmatismi. Le Rire (il riso) è un brano elettronico, più volte manipolato dall’autore, doveva essere sottotitolato “ritratto di Marino Zuccheri” illustre musicologo. Il brano si articola in due fasi: nella prima si percepiscono rumori di passi, lo scroscio dell’acqua e frammenti di voci, nella parte conclusiva la veloce successione primaria prende una forma più fluida trovando una linearità di dissolvenza. La prima esecuzione documentata de Le Rire fu a Berlino nel 1964, oggi a Venezia viene presentato abbinato ad una stupefacente coreografia curata da Saburo Teshigawara, in prima esecuzione assoluta, che con la sua Compagnia Karas esplora il linguaggio del corpo abbinato alla musica, ricercando in pochi elementi, bocca, corpo, lingua, nella singolare espressione della danza sull’effetto di suoni rapidi e violenti. Indubbiamente un insieme di grande pregio e “novità” di un linguaggio certamente non comune né frequente, che lo scrivente mai avrebbe immaginato suscitare nel pubblico veneziano contestazioni scurrili durante l’esecuzione, pur ricevendo un caloroso applauso al termine probabilmente più rivolto alla strepitosa compagnia di danza. La seconda parte della serata prevedeva l’esecuzione di Dido and Aeneas regia e coreografia ancora del maestro giapponese. Opera tra le più “misteriose” in quanto non esiste la partitura autografa e considerato che una parte presumibilmente è andata perduta è prassi fare delle aggiunte musicali tratte da altre composizioni di Purcell. L’opera, che si ispira alla tragica storia della regina di Cartagine, fu composta per l’aristocratico collegio femminile di Chelsea ed è quanto meno attendibile che l’esecuzione avvenne nel 1689. Dido tradisce un peculiare legame con il genere masque data la presenza sostanziale di cori e danze nonché di personaggi sia allegorici sia reali, vi sono inoltre influenze dalla tragedie en musique ispirata a Lully, che al tempo era molto in voga in Inghilterra. Nonostante le ridotte dimensioni e lo scarno ed essenziale racconto, Purcell raggiunge un’unità drammatico-musicale con risultati sospendenti che racchiudono in se il carattere e la condizione dei personaggi cui vanno aggiunti gli accenti di straordinaria intensità nei recitativi. Sul podio una bacchetta come quella di Cremonesi è garanzia di stile e conoscenza barocca certa. Egli integra la partitura, che si rifà ad una versione del 1750 circa, con piccoli e significativi pezzi da opere di Purcell o composizioni personali che non nocciono ma non focalizzano ulteriormente la drammaturgia, si apprezza comunque lo stile e sicuramente le intenzioni, che vengo rese ancor meglio dall’accurata concertazione, seppur in taluni momenti caratterizzata da una particolare lentezza ma egualmente ascrivibile allo stile barocco. Tra gli interpreti primeggiava la protagonista Ann Hellenberg mezzosoprano di seducente e pastosa vocalità, perfetto lo stile musicale e ancor più la resa interpretativa. Al suo fianco il corretto e musicale Enea di Marlin Miller seppur non gran fraseggiatore e la buona Belinda di Maria Grazia Schiavo. Di livello inferiore Orina Kurtshi, voce aspra e monotona, e Julianne Young la quale presentava difetti d’intonazione. Discreti gli altri cantanti che completavano il cast. Ottimo l’apporto sia del coro sia della folta schiera di musicisti al continuo. Il regista giapponese sviluppa la vicenda in una scena astratta circondata da una serie di pannelli ove si proiettano luci ed ombre, ma è soprattutto attraverso il linguaggio del corpo che imposta la sua drammaturgia coadiuvato dalla compagnia di danzatori Karas che perfettamente e in sincronia si inseriscono nella recitazione statica ma intimista dei cantanti, ottenendo un particolare d’assieme di grande effetto teatrale come la morte di Didone, avvolta in un “volo” di braccia degli spiriti. Il pubblico al termine decreta un caloroso successo.
ROMÉO ET JULIETTE [Lukas Franceschini] Verona, 23 marzo 2010.
L’opera di Charles Gounod Romeo et Juliette, nella coproduzione teatrale tra le Fondazioni del nord-est, arriva quale ultima tappa a Verona. Si esegue l’ultima versione del 1888 con la soppressione del balletto che in questa occasione sarebbe stato sfizioso eseguire considerando che la Fondazione Arena ha nel suo organico anche un Corpo di Ballo. La vicenda degli sfortunati amanti veronesi, tratta dall’omonimo dramma di William Shakespeare, colpì il compositore ancora nel lontano 1842 quanto a Roma assistette alla Sinfonia drammatica di Berlioz. Il progetto venne poi accantonato per essere ripreso circa venticinque anni dopo. La prima assoluta avvenne nel 1867 al Théâtre Lyrique di Parigi diretto allora dal marito di Madame Miolan-Carvalho la quale, prima interprete del ruolo di Giulietta, fu una delle maggiori cantanti francesi che univa ad una splendida voce di soprano lirico le agilità di un soprano di coloratura con fraseggio vario ed elegante, fu per lei che Gounod compose il celebre valzer dell’atto I. Dopo il trionfo iniziale l’opera fu rimaneggiata per essere rappresentata all’Opera Comique (1873), dunque con recitativi parlati, e sempre trionfando venne proposta nel massimo teatro parigino, ovvero l’Opera Garnier, nel 1888 con una nuova stesura e il balletto, elemento imprescindibile nella prassi francese dell’800. L’allestimento giunto ora a Verona, con la regia di Damiano Michieletto, le scene di Paolo Fantin e i costumi di Carla Teti, è stato contestato sia a Venezia sia a Trieste mentre in quest’occasione ha ricevuto entusiastici consensi, anche se qualche disappunto si poteva captare dal pubblico durante gli intervalli. Si tratta invece di un bellissimo allestimento colmo di inventiva e poesia che però si scosta dallo stereotipo medievale senza nulla togliere alla drammaturgia e al soggetto. Infatti, Romeo e Giulietta, come scrive il regista nel programma di sala, non ha bisogno di presentazioni semmai necessita di interpretazione. Egli aggiornando la vicenda ai giorni nostri trova una chiave di lettura efficace e coinvolgente rappresentata da un simbolo universale il giradischi, emblema dell’età giovanile, sul quale si sviluppa tutta vicenda, dalla discoteca della festa del primo atto, dal balcone rappresentato dalla puntina, dalle cuffie che era il letto, al quartiere periferico dove agisce frate Lorenzo, alla tomba. La dicitura “Printemps” chiude l’opera sottolineando che questi giovani ragazzi hanno vissuto solo la primavera della loro vita, una primavera esaltante, seppur nel tragico finale. Sul versante musicale Carlo Montanaro tiene le fila con modestia risultando spesso eccessivo nelle sonorità, ma anche capace di uno spessore romantico di buona qualità. Il coro non propriamente sempre puntuale si adagia su una banale routine. Nel cast spicca la presenza di Maria Alejandres, soprano lirico di ampia voce che non è propriamente sciolta nel valzer, ma emerge notevolmente nei duetti e soprattutto nella grande aria del veleno. Paolo Fanale si fa apprezzare per una voce seducente, pastosa e un ottimo fraseggio, peccato la zona acuta non sia particolarmente rifinita ma considerata la giovane età speriamo in un continuo miglioramento. Massimo Gagliardo è uno spavaldo Mercutio e nella ballata mette a segno una brillante esecuzione, come la musicale Elena Belfiore nella canzone della Tortorella. Buone le parti di fianco in cui spiccano il poderoso frate di Luca Dall’Amico, la Gertrude di Floriana Sovilla e il Benvolio di Salvatore Schiano di Cola. La regia era ripresa da Roberto Maria Pizzuto, il quale pur attenendosi all’originale elimina lo stupro della nutrice, e fa bene. Peccato constatare che il Teatro Filarmonico era semideserto, considerando la rarità dell’esecuzione e la bellezza dell’opera come la particolare locazione della città nella vicenda, comunque il pubblico presente ha tributato un caloroso successo.
TANNHÄUSER [Lukas Franceschini] Milano, 24 marzo 2010.
Il teatro alla Scala produce un nuovo allestimento con l’accoppiata Mehta-Fura dels Baus, i quali ripropongono Wagner dopo il fortunato Ring di Valencia e Firenze. Ogni qualvolta si assiste al Tannhäuser è implicito domandarsi quale versione verrà adottata. Mehta sceglie la versione cosiddetta “mista” assemblando le partiture di Parigi e Dresda.
La grande opera romantica, su testo dello stesso compositore, si ispira a due leggende medievali: le gare poetico-canore dei Minnesanger in Turingia e la leggenda popolare sugli amori di Venere e Tannhäuser. Wagner elaborò la vicenda già dal 1842 per poi arrivare alla prima nel 1845 a Dresda, ritornando più volte sullo spartito, infatti, vi sono partiture plurime che rendono impossibile identificare una versione definitiva dell’opera, lo stesso compositore confidò alla moglie il dispiacere di non aver ultimato una versione conclusiva. Possiamo oggi considerare le versioni di Dresda e Parigi le più attendibili, pur non sottovalutando le modifiche di Monaco e Vienna. La scelta di optare per la versione “mista” rende l’opera musicalmente serata nell’unità con scene articolate, anche se chi scrive preferisce la versione francese. Nel caso odierno la parte di Venere è ampiamente mutata, l’overture è un continuo con l’inizio dell’atto I a cui manca ovviamente il baccanale. Una giustificata ed oserei affermare doverosa nota di regia nel programma di sala fanno comprendere le linee ispiratrici di uno spettacolo di per sé complicato e fantasioso come del resto tutti gli allestimenti del Fura dels Baus. Eccezionale l’idea della mano gigantesca e sempre presente in scena, che segna il destino dell’uomo, Tannhäuser è visto sempre il bilico tra il Venusberg e la Wartburg, che generalizzando in una concezione puritana potrebbe essere il male e il bene dove il conflitto interiore dell’uomo di religione cristiana è “diviso” tra lo spirito e l’istinto. Troviamo tre atti resi magnificamente dal Fura, nell’onirico e trasgressivo Venusberg la seducente venere è attorniata da ancelle procaci e la proiezione di un’orgia fantasmagorica segna un passo di indubbio compiacimento a cui rendono viva memoria coreografie appropriate. Nel Wartburg l’ispirazione è indiana, terra di usanze, credenze e religioni molteplici ove la spiritualità occupa un piano d’eccellenza nella vita sociale. Ecco dunque i cromatismi abbaglianti dei costumi con il bizzarro e divertente balletto all’entrata dei cantori, ispirandosi alla versione francese. Nel terzo atto, il più statico, si apprezzano le bellissime luci nella notturna cantata di Wolfram e lo “sboccio” floreale sui bastoni dei pellegrini non particolarmente messa a fuoco ma sono di grande fascino i due scivoli che raccolgono le lacrime di Elisabeth formando il lago della redenzione del protagonista. Tutto sommato un Tannhäuser molto coreografico e colorato di assoluto impatto visivo ma carente registicamente di una lettura scavata nel gesto e negli stati d’animo dei protagonisti. La direzione di Zubin Mehta è stata equilibrata e maestosa, scrupolosa nel particolare, dal suono ammaliante, con grande musicalità ed incisiva tensione drammatica. Il versante canoro poneva in primo piano la stupenda Elisabeth di Anja Harteros, voce raggiante e calda dal timbro seducente e dotata di una non comune intensità poetica. Georg Zappenfield crea un personaggio imponente ma umano a cui va aggiunto un fraseggio autorevole reso da una voce salda e vibrante, viceversa Roman Terkel seduce più per un eloquente fraseggio che per il timbro, ma è morbido nel canto e ricercato negli accenti soprattutto nella lunare aria del III atto. Qualche gradino sotto Robert Dean Smith al quale va riconosciuto il massimo impegno per i mezzi a sua disposizione, non è certo un heldtenor ma regge alla difficile parte fino in fondo, pur con parecchi patteggiamenti, ma bisogna considerare che nel panorama canoro non vi siano a disposizione molti Lauritz Melchior. La Venere di Julia Gertseva era affascinante, ahimè, solo scenicamente! Stridula negli acuti, il centro gravemente dissestato e la sensualità vocale raggelante. Bene le parti minori ove si metteva in luce Petri Lindross. Ottimo l’apporto dell’orchestra e dei due cori. Ho assisto alla terza recita e purtroppo una parte del pubblico, seppur minoritaria, abbia contestato il direttore sia all’ingresso del III atto sia al termine, applaudendo l’intero cast, il che rende quanto mai pretestuosa la contestazione oltremodo del tutto inaccettabile.
SIMON BOCCANEGRA [William Fratti] Parma, 25 marzo 2010.
Simon Boccanegra, opera tanto amata e tanto cara al genio che l’ha creata, torna sul palcoscenico del Teatro Regio di Parma con la partecipazione di un cast di primaria eccezione, nell’allestimento firmato da Giorgio Gallione per il Teatro Comunale di Bologna nel 2007, poi messo in scena al Teatro Valli di Reggio Emilia e al Teatro Massimo di Palermo.
La scenografia semplice ed efficace disegnata da Guido Fiorato contribuisce alla funzionalità del dramma, seppur eccessivamente minimalista in secondo atto, dove si lascia troppo spazio all’immaginario, spezzando la linea evocativa, ma ben definita, delle scene precedenti, che poi è fortunatamente recuperata nel finale. L’artista genovese è autore anche dei bei costumi dai tessuti cangianti, in contrapposizione al bianco e al nero degli elementi scenici, ispirati alla moda del XIV secolo, ma sapientemente ridisegnati con uno stile personale. Lo spettacolo ripreso da Marina Bianchi sembra avere più carattere e maggiore funzionalità dell’originale, anche grazie ad un nuovo disegno luci ideato da Bruno Ciulli. Purtroppo resta illesa la breve scena del prologo in cui Simone dovrebbe rendersi conto della morte di Maria all’interno del palazzo dei Fieschi, rivisitata con la calata di un sipario nero con l’immagine bianca di un angelo della morte.
Leo Nucci veste i panni del protagonista con estrema perizia, con una linea di canto sempre omogenea, abile nei chiaroscuri, toccante nei duetti con Fiesco e Amelia, intenso nel quadro del consiglio, soprattutto nel finale. La maledizione è pronunciata con impeto ed efficacia, il cui effetto drammaturgico è ben sostenuto dal bravo Simone Piazzola nel ruolo di Paolo e dall’emozionante Coro del Teatro Regio, che si prodiga in una prova magistrale ed entusiasmante, risultando ben amalgamato e particolarmente preciso. Tamar Iveri, al secolo Tamar Javakhishvili, vincitrice del secondo premio al Concorso Internazionale per Voci Verdiane “Città di Busseto” nel 1998, possiede una voce morbida e pastosa, il cui timbro appare particolarmente adatto al ruolo di Amelia, delicata nelle pagine liriche, decisa nei passi drammatici. In “Come in quest’ora bruna” dimostra di possedere una tecnica importante, soprattutto nel passaggio, anche se non spicca per intensità emotiva, ma col procedere della vicenda la freddezza iniziale lascia lentamente il posto ad un’interpretazione maggiormente profonda e avvolgente.
Francesco Meli, al suo debutto in Gabriele Adorno, è la vera stella della serata. Già dai primi duetti con Amelia e Fiesco, ma soprattutto nel recitativo e aria “O inferno! Amelia qui!… Pietoso cielo, rendila” sa usare la tecnica e l’eleganza del belcanto per arricchire vocalmente il personaggio verdiano. È chiaro che il tenore genovese è perfettamente consapevole di tutte le sue azioni tecniche, a supporto delle indubbie doti naturali nel colore e nello squillo, risultando certamente superbo in taluni passaggi, come in “Pel cielo!” durante la scena del consiglio e nel magnifico terzetto di secondo atto “Suo padre sei tu! Perdono, Amelia”, dove l’intensità drammatica è particolarmente ingentilita da un sapiente uso di mezzevoci. Roberto Scandiuzzi è un Fiesco imponente e autorevole, in possesso di un fraseggio elegante e con una voce dal timbro armonioso e ricca di colori raffinati, ben impostata tanto nei gravi quanto negli acuti. “Il lacerato spirito” è resa con massima efficacia, ma il basso trevigiano sa mostrare le sue qualità vocali soprattutto nel duetto con Gabriele “La figlia dei Grimaldi… Vieni a me, ti benedico” e nell’ultimo incontro col doge in terzo atto “Delle faci festanti al barlume”.
Simone Piazzola, venticinquenne, giovane baritono recentemente finalista alle Voci Verdiane di Busseto, già interprete di alcuni ruoli verdiani da protagonista, come il Conte di Luna e Germont, sa dare un certo valore aggiunto alla difficile parte di Paolo Albiani, intrisa di tinte particolarmente drammatiche. Lo affianca il bravo Paolo Pecchioli nei panni di Pietro. Completano il cast Luca Casalin e Olena Kharachko. La guida dell’Orchestra del Teatro Regio di Parma è affidata ad un estremamente preciso Daniele Callegari.
IDOMENEO [William Fratti] Reggio Emilia, 26 marzo 2010.
La Stagione Lirica 2009-2010 del Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia prosegue con Idomeneo, opera sperimentale del compositore salisburghese, ricca di splendide pagine liriche e altrettanto meravigliose atmosfere tragiche, che già presagisce la genialità della trilogia dapontiana, la drammaticità di alcuni passaggi del Flauto Magico e le tinte melodiche dell’ultimo capolavoro, La Clemenza di Tito. Michele Mariotti, delicato e raffinato, alla guida dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, sa dipingere con perizia i caratteri e i sentimenti umani di cui è intrisa la partitura, dirigendo gli interpreti e i complessi artistici verso cambiamenti di colore e variazioni nelle dinamiche, in modo da evidenziare l’eterogeneità delle situazioni e rispettare la musicalità mozartiana. Al termine del secondo atto il direttore urbinate si spinge lentamente verso il tragico finale, prima con il magnifico terzetto tra Idomeneo, Idamante ed Elettra, poi con la terribile scena della tempesta e l’apparizione del mostro, che sembra anticipare di oltre un secolo l’uragano dell’Otello di Verdi.
Jason Collins veste con disinvoltura i panni del re cretese, convincente nell’interpretazione ed in possesso di una vocalità adeguata, anche se talvolta macchiata da un leggero accento anglosassone. Giuseppina Bridelli è un Idamante giustamente maschile nell’esibizione, musicalmente gradevole e ben preparata, seppur non in possesso di una voce particolarmente scura e dal timbro mezzosopranile. È affiancata dalla Ilia di Barbara Bargnesi, elegante e lirica nella linea di canto, ulteriormente ingentilita da pianissimi misurati e correttamente impostati, anche se non spicca per brillantezza ed espressività. Valentina Corradetti si cala nel ruolo di Elettra con impeto e sicurezza, eseguendo i passaggi drammatici con particolare vigore, soprattutto nella violenta sortita “Oh smania! Oh furie!… D’Oreste, d’Aiace”. Forse l’intonazione non è perfetta e certi punti non sono del tutto puliti, ma la vocalità piena e rotonda, unita ad un colore imponente, permettono di perdonare le mancanze tecniche, con l’augurio che siano colmate al più presto. Enea Scala è un Arbace discreto nell’interpretazione e abile nelle agilità di “Se colà ne’ fati è scritto”. Concludono il cast Paolo Cauteruccio nei panni del Gran Sacerdote di Nettuno e la Voce di Sandro Pucci. L’allestimento del Teatro Regio di Torino e del Teatro Comunale di Bologna, coprodotto con il Teatro Valli di Reggio Emilia, il Teatro Comunale di Modena, il Teatro Comunale di Ferrara e il Teatro Alighieri di Ravenna, è firmato da Davide Livermore, che sceglie di scostarsi da un’ambientazione realistica per rappresentare il dramma senza tempo e senza spazio, giocando soltanto su alcuni simboli. Così appaiono l’occhio e la mano di Dio e del mostro marino, ma che al tempo stesso appartengono a Idomeneo e al suo sé interiore; il talamo di Ilia e Idamante bramato da Elettra; l’automobile che dovrebbe portare Elettra e Idamante ad Argo; il faro che guida Idamante nella lotta contro la divinità; il mare, elemento scenico principe, come se l’intera vicenda si svolgesse negli abissi (dell’animo). Il lavoro toccante ed evocativo del regista torinese è avallato dal bell’impianto scenografico di Santi Centineo, dall’interessante disegno luci di Andrea Anfossi e dai costumi di Giusi Giustino, utili allo scopo, ma non particolarmente attraenti. Molto buona la prova del coro diretto da Paolo Vero, soprattutto nella cavatina “Accogli, o re del mar, i nostri voti”. Il tenore americano è apprezzato per la sua intensità soprattutto nella bellissima e temibile aria “Fuor del mar ho un mare in seno”, oltreché nel celebre quartetto “Cieli! Che vedo?… Andrò ramingo e solo… Soffrir più non si può” sapientemente accostato dai giovani de La Scuola dell’Opera Italiana di Bologna.
SIMON BOCCANEGRA [Lukas Franceschini] Parma, 30 marzo 2010.
“Il Boccanegra ha fatto a Venezia un fiasco quasi altrettanto della Traviata. Credevo d’aver fatto qualche cosa di possibile, ma pare che mi sia ingannato”. Così scriveva Giuseppe Verdi il 12 marzo 1857 alla cara amica Contessa Maffei l’indomani della prima. L’opera cadde anche poco dopo alla Scala prima di essere accantonata. Fu l’editore Giulio Ricordi nel 1880 a convincere il compositore per una revisione e Verdi, che affermò “gli ho sempre voluto bene come si vuol bene al figlio gobbo”, si persuase, ma volle ritoccare il libretto. Il felice incontro con Arrigo Boito produsse sia una nuova e più mordente drammaturgia sia la scena del Gran Consiglio. In questa nuova veste trionfò alla Scala nel 1881, cui contribuirono nel cast i nomi di Victor Maurel, Francesco Tamagno e Edoardo de Reszké. Anche Parma, come attualmente è prassi, adotta la seconda versione per allestire l’opera al Teatro Regio, sarebbe stato piu interessante nell’ambito della celebrazione verdiana ormai prossima, allestire la versione primaria dando occasione al pubblico di ascoltare una rarità considerando che oggi Simon Boccanegra è opera di repertorio. L’opera è liberamente tratta da un fatto storico e dal dramma omonimo di Antonio Garcia Gutierrez dall’opera del quale Verdi aveva già tratto Il trovatore. Il melodramma triste, come la definì Verdi, è straordinariamente moderno nell’incisiva e tetra dimensione drammatica sviluppata in un nuovo linguaggio musicale non affine alle melodie espansive della “trilogia popolare”. Il protagonista poi è probabilmente il più forte ed azzeccato personaggio realizzato, ove eccelle nella bellezza e nella dialettica della parte musicale, nonché il vigore e lo spessore drammatico. Lo spettacolo di Giorgio Gallione, con i sontuosi costumi di Guido Fiorato, era stato presentato qualche anno addietro al Comunale di Bologna ove non aveva ottenuto consensi entusiasmanti, che vengono riconfermati anche in questa occasione. Manca in generale un approfondito scavo drammatico nei personaggi e una più autorevole disposizione scenica che proprio nel finale atto I difetta di imponenza e ritualità. Sebbene misurato e tradizionale lo spettacolo non decolla seppure il prologo sia scenicamente suggestivo. La bacchetta di Daniele Callegari è precisa ed attenta, mostra doverosa perizia nei particolari ma non s’abbandona mai al lirismo poetico dei momenti più intimistici. Leo Nucci è il grande cantante che sappiamo, però il ruolo del Doge gli è mai stato congeniale neppure nella verde età. Ora che difetta spesso di suono nasale e di misurato cantabile calza ancora più stretto, non mancano le vampate del vecchio leone, ma in generale sono l’aderenza estetica e regale che latitano. Viceversa il giovane Francesco Meli sfodera un timbro dorato con particolare possibilità nel settore acuto. Peccato non vi sia accento, fraseggio, colore, il tutto è cantato aperto e forte in funzione della luminosità di una voce invidiabile. Contrariamente a Tamar Iveri la quale non possiede una voce suggestiva, ma si adopera con impegno a rendere il lirismo del personaggio, riuscendovi a volte, ma la torrenziale voce di difficile controllo la mette spesso in difficoltà. Da ascriversi nell’ordinaria esecuzione le prove di Rafal Siwek e Simone Piazzolla, quest’ultimo però più incisivo e volenteroso. Successo pieno al termine con ovazioni per il tenore.
L’ELISIR D’AMORE [Lukas Franceschini] Bologna, 1 aprile 2010.
La Fondazione del Teatro Comunale di Bologna presenta un nuovo allestimento de L’elisir d’amore, realizzato in chiave moderna, producendo uno degli spettacoli più innovativi ed interessanti dell’intera stagione. Composta in solo due settimane, sostituendo un collega inadempiente nei confronti del Teatro Carcano di Milano, Elisir è probabilmente assieme a Lucia l’opera più rappresentata di Donizetti, la quale pur ascrivendosi al genere buffo non tralascia l’aspetto larmoyante, elemento che contribuì al successo.
Mai uscita dal repertorio vi si cimentarono i più grandi cantanti e da sempre raccoglie ampie simpatie da parte del pubblico. Infatti, la sdolcinata storia d’amore tra il sempliciotto del villaggio e la finta civettuola ragazza per bene è contrastata dalla presenza di un sergente e aiutata dalle “virtù liquorose” di un dottore. Quest’ultimi sono a tutto tondo personaggi buffi che si incastrano perfettamente nel clima quasi fiabesco della vicenda. La musica leggiadra, campagnola, allegra, ad un primo ascolto potrebbe essere banale seppur gradevole, viceversa nasconde una melodia raffinata e un ritmo incalzante, dando un giusto equilibro alle scene ora romantiche, ora piu drammatiche o comiche nel giusto equilibrio di quattro prime parti con l’aggiunta di un coro non secondario. La proposta del Comunale bolognese è realizzata da Rosetta Cucchi, eccellente musicista, che in questo caso mette a fuoco tutta la sua fantasia e briosità in uno spettacolo non convenzionale ma di stupefacente ingegno e brillantezza. La vicenda si svolge in una scuola d’arte di Manhattan dove Nemorino è il grullo della classe, Adina una civettuola cheerleader, Belcore il capo di un gruppo di teppisti e Dulcamara, un figlio dei fiori in sella ad una Harley-Davidson, il quale al posto di balsamici liquori… spaccia cannabis! A prima vista potrebbe essere la solita trasposizione scervellata invece la Cucchi con garbo e originalità ripercorre la tenera e bizzarra vicenda coadiuvata da un’eccellente giovane compagnia che si immedesima perfettamente nel contesto. Nulla è tralasciato al caso, e tutto funziona in uno spettacolo che ha fatto molto sorridere il pubblico, il quale poi si è dimostrato giustamente generoso di applausi. Trasportare l’epoca di un’opera come Elisir non è arbitrario, anzi, offre nuove visioni e nuove luci su una commedia che ben si adatta a tutti tempi, le situazioni son sempre simili e il ricorrere a mezzi “artificiali”, sia un filtro o una medium, è prassi comune per taluni. Sul podio ritroviamo Daniel Rustioni, il quale se nel Barbiere veneziano ci aveva particolarmente convinto, qui ci ha deluso in quanto la sua direzione pur precisa ed attenta era priva di mordente, di ritmo, di brio a scapito ovviamente di una narrazione slentata e monotona. Sul versante canoro abbiamo avuto in Juan Francisco Gatell un interprete raffinato e particolarmente spigliato scenicamente e in Anna Corvino un interessante soprano dalla voce ampia e luminosa anche se con qualche problema nel canto d’agilità. Gezim Myshketa è uno spavaldo baritono cui probabilmente il ruolo di Belcore va stretto, sarebbe più curioso ascoltarlo in Verdi, ma svolge il suo compito con precisione e puntualità, ed infine Michele Pertusi che ritorna a cantare Dulcamara, personaggio affrontato agli inizi poi accantonato, dove eccelle per gusto e compostezza senza rifuggire in caricature pedanti, leggermente appannato vocalmente all’inizio si riscatta nel corso dell’opera. Il pubblico, che esauriva il Comunale, ha decretato, un autentico successo.
LULU [Lukas Franceschini] Milano, 15 aprile 2010.
Successo travolgente alla Scala per l’opera incompiuta di Alban Berg che veniva rappresentata per la seconda volta nella versione completata da Friedrich Cehra nel 1979. Berg prese spunto per Lulu da due drammi teatrali dello scrittore Frank Wedekind, Lo spirito della Terra e Il vaso di Pandora.
Per questa sua seconda e ultima opera fa uso della tecnica dodecafonica, con soluzioni personali che non corrispondono rigorosamente ai principi originali ideati da Arnold Schoenber, il quale si rifiutò di completare il terzo atto su invito della vedova e come fecero pure Anton Webern e Alexander von Zemlinsky. Lulu è una famme fatale, tale figura fece la sua comparsa verso la fine dell’Ottocento nella letteratura, nel teatro in altre arti, divenne così donna seduttrice dal temperamento sconvolgentemente vitale e sottomesso al piacere sensuale. Ogni uomo che giunge in contatto con lei la chiama in maniera differente ed ella accetta di essere tutte e nessuna. Donna che domina gli uomini, ma nell’epilogo ne sarà vittima, totalmente emancipata e altrettanto interamente dominata senza alcuna concezione dell’amore anche se la sua natura è quella di amare, languida e glaciale ed infine prostituta senza avvenire trucidata da Jack lo Squartatore. Il contorno delinea l’ipocrisia della società borghese, regolamentata dai pregiudizi sessuali ma che si attiene ai moralismi di facciata, anche se bisogna registrare che il vivo e lampante erotismo della protagonista è forza primaria e dominante sull’uomo ancora relegato a debolezze e paure. Lulu è uno strumento del male per taluni, del destino per altri, chi si lega a lei riesce a “svincolarsi” solo morendo, ma forse in fondo Lulu è lei stessa vittima, così l’ha voluta il destino all’inizio del dramma nel vortice di passioni e vicende, vittima alla fine quando è trucidata. Spettacolo memorabile quello di Peter Stein ove non ci sono particolari sorprese, ma tutto si muove entro i canoni di una perfetta recitazione, talvolta dosata anche di sagace umanità, cui contribuiscono le formidabili scene di Ferinand Wogerbauer, particolarmente suggestiva la scena prima del II atto e la soffitta londinese, cui vanno ad aggiungersi gli originali e bellissimi costumi di Moidele Bickel. Daniele Gatti trova in questo repertorio corde ed analisi stupefacenti: lettura severa, limpidezza strumentale e vibrante cui va ad aggiungersi la maiuscola prova dell’Orchestra Scaligera. Laura Aikin era scenicamente una perfetta protagonista, vocalmente ancor meglio se considerata la lunghezza della parte e la complessa e acuta partitura. Il livello della locandina era di molto superiore alla media, come raramente accade, a cominciare dal bravissimo Thomas Piffka, alla sensuale Natasha Petrinsky, all’impeccabile Stephen West e al puntale Franz Mazura. Il pubblico intervallo dopo intervallo in continua “fuga”, ma il restante, comunque ancora numeroso, prodigo di un meritato successo.
LUISA MILLER [William Fratti] Torino, 18 e 20 aprile 2010.
La Stagione d’Opera del Teatro Regio di Torino ospita uno dei titoli più belli e difficili degli anni di galera di Giuseppe Verdi, Luisa Miller, da sempre considerata uno dei melodrammi verdiani più sperimentali, accanto a Macbeth e Stiffelio, ancora legato alla tradizione della prima metà dell’800 con i numeri chiusi, le cabalette e le strette finali nei duetti, ma già precursore della maturità del compositore bussetano, soprattutto nel terzo atto.
L’allestimento interamente firmato da Denis Krief, proveniente dal Teatro Regio di Parma – dove era stato freddamente accolto nel 2007, ma senza incorrere nelle ire tremende del loggione, grazie alla partecipazione di un cast di altissimo livello – nella recita di domenica 18 aprile è passato sotto la totale indifferenza del pubblico presente in sala, mentre martedì 20 aprile forti mormorii si sono immediatamente sollevati all’apertura del sipario. Il regista franco-italiano è sempre preciso e minuzioso nelle sue scelte, nei tratti e nella gestualità, nelle posizioni e nella fotografia, ma sembra che voglia ammodernare gli spettacoli ad ogni costo, perdendo spesso la filologia e il coup de théâtre ideato dall’autore, magari volendone creare uno proprio. La scenografia ed il disegno luci in alcuni punti sono molto suggestivi, ad esempio nel duetto tra Rodolfo e Federica, oppure nel duetto tra Walter e Wurm ed il conseguente quartetto con Luisa e Federica, ancora verso il finale durante la preghiera di Luisa e l’ingresso di Rodolfo, ma per tutto il resto dell’opera si assiste semplicemente ad un palcoscenico vuoto e ad un continuo spostarsi di pareti, quinte e fondali. Da dimenticare è l’imbarazzante balletto di coristi e solisti durante la stretta “T’amo d’amor ch’esprimere”.
Anche Donato Renzetti riprende le redini del temibile melodramma, ma perde il polso e la fermezza che lo hanno contraddistinto al Festival Verdi 2007. Già dalla sinfonia il maestro abruzzese appare discontinuo, fino a mettere in difficoltà gli interpreti e la sua direzione comporta delle diversità tra una recita e l’altra, confermando disattenzione ed insicurezza, forse dovute a motivi personali avulsi dalla messinscena.
Domenica 18 aprile Fiorenza Cedolins veste i panni di Luisa, ma non riesce a consolidare lo straordinario successo di Parma. Il celebre soprano possiede sempre la bella voce che tutti conoscono, ma sembra essere molto stanca ed emaciata, tant’è che in “Lo vidi, e’l primo palpito” appare molto affaticata nel rincorrere le difficili agilità della cabaletta. Purtroppo anche l’emissione vocale non è delle migliori, è spesso coperta dal peso orchestrale ed è costretta a prendere alcuni fiati in più, ma nonostante tutto sa risparmiare le proprie energie per donare al pubblico un finale davvero commovente. La voce si scalda col procedere dell’opera, l’aria di secondo atto è resa correttamente, mentre tutto il lungo terzo atto è intenso e ben eseguito: migliorano le agilità in “La tomba è un letto sparso di fiori” ed il duetto conclusivo dell’opera è sinceramente toccante. L’augurio è che la cantante possa rimettersi al più presto per continuare a donare forti emozioni al pubblico di tutto il mondo.
Massimiliano Pisapia, promosso in primo cast alla vigilia della prova generale, è certamente apprezzabile per l’impegno ed il bel timbro vocale, ma non per la tecnica, che evidenzia dei problemi nel passaggio verso gli acuti, che in certi momenti sono indietro, altre volte tendono a chiudersi, a discapito della sonorità. Purtroppo la presenza scenica non è delle migliori, in quanto il suo Rodolfo è spesso immobile od inespressivo.
Alberto Gazale nel ruolo di Miller, accorso a Torino in sostituzione dell’indisposto Roberto Frontali, parte con timidezza. Purtroppo la voce non è limpida come suo solito e non trasmette quella bellezza di suono a cui ha abituato il pubblico che lo segue da oltre un decennio e l’impressione che se ne coglie è che “tiri indietro”. Il baritono si riscatta nel finale primo risultando più emozionante e procede verso l’ultimo atto con intenso vigore.
Orlin Anastassov è un Walter imponente, forse un po’ troppo giovanile, e dimostra di possedere ottime qualità vocali, soprattutto per ciò che concerne l’emissione e la proiezione, oltre che distinguersi per la brillantezza, pur difettando nel fraseggio e nell’uso dei chiaroscuri. L’aria di sortita “Il mio sangue, la vita darei” è resa molto bene, ma un errore nella cadenza finale purtroppo lo obbliga a tacere un verso del libretto.
È affiancato da Enrico Iori nel ruolo del secondo basso, che interpreta un Wurm giustamente autorevole e malvagio, eccellendo nel fraseggio e negli accenti, confermandosi uno dei migliori bassi verdiani nel panorama lirico italiano. La sua voce intensa e ben impostata si nota soprattutto nella lunga scena con Luisa all’inizio di secondo atto, oltre che nel successivo duetto con Walter “Egli delira… L’alto retaggio non ho bramato”, dove i due bassi danno ottima prova delle loro indiscusse qualità, risultando essere i migliori interpreti della recita.
Barbara Di Castri è dotata di una voce dal bel colore scuro, ma il registro grave è privo di sostegno ed è di conseguenza più volte appesantito in maniera eccessiva e la zona acuta appare spesso poco pulita. Il ruolo della Duchessa Federica è abbastanza breve e purtroppo si tende a credere che sia semplice, ma al contrario ha tutte le difficoltà che si possono riscontrare nei ruoli verdiani scritti per i mezzosoprani protagonisti.
Nella recita di martedì 20 aprile il ruolo di Luisa è affidato ad Alexia Voulgaridou, dotata di indubbie qualità vocali dai forti accenti e di un timbro molto interessante, ma non entusiasma nell’aria di apertura che esegue legando tutti gli staccati e i picchettati. “Tu puniscimi, o Signore” è interpretata molto bene, con la giusta intensità drammatica e un buon uso dei colori, ma è nel duetto con Miller in terzo atto che si notano certi errori tecnici, soprattutto nell’appoggio poco sostenuto degli acuti, ancor più se inseriti nel canto di agilità, dove certe note sono solamente toccate e si perdono sotto il canto dei colleghi od il peso orchestrale. Il suo punto di forza è certamente il canto spianato, dove può mettere in mostra tutta la bellezza di una voce che corre, calda e rotonda.
Francesco Demuro, nei panni di Rodolfo, ripercorre i passi del suo debutto a Parma. Dotato di una vocalità molto chiara e leggera, dal timbro particolarmente luminoso, si mostra affaticato in tutta la zona acuta, forse a causa della tessitura troppo pesante della parte. Ciò lo porta talvolta a perdere l’intonazione, soprattutto nel finale primo e nel finale ultimo, e ad un vibrato un po’ eccessivo. Ciò che lo premia sono le sue spiccate qualità interpretative e la sua generosità e durante l’aria “Quando le sere al placido” oltre ad un buon uso dei colori, risulta essere notevolmente intenso e toccante.
Il ruolo del vecchio Miller è eseguito da Sebastian Catana, che pur non possedendo una spiccata presenza scenica, sa farsi notare per la bella voce brillante e squillante, forse leggermente carente negli accenti e nei colori durante l’aria “Sacra la scelta è d’un consorte”. Ciò che è più evidente, è la sicurezza nell’intonazione e nell’impostazione e la linea di canto resta ben omogenea fino al termine dell’opera.
L’instancabile Enrico Iori si trova a dover cantare quasi tutti i giorni, vestendo anche i panni del Conte di Walter. In questo caso perde tutte le caratteristiche di crudeltà e perfidia proprie dell’altro ruolo, a favore di una forte durezza esteriore dettata dalla posizione nobiliare assunta e contrapposta ad un’umanità intrisa di sensi di colpa interiori. Il personaggio è dipinto nei minimi particolari, cui contribuiscono un buono squillo e un sapiente uso dei colori, oltre che un fraseggio elegante che impreziosisce il cantabile della prima aria.
Andrea Papi sostiene con fermezza la parte di Wurm. Dotato di una buona linea di canto e di un bel timbro vocale scuro e ombroso, si presta magnificamente a questa tipologia di ruoli verdiani e sembra perfetto il connubio con il collega Enrico Iori. Degno di nota il secondo atto, dalla scena con Luisa al duetto con Walter, fino al suggestivo quartetto.
Completano il cast Katarina Nikolic nel ruolo di Laura e Dominic Armstrong in quello del contadino.
Al termine di entrambe le recite completamente esaurite, scroscianti applausi per tutti gli interpreti.
LA CENERENTOLA [William Fratti] Reggio Emilia, 21 aprile 2010.
Il Teatro Municipale Romolo Valli di Reggio Emilia chiude la Stagione Lirica 2009-2010 con un nuovo allestimento de La Cenerentola, affidato al direttore artistico Daniele Abbado, in coproduzione con il Teatro Petruzzelli di Bari, il Teatro Lirico di Cagliari e l’Opéra de Nice.
Il regista milanese si avvale di un impianto scenico molto semplice, firmato da Gianni Carluccio, in cui un’ampia scatola teatrale grigia racchiude l’intero palcoscenico su cui è disposta una cucina in laminato giallo pallido tipica degli anni ’70, con accanto le seggiole caratteristiche dalle gambe sottili. Le pareti sono dotate di porte, finestre e passerelle a scomparsa che si aprono all’occorrenza corredate da un gioco simpatico di scale, scalette e scaloni che creano un ambiente suggestivo che passa dal vuoto al pieno, dalla cenere al lusso, con l’aiuto valido e sicuro delle luci di Guido Levi, che cambiano tonalità di continuo dal giallo all’arancio, dal rosso al rosa, dal verde all’azzurro.
Evelino Pidò dirige con precisione l’Orchestra della Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, portando con bel gesto le masse artistiche all’uso puntuale dei piani e dei forti, ma se la lettura della partitura è accurata, l’anima di Rossini è forse dimenticata e ciò si nota particolarmente nella mancanza di brio, propria dei drammi giocosi del compositore pesarese.
La giovane Josè Maria Lo Monaco, che torna a Reggio Emilia dopo l’interpretazione di Pippo ne La gazza ladra, è Angelina e dimostra di possedere le giuste qualità per diventare una grande professionista. La voce dal bel timbro caldo e omogeneo è particolarmente interessante nella zona centrale, sia nel canto spianato di “Una volta c’era un Re” che nelle terribili agilità del rondò finale; forse si dovrebbe apportare qualche miglioria a livello tecnico nella zona acuta, che talvolta non sembra essere perfettamente pulita.
Il trentenne soprano catanese è affiancato dal Don Ramiro del giovane tenore russo Maxim Mironov, regolare frequentatore dei Festival di Glyndebourne e di Pesaro, che sa farsi notare per la bella presenza scenica oltre che per una voce notevolmente limpida, che purtroppo si riesce a udire soltanto in assenza del coro e di un eccessivo peso orchestrale. Il timbro molto chiaro e leggero e la linea di canto assai morbida lo contraddistinguono come un vero tenorino di grazia, ma sfortunatamente il suono è piccolo e corre poco. I due protagonisti si amalgamano comunque molto bene ed il celebre duetto “Un soave non so che” è eseguito come si deve, soprattutto la stretta finale “Ah ci lascio proprio il core / Quell’accento, quel sembiante”.
Paolo Bordogna, dopo aver interpretato Dandini per diversi anni, si cimenta per la prima volta con il ruolo di Don Magnifico e gli calza a pennello. Il baritono milanese riesce abilmente ad abbandonare gli atteggiamenti gigioneggianti del cameriere del Principe per vestire i panni dell’autorevolmente imbarazzante patrigno, sfoggiando sicurezza nell’interpretazione e brillantezza nella vocalità fin dalla cavatina “Miei rampolli femminini”, ma sorprende per la qualità del suono ed il giusto uso dei colori, oltre che per la simpatia, soprattutto nella seconda aria “Sia qualunque delle figlie”.
Roberto De Candia è Dandini, divertente e brioso senza mai uscire dai ranghi e nel celebre duetto “Un segreto d’importanza” si esibisce accanto a Paolo Bordogna, dando entrambi una buona prova di canto rossiniano.
Nicola Ulivieri è perfettamente accomodato nel ruolo di Alidoro, in cui può sfoggiare una possente vocalità dotata di timbro scuro e buono squillo.
Le sorellastre, che vestono bei costumi di Giada Palloni, sono scenicamente ben interpretate dal mezzosoprano Alessandra Volpe e dal soprano Eleonora Cilli, che purtroppo durante i concertati mostra degli acuti non troppo puliti.
Buona la prova del coro diretto da Franco Sebastiani, che si presta anche ai difficili movimenti imposti dalla regia di Daniele Abbado e dalla coreografia di Alessandra Sini.
MANON LESCAUT [William Fratti] Piacenza, 23 aprile 2010.
Il celebre dramma di Prévost musicato da Giacomo Puccini, primo grande successo del compositore lucchese, conclude la Stagione Lirica 2009-2010 del Teatro Municipale di Piacenza, con la messinscena di uno spettacolo storico, realizzato nel 1979 al Teatro Massimo di Palermo, rivisitato da Pier Francesco Maestrini con la collaborazione di Fiorella Mariani alle scene e Davide Walker ai costumi.
L’allestimento può sembrare inizialmente polveroso, ma il rinnovo della regia lo rende ancora attuale e soprattutto suggestivo, in un mondo – quello del teatro e dell’opera lirica – dove talvolta l’eccesso di modernità rischia di allontanare gli spettatori dai valori e dalle passioni reali dei drammi messi in scena. La coproduzione con i Teatri Comunali di Modena e Ferrara avalla la scelta non solo culturale – inizialmente optata dal palcoscenico palermitano in occasione del centocinquantenario pucciniano – ma anche economica, specialmente se si tiene conto del difficile momento di crisi.
Amarilli Nizza, abile interprete dotata di spiccate doti naturali di attrice, oltre che di una voce importante e di una tecnica solida, risolve il personaggio di Manon Lescaut con estrema facilità, caricando l’esecuzione di opportuna drammaticità durante il procedere della vicenda. Pertanto appare delicata nel primo atto, più intensa nel secondo e nel terzo, fino ad essere estremamente commovente nel quarto. Una delle pagine più difficili è indubbiamente il lungo duetto “Oh, sarò la più bella”, dove i due protagonisti si lasciano andare ad una travolgente passione, cadenzata da un emozionante canto spianato, sino al finale secondo. Ma il momento più atteso è l’ultimo atto, dove Amarilli Nizza si lascia travolgere dalle sofferenze del personaggio, rese in un abile uso dei chiaroscuri e da un accentuato canto teatrale, che conducono ad una toccante “Sola, perduta, abbandonata”.
Walter Fraccaro veste i panni di un Renato Des Grieux leggermente grossolano nel personaggio e poco elegante nei modi, ma la vocalità lirica spinta dotata di squillo appiana le mancanze drammaturgiche. La prima parte è eseguita molto bene, anche se “Donna non vidi mai” passa abbastanza inosservata, ma è in secondo atto che il tenore mostra appieno la sua voce e nel finale terzo, con “No! Pazzo son!” l’intensità e l’emozione raggiungono un livello decisamente alto. L’ultima parte dell’opera lo vede affiancarsi con particolare trasporto alla morente Manon di Amarilli Nizza.
Josè Fardilha è inizialmente adeguato al ruolo di Lescaut, soprattutto in quanto ad accenti ed interpretazione, ma col procedere dell’opera si odono alcune inesattezze nel registro acuto e in certi punti sembra perdere leggermente l’intonazione. Gli è accanto il bravo Alessandro Spina, perfettamente calato nella parte del vecchio Gerente de Ravoir.
Adriano Graziani, giovane tenore promettente, apre l’opera nei panni dello studente Edmondo con voce chiara e brillante, mentre Federica Carnevale si prodiga nel madrigale “Sulla vetta tu del monte erri” mostrando una bella vocalità morbida.
Completano il cast Stefano Consolini, Roberto Carli, Roberto Franci e Stefano Cescatti, guidati dalla bacchetta di Gianluca Martinenghi sul podio dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, che dirige con dovere, purtroppo senza evidenziare particolarmente gli accenti pucciniani. Molto buona è la prova del Coro Lirico Amadeus diretto da Stefano Colò.
WERTHER [Lukas Franceschini] Parma, 27 aprile 2010.
Il capolavoro di Jules Massenet torna al Teatro Regio dopo quasi due lustri d’assenza e il principale interesse di questa produzione era il debutto del tenore Francesco Meli, il quale nell’arco di tre mesi ha aggiunto al suo repertorio ben tre ruoli di rilievo e diversa matrice vocale Idomeneo, Gabriele Adorno e Werther, che appare il più azzeccato.
Werther opera per antonomasia del repertorio francese, nonché ruolo prediletto dai più grandi tenori di grazia, per un bizzarro destino andò in scena nel 1892 all’Hofoper di Vienna in lingua tedesca. L’anno successivo apparve all’Opéra-Comique con trionfale successo ed intraprese un cammino senza soste fino a giorni nostri, raffigurandosi principalmente nel ruolo del protagonista al quale si devono ascrivere tra i più significativi cantanti del secolo scorso: Thill, Schipa e Kraus. Composta in piena epoca verista l’opera si distacca nettamente dal contesto, Massenet focalizza piuttosto una melodia spianata dalle tinte impressioniste, le quali sono a completo servizio dell’orchestrazione mentre il canto si rivela intimistico e distaccato dalle grandi pagine eclatanti del grand-opéra ottocentesco.
Come scrisse Gustavo Marchesi: Werther è un grande duetto suddiviso in dialoghi e monologhi, mentre gli altri ruoli sono ombre sottomesse di limitato spessore, sintomatico inoltre l’assenza del coro facendo eccezione per il coro dei bambini che comunque non assume cospicuo rilievo. Il carattere dei giovani amanti sono scolpiti musicalmente in maniera eclatante, lui “sognatore” presto disilluso, lei ancorata alla promessa materna e alla società benpensante. L’accento musicale, ora leggero e passionale, ora crudo e disperato, aleggia in un leitmotiv più volte ripetuto, mai casualmente, al quale va ad aggiungersi un colore luminoso spesso soggiogante.
Lo spettacolo di Marco Carniti è tendenzialmente tradizionale, le scene scarne e di poco effetto di Alessandro Chiti non aiutano certo un’introversa drammaturgia. Molto apprezzabili i costumi di Giusi Giustino ed ottime le luci di Paolo Ferrari. Carniti inizia la sua lettura figurando, durante il preludio atto I, il funerale della madre di Charlotte, scena del tutto superflua nonché banale, anche se non sottovalutiamo l’importanza della promessa di Charlotte alla madre morente di sposare Albert. Gli accenti della regia sono rivolti soprattutto al protagonista e sotto taluni aspetti non mancano di apprezzabile compiacimento, anche se spesso lasciati al caso di un cantante per nulla attore. Il regista non mette particolarmente a fuoco i personaggi minori nei loro piccoli ma significativi interventi, Sophie ed Albert, e realizza una macchietta troppo accentuata sui personaggi di Schmidt e Johann. Egli tralascia, inoltre, l’aspetto della natura che circonda tutta la vicenda, e il solo albero presente in scena (tagliato al secondo atto) non rende sul piano visivo particolari emozioni. Sul podio troviamo Michel Plasson, il quale rappresenta una garanzia in questo repertorio. Autentico cesellatore di armonie e contenuti musicali, è tuttavia rimarchevole una certa lentezza nei tempi e avaro impeto nelle pagine più concitate. L’orchestra del Regio risponde a dovere, anche se in altre occasioni l’ho trovata in miglior forma; buono il coro dei bambini istruito da Sebastiano Rolli.
Francesco Meli segna un punto importante nella sua breve ma ormai ben avviata carriera. Diversamente dai due debutti precedenti da me ascoltati ho trovato qui un’autentica partecipazione nell’interpretare, e per una volta tanto devo registrare un segno d’espressione vocale che spesso nel suo canto era assente. Inoltre, egli usa in modo appropriato le mezze voci supportate dalla splendida pasta vocale. Crea un personaggio vocale di elevata credibilità seppur di miglior collaudo scenicamente in future performance. Al contrario ho trovato Sonia Ganassi decisamente sottotono rispetto ad un’altra Charlotte ascoltata nel 1999 a Modena. La vocalità era particolarmente artificiosa ed ingolata, la tessitura, che non dovrebbe avere particolari ostacoli, era disomogenea con l’aggiunta di vistose falle tra i registri soprattutto nel grave. Serena Gamberoni interpreta una Sophie disinvolta e ben curata vocalmente, anche se la regia non le permette di esprimere tutta la sua spensieratezza ed esuberanza giovanile. Giorgio Caoduro nel ruolo di Albert si lascia sfuggire interpretativamente frasi di estrema importanza, ma la voce è bella e tornita, aspetteremo di ascoltarlo in ruoli più impegnativi. Esemplare il Borgomastro di Michel Trempont, per classe e gusto scenico, anche se il tempo passi inesorabile, e discrete gli altri personaggi di fianco. Pubblico piuttosto silenzioso durante l’esecuzione, ma alla fine prodigo di sincero successo per tutti gli interpreti, con particolari ovazioni per Meli.
WERTHER [William Fratti] Parma, 27 aprile 2010.
Il celebre dramma di Goethe musicato da Jules Massenet chiude la Stagione Lirica 2010 del Teatro Regio di Parma, con il debutto del tenore Francesco Meli nel ruolo di Werther ed il ritorno del mezzosoprano Sonia Ganassi nei panni di Charlotte, guidati dall’esperta bacchetta di Michel Plasson alla guida dei complessi artistici della città emiliana. L’allestimento proveniente dal Teatro dell’Opera Giocosa di Savona non piace al pubblico parmigiano, che boccia le scene bianche e spoglie di Alessandro Chiti nello spettacolo minimalista firmato da Marco Carniti, con una reazione prevedibile, considerato l’amore per la tradizione degli spettatori ducali. I costumi di Giusi Giustino restano nel segno della consuetudine, mentre le belle luci suggestive di Paolo Ferrari azzardano ambientazioni molto colorate, in linea con gli stati d’animo dei protagonisti, col solo peccato di alcuni passaggi di sfumatura non perfettamente puliti.
Francesco Meli debutta il difficile e lungo ruolo del giovane artista ed è un vero trionfo. Il tenore genovese, fin dalle prime frasi “Je ne sais si je veille ou si je rêve encore! Tout ce qui m’environne a l’air d’un paradis” mostra innanzitutto una grande eleganza, certamente derivante dalla preparazione belcantista, una vocalità particolarmente luminosa, che privilegia sempre la bellezza del suono, oltre ad un eccezionale controllo dei fiati e della respirazione, che gli permette di emettere dei filati e delle mezzevoci straordinarie, addirittura qualche falsetto. Il personaggio è reso molto bene, emotivamente carico di amore, di stupore e di strazio interiore nella prima parte, fino a consumarsi completamente di desiderio e passione nella seconda. L’ingresso in terzo atto ed il conseguente duetto con Charlotte è molto intenso, per terminare con “Pourquoi me réveiller”, dove la linea di canto di Francesco Meli è perfettamente morbida ed omogenea col resto della scena, mai spinta verso i forti o gli acuti naturali, con una chiara attenzione sempre alla raffinatezza e al gusto del canto, all’uso dei colori e alla bellezza di ogni singola nota. L’augurio è che questo giovane ed importante artista italiano, classe 1980, continui ad intraprendere delle scelte atte a valorizzare la straordinarietà delle sue doti naturali e della sua preparazione tecnica, senza voler inseguire delle chimere, ciò che purtroppo è accaduto a molti suoi colleghi.
Sonia Ganassi è stata Charlotte sul palcoscenico del Teatro Regio di Parma già nel 1999, accanto a Giuseppe Sabbatini nell’allestimento dell’Opera di Roma firmato da Alberto Fassini. Il mezzosoprano reggiano torna all’amato repertorio francese con l’eleganza che sempre la contraddistingue, portando sulle scene un personaggio discreto e misurato nella prima parte, per lasciarsi andare ad un ardore sempre più intenso e lancinante nel terzo atto, che si apre con la celebre aria delle lettere “Je vous écris de ma petite chambre… Des cris joyeux d’enfants”. La voce di Sonia Ganassi si fa puntualmente scura ove occorre senza mai ingrossare, alla ricerca di uno stile che sia continuamente di classe, pur avvolto dal trasporto e dal dolore di Charlotte. Il sapiente uso dei chiaroscuri l’accompagna anche nelle arie successive, prima triste e abbandonata alla sofferenza in “Va! Lasse couler mes larmes”, poi angosciata e disperata nella preghiera “ Ah! Mon courage m’abandonne!”.
I due protagonisti sono affiancati dalla Sophie di Serena Gamberoni, moglie nella vita di Francesco Meli, dotata di voce limpida e particolarmente adatta al ruolo, che risulta essere credibile e ben interpretato. Il duetto con Charlotte è eseguito con la giusta vivacità, come pure l’arietta “Ah! Le rire est béni, joyeux, léger, sonore!” in cui la vocalità del soprano si mostra perfettamente adeguata alla parte.
Giorgio Caoduro è un Albert dalla voce salda, sicura e brillante, subito manifestata nel dettino con Sophie e nella successiva aria “Elle m’aime! Elle pense à moi!”. Il personaggio è interessante e ben delineato, mai spinto verso inutili eccessi.
Accanto ai giovani protagonisti sono Michel Trempont nei panni di un efficace Borgomastro, i simpatici Nicola Pamio e Omar Montanari nei rispettivi ruoli di Schmidt e Johann, Azusa Kubo e Seung Hwa Paek in quelli di Kätchen e Brühlmann.
Michel Plasson dirige l’Orchestra del Teatro Regio di Parma con incredibile raffinatezza, donando alla partitura colori emozionanti, soprattutto in terzo e quarto atto, dove le melodie toccanti di Massenet sono eseguite con abilità e maestria, trasporto e sentimento. Un perfetto equilibrio tra la buca ed il palcoscenico contribuisce a rendere ancor più eccellente la direzione del Maestro parigino.
Molto buona è anche la prova del Coro di voci bianche del Teatro Regio di Parma guidato da Sebastiano Rolli.
IL RATTO DEL SERRAGLIO [Lukas Franceschini] Firenze, 19 maggio 2010.
Il 73° Maggio Musicale Fiorentino propone dopo otto anni il Singspiel di Mozart nell’allestimento di Eike Gramss e sempre con la direzione musicale di Zubin Mehta.
“Troppo raffinato per le nostre orecchie, e troppe note, mio caro Mozart” cosi disse l’Imperatore al compositore al termine della prima rappresentazione, il quale rispose secco e cortese “Solo quelle necessarie, Maestà!”. Il tono fiabesco di quest’opera, che molti considerano la prima opera comica in lingua tedesca che superasse la bellezza dell’opera italiana, oltre al tono esotico, molto in voga al tempo, fa perno sulle classiche tipologie di personaggi: Konstanze e Belmonte la coppia aristocratica dai sentimenti nobili, Blonde e Pedrillo la coppia di servitori coloratamente farsesca, Selim e Osmin la coppia “cattiva” anche se il Pascià avrà il ruolo del gran serioso e lungimirante saggio generoso. Su questo schema sostanzialmente banale Mozart, per la prima volta “libero” dal giogo sia del padre sia dall’Arcivescovo Collaredo, crea un capolavoro di drammaturgia e sfumature psicologiche, intessendo lo spartito di poesia ma anche di efficace comicità. Il Ratto ha la levigatezza e la cristallina qualità di una porcellana (Marchesi) e insieme una vampata di freschezza e novità di assoluto pregio, cui aderiscono in maniera perfetta ansie, timori, e meraviglie musicali di prim’ordine. Accolta con un successo travolgente venne rappresentata più volte non solo a Vienna ma anche in molte città tedesche nel solo volgere di un anno. Lo spettacolo di Gramss, seppur scarno ed essenziale, è ancora godibilissimo per la resa elegante e la vis comica cui è partecipa il simpatico coccodrillo animato da Tiziano Goli. Scene e costumi molto colorati aiutano un gioco di cromatismi che ben si affiancano alla resa del singspiel. Sul podio, come nella passata edizione, ritroviamo Zubin Mehta, che su questa partitura si è espresso sempre in maniera travolgente ancora dal 1965 quando la diresse a Salisburgo. Anche in questa occasione non è andata delusa la sua performance, tuttavia in alcuni momenti si ha l’impressione di una concezione addirittura cameristica dell’opera, la quale in talune pagine risultava troppo sminuita. Resta inalterata la zampata stilisticamente appropriata nelle scene concitate, in stile mozartiano brillante. La compagnia di canto purtroppo era il punto debole della produzione. Inutile ricordarlo ma per il Ratto ci vogliono almeno quattro fuoriclasse, e nel caso fiorentino non si andava oltre la mediocrità. Non vorrei soffermarmi sul fisique di Belmonte e Konstanze perché non sarebbe corretto, certo che il costumista avrebbe potuto rivedere in parte i costumi che indossati dai corpulenti cantanti rasentavano il ridicolo. Jorg Schneider, elegante e preciso, è tecnicamente e vocalmente molto limitato, Ingrid Kaiserfield, pur non essendo un fulmine di drammaticità, era troppo impersonale con carenze tecniche che limitavano la sua esibizione, sfasata e stridula nell’aria d’entrata, prendeva quota nel celeberrimo “Marten aller Arten” risultando purtroppo sempre sfocata negli estremi acuti e sovente stentorea. Molto meglio la coppia dei servitori, dove la Blonde di Chen Reiss, oltre a risultare la migliore della compagnia, metteva in risalto non comuni doti di cantante e attrice, ben le si affiancava il Pedrillo di Kevin Commers particolarmente azzeccato interpretativamente. Maurizio Muraro impersonava un Osmin possente vocalmente, ma con palesi lacune vocali nei registri, anche se il personaggio era reso con garbo. Karl-Heinz Macek recitava un Selim sempre irato e poco espressivo. Ottimo l’apporto sia del coro sia dell’orchestra e pubblico particolarmente festoso al termine.
DAS RHEINGOLD [Lukas Franceschini] Milano, 26 maggio 2010.
Sarà in questa occasione che alla Scala verrà realizzato l’intero ciclo Der Ring des Nibelungen con lo stesso regista e direttore? Crediamo che la risposta non possa che essere affermativa.
Le ultime due occasioni non andarono a tal fine, con Muti si alternarono registi diversi e proprio L’oro del Reno fu eseguito in forma di concerto, con Sawallisch non venne rappresentata la terza giornata, pertanto si deve risalire al 1963, con Cluytens sul podio, per trovare nella cronologia scaligera un Ring integrale. Das Rheingold è il prologo dell’intero ciclo, un edificio musicale mastodontico il maggiore creato per il teatro musicale, che prende avvio nel 1854 per poi interrompersi ed essere completato definitivamente nel 1874, due anni dopo sarà rappresentato nel suo insieme a Bayreuth. L’argomento deriva dall’Edda, una raccolta poetica del XIII secolo, e dal Nibelungenlied un poema del medioevo tedesco. Il tema conduttore dell’opera è la maledizione, inesorabile e tremenda perché lo scontro tra gli dei e i giganti cui si intersecano i nibelunghi è già fissato, e il potere cercato da ognuno, anche dalle figlie del Reno che rappresentano la natura, porterà tutti alla dissoluzione finale. Guy Cassiers, debuttante alla Scala, crea uno spettacolo interessante ma mescola forse troppi elementi in un’opera che non necessita di molte motivazioni e sotto taluni aspetti non è nemmeno innovativo. La scena, di Enrico Bagnoli, disadorna e cruda, regge solo per le proiezioni in un grande pannello in fondo al palcoscenico, e l’inserire la compagine danzante del Toneelhuis, non mi pare abbia risollevato le sorti di uno spettacolo convenzionale ma allo stesso modo lineare e tutto sommato tradizionale. È pur vero che quale nuova dimensione si può dare al Ring dopo tutte le letture del passato? Quale nuova immagine? Difficile risposta oserei dire. Cassiers regge la sua lettura, apprezzabile, su un quadruplo binario: musica, danza, prosa e video, ove questi però non hanno la stessa focalizzazione e ad esclusione della musica spesso l’uno prevale sugli altri. L’elemento acqua è reso da strane pozzanghere ove le figlie del Reno sguazzano amorevolmente, e solamente le apprezzabili luci creano talvolta una scena ravvivata, altrimenti quasi sempre scura. Manca il tratto della recitazione, che in Wagner è alquanto difficoltoso ma quel senso di inutile staticità è spesso sopperito dai mimi-danzatori che si adoperano per creare un’atmosfera diversa durante gli eventi, alta espressione di danza, ma non indispensabile scenicamente. Bellissimi i costumi femminili, più convenzionali quelli maschili, quasi sempre in doppiopetto. Musicalmente la partitura è guidata da Daniel Barenboim che qui si trova nel suo terreno d’elezione. Al suo gesto risponde una strepitosa orchestra, lucida e precisa, dando risalto encomiabile ai colori della partitura resa da Barenboim ora incalzante, ora appassionata, ora trasbordante di drammaticità. Due ore e mezza di spettacolo in un continuo crescendo di espressione musicale di primordine cui si evidenziano colori e precisione nei dettagli come di rado avviene di ascoltare. I cantanti stavano al regista in modo ineccepibile e alla bacchetta con uno stile appropriato, anche se vocalmente non tutti convincenti. Il settore maschile surclassava quello femminile, in evidenza il Loge di Stephan Rugamer, vigoroso e saldissimo e il Wotan di René Pape autorevole ed espressivo dalla linea morbida e ben intonata. Johannes Martin Kranzle era un isterico ma apprezzabile Alberich, Kwangchul Youn primeggiava sul “fratello” Fafner pur mancando di particolare espressione. das_rhein_3Ottime il terzetto delle figlie del Reno, mentre la Fricka Doris Soffel è diventata legnosa e spesso carente nell’intonazione, la Freia di Anna Samuil possedeva un accento anche accattivante ma il settore acuto era stridulo e l’Erda di Anna Larsson pur nella sua lineare e precisa vocalità non emozionava particolarmente. Al termine successo trionfale con particolari ovazioni per il direttore.
DON GIOVANNI [Lukas Franceschini] Venezia, 28 maggio 2010.
Don Giovanni, capolavoro del compositore salisburghese e del poeta Da Ponte, torna alla Fenice di Venezia e il ricordo primario non può che andare alla precedente edizione curata da Freyer che inaugurò la breve stagione del PalaFenice all’indomani dell’incendio che distrusse il teatro.
Non è il caso di soffermarci o tentare un’analisi dell’opera, tratta da un romanzo epico del ‘500, perché tanto si è detto e scritto in proposito che sarebbe in questo contesto superfluo nonché risicato. Registriamo che in questa occasione, come di prassi, si esegue la versione di Praga, eliminando il duetto Leporello-Zerlina ma includendo la seconda aria di Don Ottavio e l’aria di donna Elvira, appartenenti queste alla versione viennese. Questa nuova produzione verte senza ombra di dubbio sullo spettacolo creato dal fantasioso regista Damiano Michieletto in tandem lo scenografo Paolo Fantin e la costumista Carla Teti. Michieletto non attualizza Don Giovanni, diversamente da come è solito fare nelle sue letture operistiche, lo lascia storicamente nella sua epoca, ma non per questo ci troviamo di fronte ad una messinscena tradizionale, tutt’altro! Nelle pagine del programma di sala, tramite un’intervista di Michele Girardi, spiega la sua concezione dei personaggi e del dramma e ne fa poi sulla scena una lettura originale e condivisibile. Innanzitutto la vicenda si svolge tutta al chiuso, in palazzo nobile con pareti rotanti che di volta in volta formano una scena suggestiva: pareti spoglie, quasi decadenti, qualche applique e pochi mobili, determinano un ambiente sotto taluni aspetti claustrofobici, dove, e qui la mano geniale del regista, i personaggi sono scavati nelle loro intime debolezze ed estremizzati. Restando sempre dentro il tracciato Mozart-Da Ponte caratterizza il protagonista in un libertino alla continua ricerca del piacere e del nuovo che tutto sommato “nulla sa gradir”, tutto ruota attorno al suo volere e desiderio in una sfrenata ricerca anche del “di più”, e forse dell’impossibile. Gli altri personaggi, pur nell’ovvia differenziazione, sono vittime di Don Giovanni, a cominciare dal servo Leporello che non riesce a distaccarsi dal padrone e suo malgrado ne sia in parte “complice”. Esemplare l’attrazione fisica o addirittura psicologica che Donna Anna prova nei confronti del seduttore, tanto da portarla ad una repulsione o quasi rifiuto per colui che veramente l’ama, Don Ottavio, il quale non riesce ad esprimersi nei confronti della donna, tanto da sembrare insulso personaggio, quando invece è solamente un infelice indeciso senza carattere. L’isterica visione di Elvira, donna veramente innamorata che lotta incessantemente per conquistarlo ma deve arrendersi e preferisce il velo ad altra laica vita. I giovani sposini entrano nel vortice delle vicende e a loro volta ne rimangono vittime anche se parzialmente, ma pure Zerlina resta “colpita” dal seduttore. Tutto questo è realizzato con gusto, classe stile e anche originalità che due momenti del finale rendono esaltante: il banchetto della penultima scena è un’orgia, infatti, sappiamo di cosa ama cibarsi il protagonista, e nella scena finale dopo la morte di Don Giovanni quando tutti enunciano dove andranno ecco che il protagonista rientra in scena e simula una specie di annientamento a colpo di spada, volendo così sottolineare l’influenza che continua ad avere su di loro. Lo strepitoso spettacolo è realizzato anche perché Michieletto ha a disposizione dei bravissimi attori, che hanno preso parte a questa lettura con encomiabile partecipazione. Non possiamo sottacere la bravura dello scenografo, per il continuo cambiamento a vista della scena, e registrare la classe riconosciuta della costumista negli abiti. Il giovane direttore Antonello Manacorda, già primo violino della Mahler Chamber Orchestra, è incalzante e vivace, la sua lettura è molto ritmata, quasi in sintonia con la regia, stacchi veloci e repentina verve drammatica, purtroppo la direzione nel complesso risulta discontinua e spesso strattonata perché non ha fatto bene i conti con la compagine orchestrale veneziana, la quale assieme al coro, ha vistose falle tecniche. Tra i cantanti spiccavano per recitazione e canto Markus Werba e Alex Esposito, entrambi estremamente credibili e puntuali, calcavano un po’ la mano nel recitativo ma probabilmente era dovuto all’impostazione registica. Aleksandra Kurzak è una Donna Anna precisa pur non possedendo un volume spiccatamente drammatico, Carmela Remigio in Donna Elvira poteva nascondere meglio limiti vocali rispetto alla recente Donna Anna scaligera, ma il personaggio era riuscitissimo. Ottimo Borja Quiza, un giovane cantante da tenere d’occhio più banale invece la sposina Irini Kyrakidou tendenzialmente leziosa. Attila Jun possiede una bella voce scura ma limitata nel volume, e tutto sommato l’unico fuori posto era Marlin Millerdel quale si può apprezzare solamente la generosa musicalità. Successo calorosissimo al termine.
DON PASQUALE [Lukas Franceschini] Vicenza, 9 giugno 2010.
Le Settimane Musicali al Teatro Olimpico di Vicenza 2010 propongono quale opera lirica Don Pasquale di Gaetano Donizetti nella “versione Viardot” per mezzosoprano. Sgombriamo subito il campo affermando che si è trattato solo di un originale diversivo non supportato né filologicamente né musicalmente ma solo per onorare la leggendaria figura della cantante ottocentesca di cui ricorre il centenario della scomparsa.
Pauline Michelle Ferdinande García, passata alla storia come Pauline Viardot (1821- 1910) mezzosoprano, pianista e compositrice di origini spagnole, figlia del tenore Manuel García, sorella di Maria Malibran e Manuel García figlio. Intraprese gli studi musicali sotto la guida del padre e di Liszt per il pianoforte. Nella sua poliedrica carriera si sarebbe prodotta come pianista a quattro mani con Clara Schumann. Su consiglio di George Sand, del quale era intima amica, Pauline si sposò con il critico e direttore del Théâtre des Italiens, Louis Viardot, con il cui cognome sarebbe poi passata alla storia. Pauline García diede il suo primo recital di canto all’età di sedici anni e debuttò in teatro a Londra nel 1939 nel ruolo di Desdemona nell’Otello rossiniano con un successo trionfale. In pochi anni divenne una delle più acclamate e celebri cantanti della sua epoca, Meyerbeer compose il ruolo di Fidés ne Il profeta, Berlioz volle riadattare per la sua voce l’Orfeo ed Euridice e l’Alceste di Gluck e Gounod compose per lei Saffo. Si ritirò dal teatro nel 1863 ma si esibì ancora nell’oratorio di Massenet Marie Magdeleine. Compose parecchi spartiti sia pianistici sia operettistici, Cendrillon è la più celebre. L’estensione della voce della Viardot è rimasta leggendaria ed è dimostrata dall’ampiezza del suo repertorio: Rossini (Otello, La Cenerentola, La gazza ladra, Semiramide), Bellini (La sonnambula), Beethoven (Fidelio) Meyerbeer (Les Huguentos), Mozart (Don Giovanni) Donizetti (Lucia di Lammermoor). Ma la Viardot, degna rappresentante della famiglia García, eccelleva anche nell’agilità, nel fraseggio, nella tecnica. Genio musicale e teatrale, Pauline, scomparsa quasi nonagenaria all’epoca del grammofono, non ha lasciato incisioni, ma il fascino della sua voce può in parte essere immaginato nel ruolo di Dalila dal capolavoro di Saint-Saëns, composta sul modello vocale della cantante spagnola. Con tali premesse, doverose, ci saremo aspettati un’edizione musicale di rango e soprattutto supportata da documentazione certa se non autografa. Purtroppo non ci sono fonti musicali certe ma solo dati riportati a livello di cronaca che la Viardot nel 1845 a San Pietroburgo cantò per la prima volta il ruolo di Norina e nel finale dell’opera in sostituzione dell’allegro “La morale di tutto questo” preferiva cantare una celebre pagina del compositore inglese M. W. Balfe “Il piacer inonda” da The Maid of Artois, oppure anche altri brani tratti da altrettante celebri opere dello stesso musicista. Pertanto l’unica differenza rispetto l’autografo donizettiano è il finale, e ovviamente tutte le cadenze e puntature sopranili avrebbero dovute essere diverse. Per tale operazione sarebbe stata necessaria un’autentica fuoriclasse che almeno sotto l’aspetto vocale avrebbe potuto renderci l’idea del gusto e della prassi esecutiva della Viardot. Purtroppo Federica Carnevale del mezzosoprano ha poco, anzi parrebbe essere un soprano, pertanto tutta l’operazione naufraga a fronte di una scelta inadeguata, anche se è doveroso sottolineare la difficoltà nel reperire oggigiorno chi eventualmente avrebbe potuto rinverdire i fasti della signorina Garcia. Ciò non toglie che la Carnevale è una cantante molto musicale, di pregio vocale e verve scenica, trovatasi solo in un contesto non pertinente alle sue possibilità canore. Lorenzo Regazzo, don Pasquale, è il solo a brillare di luce propria nella produzione. Il basso veneziano sfodera una classe innata, un gusto brillante mai sovraccaricato e una scioltezza pregevole nel sillabato. Emanuele d’Aguanno, Ernesto, gode di un timbro molto suggestivo non supportato parallelamente da altrettanta tecnica, ma supera la prova con plauso, altrettanto Gabriele Nani, Malatesta, brillante scenicamente, ma con voce tendenzialmente limitata seppur precisa e garbata. La vera delusione di questa produzione stava in Giovanni Battista Rigon, direttore le cui doti sono risapute e più che accreditate. Nel concertare l’opera al Teatro Olimpico, che non è un teatro nato per l’opera, ha voluto mantenere l’organico orchestrale al completo con il risultato di essere sempre troppo forte rispetto le voci e il coro, ci meraviglia che la sua ottima preparazione non lo abbia portato a sfoltire l’organico e ad esempio non mantenere il coro in lontananza nella celebre serenata notturna di Ernesto nel III atto, che perdeva tutto quel sapore romantico e lunare. I tempi e la prassi esecutiva erano centrati e calzanti, mancava solo il giusto equilibrio. Allestire un’opera in un teatro meraviglioso ma limitativo come quello vicentino ha portato invece Francesco Bellotto a creare e inserire in scena molte gags superflue ed inutili, attualizzando una drammaturgia già perfetta come scritta. In questo Don Pasquale mancava totalmente la fantasia, l’ironia e se vogliamo anche il dramma intimo del protagonista, a favore di trovate banali di scarsa inventiva con un continuo andirivieni di figuranti in scena spesso irritante. Le scene erano banali, si poteva sfruttare quelle del Palladio in maniera più appropriata, i costumi senza una linea stilistica. Il pubblico che gremiva il teatro al termine ha decretato un autentico successo a tutta la compagnia.
LUCREZIA BORGIA [William Fratti] Dresda, 12 giugno 2010.
Nonostante la quasi totale distruzione della città e dei suoi monumenti storici, avvenuta nella notte del 15 febbraio 1945, l’antica capitale della Sassonia non ha mai dimenticato la propria secolare cultura musicale e ricopre ancora oggi uno dei primati mondiali in questo campo.
La Kreuzkirche, costruita accanto alla piazza dell’Altmarkt tra il 1764 e il 1800, è la sede del Coro della Croce che vanta una tradizione di oltre 700 anni. Arsa nell’incendio seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, è stata riaperta al culto nel 1955 e gli uffici religiosi sono spesso cantati e suonati da musicisti eccellenti. Sabato 12 giugno alle ore 18, la preghiera dei Vespri è stata accompagnata dalla Cappella Musica Dresden – un ensemble di professionisti della Sächsischen Staatskapelle Dresden, con Ulrike Scobel e Heide Schwarzbach ai violini, Titus Maack al violoncello e Christoph Bechstein al contrabbasso – dall’organista Holger Gehring e dal soprano Barbara Christina Stende, che si sono esibiti nella Suonata in Si bemolle KV 68 e nella Suonata in Do KV 328 di Wolfgang Amadeus Mozart, nel Gloria e nel O qualis de coelo sonus HWV 239 di Georg Friedrich Händel. La chiesa colma di turisti, al termine della funzione, ha salutato calorosamente gli eccellenti esecutori.
Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti è andata in scena in forma di concerto alla Semperoper, diretta dalla bacchetta di Andriy Yurkevych sul podio della Sächsischen Staatskapelle Dresden, che ha saputo amalgamare la giusta dose di cromature e sfumature con l’intensità drammatica dell’opera del compositore bergamasco, guidando un’orchestra sempre sull’attenti, precisa e assolutamente pulita nel suono, perfettamente miscelata al Chor der Sächsischen Staatsoper Dresden diretto da Christof Bauer.
Edita Gruberova ha eseguito il ruolo di Lucrezia con l’energia e la presenza scenica che poche colleghe sanno eguagliare, lasciandosi andare ad una mimica e ad una gestualità che, nonostante il piccolo spazio del proscenio, non hanno fatto rimpiangere la mancanza di costumi e scenografie. La particolarità e l’eleganza della sua linea di canto, oggi intrisa di tinte leggermente più scure, ed un fraseggio particolarmente espressivo, fanno del soprano slovacco una delle migliori interpreti del belcanto. L’aria di sortita “Tranquillo ei posa… Com’è bello, quale incanto” è sinceramente toccante, ricca di colori squisiti e di filati raffinati e nel finale primo raggiunge una drammaticità notevole, che si fa sempre più carica ed emozionante col procedere della vicenda, fino al tragico finale, quando Lucrezia non riesce a salvare il figlio. In “M’odi, ah! M’odi” la Signora Gruberova si spinge all’apice, commovente e struggente nell’interpretazione, eccezionale nel canto, con un’esecuzione in perfetta sintesi tra lirismo patetico e colorature belcantiste, fino ad esplodere nella catarsi conclusiva con la cabaletta “Era desso il figlio mio”, forse discutibile nello stile un po’ troppo marcato, ma certamente memorabile.
José Bros, esperto del repertorio serio donizettiano, è un Gennaro molto efficace, dal timbro chiaro e morbido. I duetti con Lucrezia sono particolarmente degni di nota e mostrano una certa raffinatezza nella linea di canto del tenore spagnolo, che sa dosarsi senza passare i limiti di una prova adeguatamente lineare e generosa, confermandosi uno dei migliori esecutori di questo ruolo.
Michele Pertusi è un Don Alfonso imponente ed autorevole, oltreché nobile ed elegante. Le doti interpretative, le qualità vocali e la tecnica importante che da sempre contraddistinguono il basso parmigiano, in quest’occasione sono mostrate in primissimo piano. L’esecuzione in forma concertistica non danneggia l’attore, anzi ne accentua lo stile, tanto nell’espressività quanto nel gesto. Dal punto di vista musicale il Maestro Pertusi, costantemente attento alle sfumature e agli accenti, in un continuo processo di analisi e ricerca, si conferma essere un professionista di altissimo livello. “Vieni, la mia vendetta… Qualunque sia l’evento” è eseguita da manuale e la lunga scena con Lucrezia e Gennaro raggiunge un’intensità notevolmente emozionante.
Silvia Tro Santafè è un Maffio Orsini di prim’ordine. La sua voce calda e ombrosa, ma non eccessivamente scura, svolge con morbidezza e duttilità le belle pagine del personaggio en travesti. Nel racconto “Nella fatal di Rimini” dimostra di possedere acuti ben saldi e un registro grave robusto e mai appesantito, mentre nella canzone “Il segreto per esser felici” mette maggiormente in luce una buona tecnica nei virtuosismi.
Accanto ai quattro eccellenti protagonisti, tutti i comprimari sono meritevoli di lodi: Benjamin Bruns, Christoph Pohl, Ilhun Jung, Aaron Pegram, Tomislav Lucic, Tom Martinsen, Matthias Henneberg.
TURANDOT [Lukas Franceschini] Verona, 18 giugno 2010.
Inaugurazione fortunata all’Arena di Verona, infatti, dopo una settimana di pioggia la prima si è svolta regolarmente con la clemenza delle condizioni atmosferiche. Il Festival 2010 sottotitolato “Franco Zeffirelli all’Arena” proponeva il nuovo allestimento di Turandot di Giacomo Puccini, l’incompiuta del maestro toscano.
Lo spettacolo anche se nuovo non si staccava molto da precedenti allestimenti di Zeffirelli e non è arbitrario affermare che in fondo si tratta di una rielaborazione di quello scaligero (1983) e del successivo newyorkese (1987). La maestria dello scenografo era evidente soprattutto nella seconda scena del II atto quando a luci dorate si apriva la grande scena degli enigmi con il palazzo imperiale giapponese. Un momento di grande effetto! Mancava come di consueto un estro registico che Zeffirelli raramente ha sviluppato nel teatro d’opera, la staticità delle masse era emblematico. Per ovviare a tale inconveniente, come di prassi, ha sovraccaricato la scena di mimi, danzatori e comparse, le quali erano superflue nonché banali. Turandot_verona2Oltremodo non disponendo di cantanti-attori di prim’ordine la monotonia regnava sovrana, pur tuttavia è doveroso affermare che nella sua concezione lo spettacolo si adatta benissimo con l’Arena, ma sarebbe potuto essere più raffinato e più grintoso. Bellissimi e colorati i costumi di Emi Wada, i quali non si discostano granché da quelli delle precedenti edizioni. Zeffirelli ha inoltre voluto, con l’approvazione della direzione artistica, sopprimere il finale terzo composto da Alfano, creando un pastiche assurdo perché dopo la morte di Liù si passa direttamente al coro finale quando Turandot rivolgendosi al padre dice “padre augusto conosco il nome dello straniero”, il cui nome gli sarebbe stato svelato nella parte tagliata. Se si cercava originalità e volendo eseguire solo la musica di Puccini, sarebbe stato piu filologico e apprezzabile arrestarsi alla morte della schiava. Dirigeva il Maestro Giuliano Carella, già direttore musicale anni or sono della Fondazione Arena, esperto e raffinato musicista, il quale ipotizziamo avrà avuto poco tempo a disposizione per le prove considerate le condizioni climatiche, pertanto se da un lato dobbiamo registrare un’energica e vibrante concezione direttoriale dall’altro non possiamo sorvolare su vistose pecche in orchestra, inizio atto III, e qualche sfasamento tra buca e palcoscenico, che nel corso delle recite successive dovrebbe appianarsi. Il cast nel complesso era mediocre, e la direzione artistica avrebbe dovuto mostrare più oculatezza per l’opera inaugurale, la quale presuppone un cast di alto livello. Nel ruolo in titolo Maria Guleghina oltrepassava il limite delle proprie possibilità non avendo tutt’oggi un registro acuto e una tecnica adeguata, ci si domanda inoltre perché avventurarsi in un terreno che anche in un recente verde passato l’avrebbero messa in palese difficoltà. Marco Berti era uno dei più scialbi e grossolani Calaf producendosi in un canto di forza senza un minimo di fraseggio e varietà di colori, dimostrano inoltre che ampiezza e registro acuti sono talloni d’Achille. Tamar Iveri eccelleva in tale contesto pur non possedendo particolari velleità liriche, ma è cantante precisa, musicale e con gusto. Insignificante il Timur di Carlo Cigni, mentre le tre maschere non interagivano alla perfezione nelle parti d’assieme e prese singolarmente taluna evidenziava lacune ora tecniche ora vocali. Al pubblico presente, non numerosissimo (completamene vuote le ali laterali della gradinata e numerosi settori numerati liberi) la produzione è piaciuta e al termine ha decretato un buon successo. All’inizio dello spettacolo tutti i lavoratori della Fondazione Arena si sono radunati sul palco per contestare il decreto del Ministro Bondi leggendo un comunicato sindacale e, come nelle altre istituzioni liriche, cantando l’Inno Nazionale. L’acustica in Arena mai come negli ultimi ha smosso studi e soluzioni nell’intento di una maggiore uniformità in tutti i settori. Abbimo pertanto trovato la “buca” orchestrale ulteriormente abbassata, la cui soluzione non ha lasciato gran effetto dal settore ove è solita accomodarsi la stampa, tuttavia parlando con conoscenti, tra cui l’ex sovrintendente Renzo Giacchieri, questi mi ha assicurato che in platea centrale il suono era migliorato di molto. I cantanti erano microforati e con questo intento la Fondazione rifiuta categoricamente il termine amplificazione, ma semmai un correttivo per un migliore e più omogeneo ascolto. A tal proposito registriamo effettivamente una migliore udibilità, e pur sottolineando che non è più possibile parlare di voci naturali, speriamo che l’equilibrio voci–orchestra sia migliorabile in un prossimo futuro.
EDGAR [Lukas Franceschini] Bologna, 24 giugno 2010.
L’appuntamento operistico bolognese della Stagione 2010 prima della pausa estiva è stato Edgar di Giacomo Puccini. Secondo titolo nella cronologia del compositore toscano su commissionato da Giulio Ricordi per il Teatro alla Scala in virtù del felice esito conseguito nel 1884 dalle Villi.
Liberamente ispirato dal dramma di Alfred de Musset La coupe et les lèvres ebbe una composizione di circa due anni per poi essere rappresentato il 21 aprile 1889 con un successo cordiale. Tuttavia ancor oggi si può affermare che trattasi di opera singolarmente mal riuscita con una drammaturgia sbilenca, musicalmente enfatica cui resta solo un leggero spunto melodico del quale il compositore darà maggior capacità in lavori successivi. Lo scarso successo nonché la piena convinzione di Puccini che l’opera non fosse particolarmente riuscita è determinato dalle numerose versioni (con riduzione a tre atti) che si susseguirono negli anni: Lucca 1891, Ferrara 1892, Buenos Aires 1905. Le revisioni non dettero alcun risultato di successo e lo stesso Puccini, annotando alcuni commenti caustici in una copia dello spartito per canto e pianoforte dell’ultima versione, criticò proprio i nodi cruciali della versione in tre atti, ossia il finale verista del terzo atto e quello appena composto del secondo, definendo quest’ultimo “la cosa più orribile che sia mai stata scritta”. Tra gli effetti di quest’ultima revisione vi fu anche lo smembramento della partitura autografa in due parti: gli atti I e III rimasero all’editore, il II e il IV a casa Puccini. Questa circostanza ha impedito per molto tempo di ripresentare la partitura originale del 1889, che nella riduzione per canto e pianoforte del 1890 era nota da tempo agli studiosi. Ritrovati i due volumi nel 2007 (tra la collezione privata di Simonetta Puccini), il 25 giugno 2008 l’opera è stata finalmente allestita, al Teatro Regio di Torino (in coproduzione con Bologna), in una versione prossima a quella della prima scaligera. Lo spettacolo di Lorenzo Mariani è tutto sommato più coreografico che analizzato nella messa a fuoco di una drammaturgia che si avvicina alla scapigliatura inoltre, ambiento in epoca tarda ottocentesca si scosta di molto dal libretto, in aggiunta ad intervalli lunghissimi che portano lo spettatore quasi alla noia per le tre ore e mezza di una rappresentazione che non prende mai il volo. Maurizio Balò fa quanto di meglio sappiamo sui costumi, le scene invece paiono un po’ monotone per l’insistenza del verde prato per i quattro atti. Sul podio Mario De Rose è direttore attento e partecipe, con ritmo incalzante e una lettura, per quanto la partitura permetta, pregevole, semmai poco esperto nel gioco delle sonorità spesso eccessive. Il cast nel suo insieme era piuttosto deludente. José Cura si è fatto annunciare indisposto, pertanto ogni valutazione la rimandiamo a successive occasioni, anche se il ruolo dovrebbe calzargli a pennello, ma in questa occasione pur considerando l’indisposizione non si possono tacere un fraseggio sommario e stentoreo. Patrizia Orciani subentrava al forfait di Svetla Vassilieva, ma non possiede né voce né accento per un ruolo della giovane casta innamorata, in aggiunta ad un registro superiore particolarmente compromesso. Molto azzeccata scenicamente la Tigrana di Giuseppina Piunti, anche se la voce non è propriamente di mezzosoprano ma capacità scenica e temperamento sono ragguardevoli. Nella limitata parte di Frank, Marco Vratogna generalmente abituato a ruoli vilan, riesce con classe a piegare la possente voce uscendone con merito. Ottima la professionalità espressa sia dal coro sia dall’orchestra e il pubblico ha gradito questo titolo, sconosciuto ai più se non per qualche edizione discografica, premiando tutti con un caloroso applauso. All’inizio dell’opera le maestranze del teatro hanno proiettato un bellissimo video sul lavoro per allestire uno spettacolo dal vivo, ciò come forma di protesta civile al decreto Bondi, che vedrà compromesso il futuro delle fondazioni. Al termine uno striscione, sorretto sia dal coro sia dagli interpreti, ha suscitato un plauso ancor più caloroso quando si è letto l’articolo n. 9 della Costituzione Italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” concetto che pare essere ignorato dal Ministro e dal Governo e che i lavoratori dei teatri giustamente evidenziano per difendere non solo la loro professionalità ma anche la propria occupazione.
THE TURN OF THE SCREW [Lukas Franceschini] Venezia, 29 giugno 2010.
Il secondo appuntamento lagunare con l’accoppiata Britten-Pizzi prevedeva la messinscena de Il giro di vite, l’opera da camera del compositore inglese basata sul romanzo di Henry James che proprio alla Fenice nel 1954 per la Biennale Musica venne rappresentata per la prima volta con esito trionfale.
Composta nel brevissimo periodo di soli 4 mesi la vicenda contrappone il bene contro il male, il naturale contro il soprannaturale, il possesso e l’esorcismo nelle convenienze interne della vita di due fanciulli, un tema quella della corruzione dell’innocenza che attrasse Britten in particolare misura. La partitura è tipicamente cameristica e già felicemente sperimentata con altri tre titoli. Britten pensava inizialmente a un progetto d’opera destinata al cinema. Pare che l’idea di mettere in musica la ghost-story di James fosse di Peter Pears, il tenore che condivise con Britten tutta la vita e l’esperienza artistica. Adatto agli effetti speciali del cinema, Il giro di vite offriva l’occasione a Britten per un difficilissimo confronto col soprannaturale: di un racconto centrato su tensioni sotterranee e paure non dette piuttosto che di eventi veri e propri, specialmente se si tiene conto che gran parte del fascino di quel racconto risiede appunto nel velo di mistero che circonda i personaggi (in particolare i due bambini e i loro rapporti con gli spettri), nonché nelle allusioni a sottili movimenti dell’inconscio che conducono all’irreparabile catastrofe. La relazione dei bambini con i fantasmi non è dato sapere: mai, né James né Britten chiariscono la torbida natura di quella possessione. Tuttavia, è ipotizzabile nell’opera che tra Miles e Quint, corra il veleno di una sorta di precoce iniziazione sessuale, fondata sulla forza terribile del condizionamento psicologico. L’elemento omosessuale che in modo strisciante e molto sfumato colora la vicenda è del resto una costante del teatro di Britten e si fonde col tema dell’innocenza violata: il diverso e il bambino sono le due facce d’uno stesso bersaglio del pregiudizio e della corruzione del mondo, entrambi vittime di un’identica incapacità di capire. Pier Luigi Pizzi ritorna al teatro di Britten, il compositore inglese più importante nel ‘900 e non solo, e lo fa in maniera elegante come sempre ma con poca fantasia ricopiando in parte se stesso. La casa di campagna inglese disposta su due piani è di stile atemporale, ma già vista in altri allestimenti, come i tronchi egli alberi sulle sponde del lago che rimandano al Guillaume Tell. I costumi sono raffinati ma stranamente diversificati per stile ed epoca lasciano perplessi. Lo scavo psicologico e drammaturgico dei personaggi è molto superficiale pur restando confinato nella manierata recitazione. La parte musicale prevale nettamente e l’artefice è decisamente Jeffrey Tate eccezionale direttore e concertatore che riesce a rendere ottimi i solisti dell’orchestra della Fenice oltreché essere un meticoloso cesellatore di tinte e sfumature che rendono ancor più inquietudine e tensione drammatica fino al tragico epilogo. Abbiamo avuto anche la bellissima sorpresa di trovare un cast molto meritevole a cominciare da Anita Watson, vibrante e luminosa, dall’istrionico Marlin Miller, qui e non in Mozart suo terreno d’azione, e dalla perfetta Julie Mellor incisiva Mrs. Grose. Una menzione speciale ai due giovani cantanti Peter Shafran e Eleanor Burke, perfetti, straordinariamente musicali con spessore e pertinenza. Completava il cast l’istrionica Allison Oakes. Teatro gremito e trionfante al termine in particolare per i due enfat-prodigue e per il maestro Tate.
FAUST [Lukas Franceschini] Milano, 30 giugno, 2010.
Il capolavoro di Charles Gounod torna alla Scala dopo tredici anni in un nuovo allestimento curato da Eimuntas Nekrosius, che già di sé destava interesse, ma purtroppo in parte compromesso dallo sciopero del coro.
Infatti, senza nessun annuncio in locandina fuori dal teatro il coro e l’orchestra decidono all’ultimo momento di esibirsi in abiti borghesi e nel leggere il comunicato contro il decreto Bondi, approvato qualche ora prima alla Camera dei Deputati, subiscono la contestazione del pubblico scaligero. Questo fatto mi ha particolarmente colpito. In questi tempi in molti teatri da me frequentati ci sono state varie manifestazioni contro la legge del Ministro della Cultura, poche righe lette dalle maestranze, l’esecuzione dell’Inno Nazionale o altro, ma mai mi era capitato di assistere ad una contromanifestazione del pubblico contro coloro che protestano per una legge abominevole e difendendo il loro lavoro. Non è questa la sede per commentare o entrare nel merito della legge, ma è giusto sottolineare che nel mondo del teatro in passato ci sono stati sperperi di denaro pubblico in abbondanza, e forse qualcuno c’è pure oggi inoltre, il comportamento dell’ensemble scaligero non è stato propriamente corretto di manifestare ancora una volta dopo molti scioperi e soprattutto informare della protesta con il pubblico già in sala. Dovrebbero scegliere altre forme, altra sensibilizzazione, per coinvolgere in maniera più chiara i frequentatori dei teatri, come accaduto di recente a Bologna, magari anche in sinergia con altre fondazioni e diffondere una brochure che illustri chiaramente a tutti i reali tagli e cambiamenti che subirà il mondo dello spettacolo dal vivo. La direzione della Scala, in un annuncio prima dell’opera, informava il pubblico che avrebbe restituito il prezzo del biglietto considerato che lo spettacolo non veniva eseguito regolarmente, ma nella sera stessa a chi chiedeva informazioni più dettagliate nessuno sapeva dire come e quando. Ritornando all’opera sono ormai risapute le aggiunte e trasposizioni che subì nel decennio successivo alla prima rappresentazione (1859) e ancor oggi la rendono suscettibile a diverse versioni. Quella scaligera però mi è sembrata la meno efficace per i numerosi tagli apportati, negandoci tra gli altri sia l’aria di Siebel “Si le bonheur” sia il celebre balletto della notte di Valpurga, quest’ultimo parte importante nella drammaturgia che rifacendosi a Goethe ha rilevanza di primaria. La scena è piuttosto monotona e quasi sempre uguale, una doppia navata di legno in prospettiva dove non vi è mai confine tra interno ed esterno, è adornata con pochi elementi, fiori, sagome di cavalli o quant’altro, ma non indica mai un luogo certo. E’ questa in parte la chiave di una regia non sviscerata dove è più il simbolo a prevalere sul gesto, i neri sparvieri, i mimi in continuo movimento (spesso insopportabili) e la resa in parte allegorica del personaggio di Mefistofele, che viene reso bonario quasi un giocoliere di barnumesca memoria travisando in parte il ruolo. Probabilmente è il grottesco che infastidisce perché nulla è ponderato ma lasciato come ad un fato quasi inespresso o di molteplice e diversa interpretazione. E’ pur vero che il regista necessitava di cantanti-attori di primo piano per tale operazione e nel cast raggruppato alla Scala solo Irina Lungu poteva parzialmente assecondare. Musicalmente l’amorfa e ispida bacchetta di Stephane Denéve non veniva certo in soccorso ad una situazione di se già di difficile comprensione, e se togliamo la Lungu, gradevole e precisa, gli altri imbarazzavano. Marcello Giordani era lontano anni luce dal canto ottocentesco sfumato oltre a difetti tecnici che non gli permettono le ardue imprese della partitura (lievemente contestato al termine della romanza del III atto), mentre Roberto Scandiuzzi non possiede l’estro e la baldanza del diavolo a cui va aggiunta una pessima dizione ed evidenti pecche vocali che rendono il canto legnoso e duro. Dalibor Jenis passava inosservato nel ruolo di Valentino e Nino Surguladze rasentava il ridicolo per poca espressività e sgradevolezza oltre all’assurdo costume stile anni ’70 e lo zoppicare incerto. Apprezzabile la Marthe di Sylvie Brunnet e il Wagner di Olivier Lallouette. Il pubblico molto pacato ma esausto, considerato che l’opera è finita con circa quaranta minuti di ritardo, ha decretato solo un successo di stima, apprezzando solo il soprano.
MADAMA BUTTERFLY [Lukas Franceschini] Verona, 2 luglio 2010.
Il terzo titolo della stagione areniana dedicata a Franco Zeffirelli prevedeva la ripresa dell’allestimento del 2004 di Madama Butterfly di Giacomo Puccini.
Opera tra le più intimistiche del genio toscano con una sola ed assoluta protagonista non sarebbe titolo tipicamente di un teatro all’aperto ma considerato il favore che ha sempre riscosso nel grande pubblico è inevitabile che approdi anche all’Arena, seppur tardiva visto che la prima nell’anfiteatro risale solo al 1978. Caduta, e ritirata, alla prima rappresentazione alla Scala nel 1904, risorse qualche mese più avanti a Brescia ovviamente ritoccata in vari punti e con l’aggiunta dell’aria di Pinkerton al III atto. Prima opera esotica di Puccini, l’altra sarà Turandot, rappresenta una vera e propria tragedia contrapponendo il mondo occidentale su quello orientale, dove l’uomo conquistatore nelle sue barbarie vuole sopraffare non solo la giovane giapponese ingenua ma con arroganza l’intera società e civiltà orientale. È indiscussa la sapiente mano compositiva nel tratteggiare un mondo nipponico con le sue peculiarità ma è altresì suprema sia una certa sdolcinatezza nella grande scena d’amore nel finale atto primo sia nei due atti successivi la crescente ed inesorabile tragedia di Butterfly quando tutto un suo mondo, seppur fragilmente appeso, crolla di fronte al ritorno dell’amato, il cieco dolore e la sorprendente razionalità sfoceranno nell’estremo gesto finale. Zeffirelli crea anche in questa occasione una scenografia da cartolina con una moltitudine di comparse superflue non mettendo a fuoco la vera drammaturgia della tragedia limitandosi pertanto ad una narrazione scontata e manierata di orpelli folkloristici. La scena è praticamente fissa tanto banale nell’andirivieni della casa che nello schiudere e riporre di continuo i siparietti di vimini laterali, inoltre l’ingresso di Butterfly è ridicolo in quanto esce dalla casa e non attraverso il corteo con le dame sponsali. I cantanti sono lasciati in balia di se stessi e nulla rende per qualche verso una recitazione accettabile. Purtroppo le cose non erano diverse dal punto di vista musicale. Dobbiamo sottolineare anche in questa occasione che l’ulteriore abbassamento dell’orchestra ha notevolmente peggiorato l’acustica nel settore di prima gradinata, e pertanto il supporto orchestrale era un mero contorno non una colonna portante quale avrebbe dovuto essere. La direzione di Antonio Pirolli si limitava ad un effimero accompagnamento, senza passionalità, colori, accenti, scansioni, mancando soprattutto in quella scrittura di emotività che contraddistingue l’opera. Hui He era una protagonista sontuosa dal punto di vista vocale ma povera nel fraseggio, più attenta a mostrare l’opulenza della voce che il fraseggio interpretativo. Massimiliano Pisapia, nel pur ingrato ruolo di Pinkerton, non superava il limite di un canto stentoreo spesso forzato, quando mezzi e qualità avrebbero potuto far di meglio. Gabriele Viviani era uno Sharpless incolore ed intubato, apprezzabile invece sia la Suzuki di Veronica Simeoni sia soprattutto il Goro di Luca Casalin. Generici ma al di sotto della sufficienza la parte comprimaria. Il pubblico, pur con notevoli assenze in tutti i settori, ha comunque gradito e tributato un successo pieno.
IL BARBIERE DI SIVIGLIA [Lukas Franceschini] Verona, 7 luglio 2010.
E tre! Dopo il successo degli scorsi anni, 2007 e 2009, ecco la terza ripresa de Il barbiere di Siviglia all’Arena di Verona nel bellissimo spettacolo curato da Hugo de Ana.
Le presenze di pubblico quasi da record registrate nelle recenti edizioni, nonché il favore della critica, hanno suggerito alla direzione artistica, giustamente, di riproporre l’opera nella stagione in corso con alcune modifiche di rilievo nel cast. Il regista, ideatore anche di scene, luci e costumi, coadiuvato dalla coreografa Leda Lojodice, crea uno spettacolo fantasioso ed onirico di raffinata bellezza e ha il pregio di non ricadere nella banale tipica macchietta la quale sovente contraddistingue dell’opera comica. E’ vero che egli ha a disposizione cantanti attori di prim’ordine e dunque la comicità è garantita da un gusto e un gesto molto sobrio cui si affianca una musica, banale ricordarlo, frizzante e geniale. I costumi sono coloratissimi e di grande pregio, la scena, costituita da un giardino a labirinto, è efficientissima nell’ideare i numerosi quadri che compongono l’opera, il verde prato è predominante cui si affiancano dei giganteschi fiori in una visione molto affascinante. Figuranti, mimi e ballerini si muovono con gusto e divertente parodia di un mondo settecentesco così lontano ma tanto impresso sfarzosamente nella memoria collettiva. Unico neo, forse, l’aver voluto creare una pantomima anche durante l’esecuzione dell’Overture, la quale sarebbe stata più opportuno ascoltare senza alcuna visione. È doveroso rilevare ancora una volta i gravi problemi di acustica concernente l’orchestra, problemi di cui abbiamo già parlato in altre recensioni, ma nel caso del Barbiere è ancora più ponderante. Infatti, i classici recitativi accompagnati erano pesantemente compromessi, poiché il suono non è regolato a dovere, o meglio, ben equilibrato tra voci e strumenti. Il prossimo anno è stato programmato Don Giovanni e in tal caso le cose si faranno ancor più serie, speriamo nel frattempo la direzione artistica possa e voglia operare in tal senso. Sul podio dell’anfiteatro debuttava Andrea Battistoni, giovane direttore veronese, il quale si sta affermando clamorosamente come una delle bacchette più interessanti della nuova generazione. La sua concertazione, seppur “danneggiata” dai motivi sopra citati, era tuttavia rigorosa e brillante, egli tiene un suono leggero ma vibrante il che è un pregio da un lato, ma in Arena certe operazioni sono anche inefficaci. I tempi serrati con l’aggiunta di un gusto elegante e un ritmo incalzante si sviluppano in un risultato più che soddisfacente, e aggiungo migliore, nei limiti di un teatro all’aperto, rispetto ad una precedente esecuzione a Parma della scorsa primavera. Il cast ha rivelato più ombre che luci, e le luci erano più che altro delle conferme. Su tutti primeggiava Bruno De Simone, il quale di don Bartolo ha fatto un suo cavallo di battaglia oggi con pochi rivali. La maestria di un canto forbito e mai eccessivo e un fraseggio autorevole sono accomunati da una recitazione molto divertente e stilizzata. Antonino Siragusa si riconferma un rossiniano doc, la voce è meno nasale del solito e il suo conte è elegante e misurato, non particolarmente acrobatico esegue anche il celebre rondò “Cessa di più resistere” e se la cava con onore senza spettacolarizzazioni. Marco Vinco si propone nel ruolo di don Basilio con autorevolezza, e meno caricato rispetto alle edizioni precedenti il che è un pregio, la voce è sonora e calibrata ma servirebbe una profondità vocale che le è un po’ estranea, ma nel complesso è più che convincete. Note meno positive per Dalibor Jenis e Aleksandra Kurzak. Il primo è un Figaro molto costruito sul gigionismo cui si somma un’imperizia nel recitativo e una sommaria sguaiataggine vocale. La Kurzak avrebbe anche voce singolare di soprano ma non particolarmente seducente inoltre è carente nel settore acuto spesso abbozzato se non tagliato. Per proporsi come Rosina in veste di soprano sarebbe necessario un maggior virtuosismo che forse avremo potuto apprezzare se avesse eseguito l’aria “Ah se è ver che in tal momento” come nelle precedenti edizioni, all’interprete poi manca il pathos e la malizia che la parte richiede. Francesca Franci è stata una Berta esagitata e stridula, Dario Giorgelè ottimo nel doppio ruolo di Fiorello e Ambrogio. Spettacolari i fuochi d’artificio nel finale. Successo caloroso.
AIDA [Lukas Franceschini] Verona, 8 luglio 2010.
Il festival Areniano prosegue con Aida di Giuseppe Verdi e viene riproposto l’allestimento che il M.o Franco Zeffirelli creò nel 2002.
Con Aida Verdi torna su filoni esotici in parte già esplorati in titoli della prim’ora. Qui però lo fa con più convinzione e soprattutto con un equilibrio encomiabile. Se da un lato si cimenta nell’aspetto grandioso (il II atto) il meglio lo esprime nel dramma di due donne innamorate dello stesso uomo, dove con saggia pertinenza dosa sentimenti privati e questioni politiche che vedono un paese, l’Egitto, prevaricare sull’altro, senza mai incorrere nel facile verismo in auge all’epoca della composizione. Aida doveva essere un’opera di splendore epico, la partitura fu commissionata per la riapertura del Canale di Suez, ma è la drammaturgia musicale intimistica che alla fine prevale scolpendo personaggi esemplari e torniti. Infine, la scena della tomba è particolarmente suggestiva per quel tono remissivo di morte e desolazione, cantata in piano, che confina i tre antagonisti in un affascinante e triste destino di romantica memoria. A differenza di altri titoli sempre allestiti in Arena in questo spettacolo Zeffirelli cerca di creare una certa drammaturgia sempre comunque limitata, emerge come di consueto l’aspetto scenografico imponente e dorato che sfarzosamente riproduce lo splendore della civiltà egizia, un’enorme piramide di tubi girevole crea di volta in volta i sette quadri che compongono l’opera. Se l’impatto non può che essere faraonico ben presto ci si rende conto che la carta giocata è soprattutto vincente nelle scene d’assieme, mentre negli atti III e IV manca l’equilibrio della drammaturgia intimistica, peculiarità centrale e musicale dell’opera sui personaggi protagonisti. Il celebre trionfo è un tripudio di luce, colori e bandiere, senza orpelli aggiuntivi, ma l’estro di sovraccaricare la scena persiste, non vi è la classica sfilata causa il ristretto spazio, pertanto le movenze delle comparse sono alquanto banali. Le danze sono sacrificate per lo stesso motivo con la piramide che impera ed occupa tutto il palcoscenico, ma la coreografia è briosa e bene si comportano gli artisti ospiti. Bellissimi i cromatici costumi di Anna Anni soprattutto quello di Aida nel III atto. Il suono giunge sempre piuttosto offuscato ma Daniel Oren trova un gesto anche pertinente e un accompagnamento sensibile consono alla partitura, niente di sovraccaricato nei concertati, semmai per quanto possibile in uno spazio all’aperto, un’amorevole raffinatezza nell’accompagnare le voci. Ottima la prestazione del coro, e tolto qualche piccola imprecisione degli ottoni nel trionfo, discreta la prova orchestrale.
Protagonista era la giovane Lucrezia Garcia, voce potente e bellissima, molto musicale, difetta saltuariamente nel registro acuto e nei colori, ma considerata la giovane età, ha debuttato sul palcoscenico da soli pochi mesi, in un prossimo futuro si auspica riesca ancora meglio in un ruolo che calza a pennello. Sua rivale la veterana Dolora Zaijck ha ancora numerose frecce nel carniere, alterna nell’interpretazione, si esprime al meglio nella scena del IV atto confermandosi ancora una convincete Amneris. Marco Berti pur con i soliti limiti tecnici ed espressivi risulta meglio in Radames che nella precedente Turandot, peccato abbia sempre l’abitudine di un canto forzato e stentoreo quando in molti passi sarebbe opportuna morbidezza. Onesta la prova di Ambrogio Maestri, talvolta un po’ grezzo, ma lo spessore vocale come sappiamo è importante. Qualche gradino più sotto le prove dei due bassi Vitalij Kowaljow e Carlo Striuli. Il primo possente ma disomogeneo nell’impostazione, il secondo greve e spesso sfibrato. Buoni i due comprimari Enzo Peroni e Nicoletta Curiel. Successo convinto da parte del pubblico che non gremiva l’anfiteatro.
Carmen [William Fratti] Verona, 15 luglio 2010.
L’allestimento di Carmen, firmato da Franco Zeffirelli per l’Arena di Verona una quindicina di anni fa, piace ancora al numeroso – seppur in calo – pubblico festivaliero, ma risulta essere notevolmente ridimensionato rispetto l’originale, a causa della ridotta mole di scenografie e di un minor intervento in scena di animali, di cui restano soltanto pochi asini e cavalli. Sembra pur diminuito il Coro di voci bianche.
Non c’è molto da aggiungere riguardo regia e scene dell’artista fiorentino, né sui magnifici costumi di Anna Anni o sulle coinvolgenti coreografie di El Camborio, già oggetto di molteplici critiche, sia di approvazione sia di opposizione, in tutti questi anni.
La direzione di Julian Kovatchev e la prova dell’Orchestra dell’Arena di Verona, nella recita di giovedì 15 luglio, non possono essere oggetto di valutazione, in quanto il suono della buca non raggiunge gran parte dei posti a sedere numerati (e più costosi). L’eventuale pulizia del suono, la linearità di conduzione, l’uso dei colori e delle cromature bizetiane purtroppo non sono state udite, a causa della nuova amplificazione che ha notevolmente penalizzato gli strumentisti. In taluni momenti è parso che il direttore bulgaro rallentasse eccessivamente i tempi a discapito degli interpreti, costretti a prendere lunghi fiati, ma occorrerebbe riascoltare l’esecuzione senza gli enormi problemi di audio, che hanno certamente castigato l’intero spettacolo.
Anita Rachvelishvili è una Carmen giovane, ma degna di essere affiancata alle grandi interpreti del difficile ruolo francese. La voce è calda e suadente, morbida e piena, ben intensa ed appoggiata sui gravi, massiccia nei centri, facile nell’acuto. Tutto quanto può essere sicuramente migliorato con l’esperienza, soprattutto nel fraseggio e nei chiaroscuri, ma la strada è spianata e la salita del mezzo soprano georgiano non appare particolarmente ripida.
Marcelo Alvarez è purtroppo discontinuo e non esegue il ruolo in maniera particolarmente espressiva e sentita. Non vengono commessi errori e il canto giova certamente delle rinomate e risapute qualità vocali del tenore argentino – che rendono notevolmente piacevoli certe pagine, dal duetto con Micaela a “La fleur que tu m’avais jetée” – ma pur cercando di impreziosire taluni passaggi con i pianissimi e le mezzevoci, il Don José della recita di giovedì 15 luglio è poco passionale e appena sufficientemente elegante nelle pagine in cui occorre.
Mark S. Doss è un Escamillo appariscente, autorevole ed efficace nel personaggio, in possesso di una voce chiara e vigorosa, molto naturale negli acuti baritonali, ben emessi e potenti, ma decisamente in difficoltà nelle note più gravi, traballanti, poco appoggiate e senza potenza, soprattutto in certi passaggi della celebre aria, come “senors, car avec les soldats” oppure “le cirque est plein du haut en bas”. Malauguratamente il ruolo del toreador è ricco di insidie e necessita di una grande estensione vocale, ma spesso si tende a prediligere l’effetto strappa applausi degli acuti a discapito delle zone più basse del pentagramma.
Silvia Dalla Benetta è una Micaela delicata nell’interpretazione, ma decisa e imponente nella vocalità. Il duetto “Parle moi de ma mère” è intenso, toccante e soprattutto raffinato, dove i due artisti si prodigano in un canto spianato musicalmente espressivo, con eleganti filati ed un sapiente uso dei colori. “Et tu lui diras que sa mère” è decisamente emozionante, come pure l’aria di terzo atto “Je dis que rien m’épouvante”.
Completano la rosa degli artisti Carla di Censo e Cristina Melis nei ruoli di Frasquita e Mercedes, Fabio Previati e Luca Casalin nei panni del Dancairo e del Remendado, Manrico Signorini e Giorgio Ferretti in quelli di Zuniga e Morales.
SIGISMONDO [Lukas Franceschini] Pesaro, 6 agosto 2010 (prova generale).
Il Rossini Opera Festival 2010 inaugura con l’opera Sigismondo la quale appare per la seconda volta su un palcoscenico in tempi moderni. Anche in questa occasione, come per la precedente edizione di Rovigo e Treviso nel 1992, la revisione critica è di Paolo Pinamonti. Dramma per musica in due atti fu composto per l’inaugurazione della stagione 1814 al Teatro La Fenice di Venezia e fu un fiasco clamoroso.
In effetti, il libretto fornito da Giuseppe Foppa è piuttosto zoppicante e la drammaturgia sia mal strutturata seppur denota un’originalità sotto taluni aspetti affascinanti. Rossini crea pagine anche lodevoli musicalmente ma l’estro e l’inventiva è qui di gran lunga inferiore rispetto a quelle profuse nel precedente Tancredi. La tormentata esistenza del protagonista corroso dai rimorsi e in preda a deliri e visioni per aver mandato a morte l’adultera moglie non trova un autorevole sviluppo in probabili esiti teatrali efficaci. L’intricata vicenda, che vede un primo ministro reo dell’accusa infondata, la vittima salvata in extremis da un esule (facendola credere sua figlia) trova alla fine un happy ending banale quanto scontato nel momento in cui il suocero di Sigismondo invade la Polonia reclamando vendetta per la figlia e un foglio scagiona il protagonista e conferma le accuse al ministro. Lo spettacolo creato dall’innovativo regista veneziano Damiano Michieletto con belle scene di Paolo Fantin e preziosi costumi di Carla Teti non trova in questa occasione la fantasia che avevano contraddistinto i precedenti spettacoli pesaresi né tanto meno l’originale analisi del recente Don Giovanni alla Fenice. Michieletto ambienta l’intero primo atto in un manicomio ove è relegato Sigismondo, che in tale lettura passa per demente cronico e non episodicamente allucinato, tradendo in buona sostanza il libretto e complicando ancor più la stentorea drammaturgia con riflessi psicoanalitici discutibili e poco appropriati. L’idea di partenza potrebbe anche essere originale e logica ma non avendo sviluppi credibili si ferma in una noiosa quanto confusa e sotto molto aspetti incomprensibile lettura, la quale nel secondo atto ci è resa più chiara nel momento in cui a palazzo reale lo sdoppiamento della regina creduta morta, da figuranti con abiti simili, porta il ministro a nutrire dubbi sui suoi misfatti, ma anche in tale occasione manca una palpabile azione teatrale la quale è confinata in una continua scena fissa, la quale come nel primo atto rallenta e appesantisce la già intricata e confusa vicenda. Un vero peccato perché il regista veneziano ci aveva abituato a ben altre aspettative, seppur non si possa negare il lavoro introspettivo ma con troppi elementi al fuoco e qualche urlo di troppo dei degenti nel nosocomio psichiatrico. Il versante musicale era alterno. Michele Mariotti, direttore debuttante al ROF, opta per una concertazione nervosa e spesso slegata esprimendo una linea drammatica alterna quasi per numeri chiusi ma non equilibrati nelle sonorità. La svogliata Orchestra del Teatro Comunale di Bologna era inoltre al di sotto delle sue reali capacità, buona la prestazione del coro. Del cast emergeva soprattutto Daniela Barcellona più brillante rispetto a prove del recente passato, essa ha recuperato un corpo vocale più omogeneo soprattutto nel registro grave e con pertinente fioritura nei passi d’agilità, semmai restano un po’ inombra accenti e colori ma nel complesso è una prova credibile. Antonino Siragusa esibisce una voce meno nasale del solito ed è un pregio, peccato abbia perso nello squillo, nelle due arie e relativi interventi è comunque preciso e vanta anche una palese aderenza stilistica seppur povero di sfumature. Olga Peretyatko affrontando il ruolo di Aldimira fa il passo più lungo della gamba, in quanto spessore vocale e accenti sono insufficienti per reggere la scrittura drammatica del ruolo, cui vanno aggiunte una limitata capacità virtuosistica. Non brillava neppure Andrea Concetti nel doppio ruolo di Ulderico e Zenovito anche se il recitativo è curato ma nell’aria sono mancati vigore e stile il che farebbe pensare che vesta con più pertinenza i ruoli buffi. Bene Enea Scala nella piccola parte di Radoski mentre Manuela Bisceglie è appena decorosa nel ruolo di Anagilda cui spetta perfino un’aria eseguita con enfasi. Entusiastici applausi del pubblico presente con ovazioni per Daniela Barcellona, il cast tecnico non si è presentato al termine. Una curiosità ed eccezione al Festival: per la prima volta un’opera non è eseguita nella sua integralità, sono soppressi numerosi recitativi e scene intere. Questo pare per una concordanza tra direttore e regista. Il fatto in se è piuttosto strano se non opinabile in quanto un festival avrebbe il compito di ripristinare le opere nella loro interezza, anche se come in questo caso manca lo spartito autografo.
DEMETRIO E POLIBIO [Lukas Franceschini] Pesaro, 7 agosto 2010 (prova generale).
Anche il secondo spettacolo del ROF 2010 è una nuova produzione e ha molte analogie con Sigismondo. Infatti, viene rappresentato per la prima volta a Pesaro, si tratta della seconda proposta in tempi moderni e pure in questo caso non si è in possesso dello spartito autografo (se non per qualche pezzo).
Demetrio e Polibio è la prima opera composta da Rossini nel periodo che va dal 1807 al 1809 ma venne rappresentata a Roma solo nel 1812. Durante gli anni della composizione Rossini frequentava a Bologna la famiglia Mombelli il cui capofamiglia Domenico era un tenore di chiara fama, le sue figlie diverranno affermate cantanti (in particolare Ester, contralto) e la di lui moglie Vincenzina Viganò, sorella del più famoso coreografo, e scrittrice provetta fornirà il libretto a Rossini che compose l’opera quasi per scherzo. La trama è tipicamente settecentesca un re che ha perduto il figlio invade un altro paese e lo ritrova amato della figlia del sovrano suo rivale, la felicità dei figli non farà altro che consacrare la pace tra i due popoli e l’amore trionfa sulla guerra. Canovaccio assai usato e sotto certi aspetti abusato. Non è possibile parlare di capolavoro, del resto quale prima opera è un capolavoro? Ma ascoltato oggi Demetrio e Polibio mette in luce innanzitutto la grande capacità compositiva dell’allora sedicenne Rossini, se ne percepiscono le influenze mozartiane e haydniane pur con una personale proprietà stilistica che nel giro di pochi anni (quattro, cinque) sarebbe esplosa con spartiti di altissimo rango sia nel versante serio sia in quello buffo. Regista dello spettacolo è Davide Livermore, il quale coadiuvato dall’Accademia di Belle Arti di Urbino ha creato uno spettacolo più immaginario che reale. Partendo dalla vera storia che l’opera è scritta per la famiglia Mombelli, Domenico e le due figlie furono i primi interpreti, durante l’overture si assiste al successo di un cantante in un teatro e a tutto ciò che avviene a sipario abbassato dopo uno spettacolo. Qui appaiono i fantasmi dei primi esecutori che non sono altro che il doppio dei protagonisti di oggi e tutta la vicenda si svolge su un palcoscenico immaginario tra casse e costumi durante la notte. L’idea è abbastanza a originale e sotto certi aspetti avrebbe potuto funzionare se a questa fantasia fosse corrisposta anche una visione più accattivante e con una scenografia più appropriata invece delle casse ammassate e dei costumi appesi che formavano un immaginario sipario. Non si può negare che Livermore accentua nella vicenda i fantasmi che sono alter ego dei protagonisti e ciò rende anche movimentata la scena dando un senso e una recitazione pertinente agli interpreti, ma il tutto si restringe ad un allestimento di misura molto accademico e per nulla spettacolare. Sul versante musicale abbiamo in Corrado Rovaris un concertatore attento e scrupoloso, capace di estrarre un estro pertinente dalla partitura e un ritmo appropriato a capo dell’Orchestra Sinfonica Rossini, la quale seppur di ottime intenzioni ci auguriamo in netto miglioramento nel prossimo futuro tanto da diventare un punto di riferimento per il Festival. Buona la performance del Coro Filarmonico di Praga. Tra i protagonisti solo Mirco Palazzi ha almeno uno stile serioso pur non possedendo di suo un organo vocale di primaria importanza né tanto meno un fraseggio variegato. Yihe Shi fa il possibile con i limitati mezzi e va premiata la volontà. In Victoria Zaytseva, che dovrebbe essere un contralto, troviamo un soprano scuro, educata, musicale ma completamente fuori parte, mentre è decisamente imbarazzante la prova di Maria José Moreno per carenza tecnica, stilistica e soprattutto spessore vocale con un registro acuto forzato a fastidiosamente stridulo, incapace di rendere appropriata l’aria del II atto composta da Rossini ispirandosi alle grandi pagine settecentesche drammatiche. È doverosa anche una puntualizzazione per gli organizzatori del Festival: è comprensibile che in un periodo di crisi economica che si riflette anche sui contributi alla cultura si debba giocare di rimessa ma credo non sia pertinente allestire un’opera al Festival con giovani ancora in erba ed appena usciti dall’Accademia Rossiniana, la quale è sì un valore, ma con i dovuti rodaggi e gavette sul palcoscenico. Al termine applausi di cortesia per cantanti e regista.
LA CENERENTOLA [Lukas Franceschini] Pesaro, 8 agosto 2010 (prova generale).
La terza opera del ROF 2010 è La Cenerentola della quale viene ripreso il fantastico allestimento del 1998 curato da Luca Ronconi. L’opera è tra le più felici creazioni buffe non solo di Rossini ma di tutto il genere comico del melodramma.
Il librettista Jacopo Ferretti si ispirò all’omonima e celebra favola di Perrault facendo delle modifiche o aggiustamenti teatrali per accomodare il soggetto alle forme tradizionali dell’opera comica e al gusto del pubblico. In sostituzione della matrigna introdusse un patrigno, un nobile spiantato quanto velleitario e grullo, la fata venne tramutata in un filosofo, Alidoro, e creò di sana pianta il personaggio del cameriere Dandini soprattutto per reggere il filo allo scambio di persona tanto caro alla tradizione buffa. Questi cambiamenti fanno de La Cenerentola una perfetta opera buffa italiana scostandosi decisamente dal fiabesco ed incantato scritto di Perrault. Ciò non toglie che il valore musicale è altissimo e si scosta dalle altre produzioni di Rossini per un marcato acrobatismo vocale che ne fanno forse il capolavoro per eccellenza del genere. Dal punto di vista filologico vi sono tre brani non scritti da Rossini ma dal suo collaboratore Luca Angiolini: l’aria di Alidoro “Vasto teatro è il mondo”, l’aria di Clorinda “Sventurata mi credea” e il coro dei Cavalieri, tutti eseguiti nella prima romana del 25 gennaio 1817. In una successiva ripresa dell’opera sempre a Roma nel 1821 Rossini compose l’aria per Alidoro “La del ciel” lasciando gli alti due interventi invariati, in seguito fu consuetudine eliminare l’aria di sorbetto di Clorinda per equiparare il valore drammaturgico delle due sorellastre. Non v’è dubbio che il regista Luca Ronconi affrontando questa partitura ha voluto rendere in parte quello che di fiabesco era stato tolto da Ferretti. Nel primo atto abbiamo la casa diroccata di Don Magnifico con mobili tutti ammassati ed il trait d’union con la principesca reggia è il camino ove Cenerentola innalzata per la canna fumaria vola portata da un’ipotetica cicogna dalla polvere agli splendori del palazzo di Don Ramiro. Infatti, sono i camini splendenti e numerosi che ornano il palazzo reale e creano una seconda scena che a vista compare sollevando la precedente. Margherita Palli centra appieno uno sviluppo scenografico di grande effetto, Carlo Diappi ci rallegra con i fantasiosi e colorati costumi e la credibilità scenica e divertente del racconto si sviluppa per le tre ore di musica con incredibile leggerezza e pieno compiacimento dello spettatore. Uno dei più riusciti lavori del regista milanese. Sul podio dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna troviamo Yves Abel e con lui l’orchestra trova lo smalto migliore nonché sonorità raffinate, ritmo, fantasia, allegrezza. Abel non è una novità a Pesaro e considerate le sue peculiarità sarebbe il caso di impegnarlo con maggior frequenza. La compagnia di canto era un insieme di buon livello che seppur con i doverosi distinguo dobbiamo registrare che l’affiatamento, la sintonia d’ensemble e la recitazione hanno prevalso su qualche lacuna personale. Di Marianna Pizzolato, che sostituiva Kate Aldrich, ammiriamo sempre più il centro armonico, pastoso e morbido, la particolare perizia nel sillabato, peccato il registro grave non sia altrettanto rifinito e questo si è notato in particolar modo nel rondò finale, reso comunque con capacità trasportando ovviamente il tutto. Lawrence Brownlee è un tenore leggero svettante negli acuti con dizione chiara ma anche raffinato e forbito. Nicola Alaimo è un decoroso Dandini, bravo nel sillabato ma messo in difficoltà dalle roulades. Il migliore del cast era Paolo Bordogna, strepitoso interprete scenico e autorevolissimo cantore, un mattatore divertentissimo. Alex Esposito, che avremo preferito ascoltare nel ruolo di Dandini, dona al filosofo Alidoro stile e sobrietà, ma sotto certi aspetti la sua voce è limitata per il ruolo, resta sempre comunque un valente interprete. Delle due sorellastre, simpaticissime scenicamente, Cristina Faus sovrasta per stile e temperamento Manon Strauss Evrard, quando questa nell’aria da sorbetto non può che confermare i limitati mezzi vocali striduli e disomogenei. Trionfale successo!
IL TROVATORE [Lukas Franceschini] Verona, 11 agosto 2010.
L’ultimo titolo operistico all’Arena di Verona è Il trovatore di Giuseppe Verdi. Opera del 1953, facente parte della cosiddetta trilogia popolare assieme al precedente Rigoletto e successiva La traviata, rappresenta il fulcro di svolta nella produzione verdiana e uno dei massimi capolavori dell’epoca romantica ottocentesca.
Melodramma notturno intriso di passione e di morte è tratto dall’omonimo dramma spagnolo di Antonio Garcia Gutierrez. Salvatore Cammarano scrive un libretto intricato e difficile nella trama, ma molto lineare nei concetti e nei versi che resteranno impressi nel pubblico romano sin dalla prima rappresentazione. La vera protagonista dell’opera è la zingara Azucena cui Verdi riserverà tutta la sua comprensione tra l’amor filiale e la sete di vendetta per la madre condannata al rogo. Inoltre la ricchezza melodica e l’appassionata melanconia della musica nonché il colore orchestrale e la caratterizzazione scolpita dei personaggi ne fanno un capolavoro assoluto, in un primo tempo malvisto dalla critica ottenne sempre il favore del pubblico.
Lo spettacolo, come per tutta la stagione 2010, era di Franco Zeffirelli alla regia e scene mentre gli sfarzosi costumi erano creazione di Raimonda Caetani. Dal punto di vista scenico Zeffirelli centra appieno l’atmosfera medievale con tre torri gigantesche ai cui lati stanno due enormi statue di guerrieri durante una lotta. Il tono notturno è creato dalle meravigliose luci che riflettono il grigio illuminato del palcoscenico e i riflessi sulla retrostante gradinata sono molto suggestivi. L’opera si rappresenta, fortunatamente, con un solo intervallo e i due cambi scena sono teatralmente molto efficaci e teatrali. E’ doveroso confermare che il coup de théâtre nel finale del II atto quando la torre centrale si apre e crea l’altare del convento ove dovrebbe ritirarsi Leonora è emozionante, anche se gli stili non concordano. Persiste invece nel regista l’eccessiva presenza scenica delle comparse che, ad esempio, è ridicola nel lungo corteo di suore. La regia non è specificatamente incisiva, i solisti sono lasciati al loro istinto, peraltro efficace, e le masse sono disinvolte ma tra le cinque produzioni presentate è la migliore.
Sul versante musicale abbiamo il maestro Marco Armiliato debuttante in Arena, direttore non particolarmente raffinato ma sufficientemente capace in una lettura melodicamente precisa. Peccato non abbia imposto nessun da capo in nessuna cabaletta e non abbia soppresso quei frammenti di danza inseriti a sproposito nel II e III atto, eventualmente sarebbe stato più appropriato eseguire tutto il balletto composto successivamente da Verdi per le rappresentazioni di Parigi. La partecipazione del Balletto Spagnolo di El Camborio e Lucia Real è comunque efficace, peccato che lo stile e costumi rimandino più al folklore spagnolo di Carmen che al medioevo de Il trovatore. Nel ruolo in titolo Marcelo Alvarez sfoggia un affascinante morbido timbro, non particolarmente incisivo nel recitativo né tanto meno nel fraseggio; esegue un insipido “Ah sì ben mio”, una “pira” ovviamente abbassata ridotta all’osso e non particolarmente dirompente come mi aspettavo. La Leonora di Sondra Radvanovsky è la migliore del cast, cantante intelligente e musicale capace di finezze anche ammirevoli dopo un incerto esordio, però il timbro nel registro acuto è stridulo e sovente forzato. Marianne Cornetti canta un’Azucena sguaiata e decisamente volgare, i mezzi non le mancherebbero ma è carente di tecnica e gusto.
La grande delusione della serata è stata la prestazione di Dmitri Hvorostovsky. Il celebre baritono russo che ascoltai anni or sono in un trionfale Evgenij Onegin alla Fenice sembra altro cantante. Il suo Conte è sicuramente nobile, cui contribuisce anche un aspetto fisico di rango, ma la voce è completamene sfasata, ingolata, senza armonici, povera d’espressione. Speriamo che questo deterioramento sia momentaneo. Molto apprezzabile la prova di Roberto Tagliavini un Ferrando nobile ben marcato, anche se nel difficile pezzo del racconto non eseguiva i trilli previsti, ma la voce è importante e la resa oltre alla presenza scenica notevole. Anfiteatro non gremito, anzi parecchi vuoti in tutti i settori, ma che ha decretato un autentico trionfo per il soprano, e un buon successo per tutti gli altri.
POLIUTO [Lukas Franceschini] Bergamo, 17 settembre 2010.
Sgomento! Ecco cosa si provava alle 23.30 circa all’uscita dal Teatro Donizetti al termine della serata inaugurale del 5° Bergamo Musica Festival. Nessuno va a teatro per annoiarsi o qualsivoglia cattivo pensiero anzi, anche nella più incerta aspettativa una percentuale d’ottimismo c’invade nella speranzosa riuscita di una serata tutto sommato decorosa. Anche nell’occasione bergamasca così è stato, ma già all’attacco della sinfonia, tristi presagi s’aggiravano. Poliuto si sa non è opera semplice e le sporadiche esecuzioni sui palcoscenici dei teatri confermano la tesi! Composta da Gaetano Donizetti durante il periodo napoletano su sollecitazione anche del tenore Adolphe Nourrit, il quale scese in Italia a cercar miglior fortuna rispetto la concorrenza francese di Gilbert-Louis Duprez, trovandovi invece la maturazione di un suicidio assurdo. L’opera, che sarà rappresentata solo nel 1848 e con altra compagnia, si scosta dal Donizetti classico aprendo la strada per la successiva affermazione parigina con il grand-opéra. La tessitura è decisamente impegnativa ma non impossibile, Nourrit non era certo nel suo periodo migliore, pertanto nello spartito prevalgono accenti e raffinati vigori drammatici più che prodezze vocali. Il soggetto, che si rifà a Racine, trattando un tema religioso come la conversione, che si scontrò acremente con la censura partenopea. Tralasciando ogni riferimento del passato, soprattutto scaligero, la compagnia e l’intero ensemble artistico presentati a Bergamo erano assai deludenti, maggiormente laddove si conoscano le peculiarità dei singoli. Gregory Kunde, l’unico ad aver avuto un applauso al termine del suo assolo, ha tutte le intenzioni per essere un tenore eroico-romantico, peccato arrivi all’appuntamento in ritardo per inevitabile logoramento e seppur ricreatosi una nuova carriera da bari-tenore un conto e cantare Rossini altro Donizetti. Non mancano gli accenti ma non sono mai squillanti, la voce è forzata e talvolta il fraseggio a senso unico. Vi è comunque il senso dell’interprete, reso al massimo delle possibilità, ma ristretto nei confini dei mezzi odierni. Decisamente fuori parte Paoletta Marroccu scritturata per la parte di Paolina. È da chiedersi quale misteriosa forza sotterranea ha contribuito alla sua presenza in locandina. Tecnica dilettantesca, voce sgraziata, acuti forzati e striduli sempre, non hanno potuto che confermare altre sue perfomance recenti o passate. Simone Del Savio, Severo, sarebbe un baritono anche elegante ma povero di colore e accento e laddove non si esibisca al proscenio inudibile. Completava il cast il Callistene cavernoso e disomogeneo di Andrea Papi assieme ai decorosi: Massimiliano Chairolla, Dionigi D’Ostuni e Pier Marco Viñas rispettivamente Nearco, Felice e un cristiano. Il direttore Marcello Rota non ha cercato una specifica lettura si è limitato ad accompagnare neppure con tanto ritmo e spesso con tempi molto dilatati. Discreto l’apporto del coro. Dello spettacolo, purtroppo, dobbiamo registrarlo come uno dei più brutti allestimenti degli ultimi anni. Ben vengano le note di regia nel programma di sala, ma poi nella realizzazione di Marco Spada su un doppio binario di ambientazione fascista anni ’40 e d’epoca romana con tanto di centurioni e pelli di leoni, i conti non tornano. Non vi è una chiara idea drammaturgica, troni, salotti, grotte, statue erette o abbattute. Il massimo dell’ipocrisia si raggiunge durante il duetto del II atto Severo-Paolina quando un servo serve un vassoio con tanto di teiera e forse biscotti. In definitiva non un’occasione mancata ma un’occasione decisamente persa! C’è da chiedersi inoltre con tali prerogative, e anche con passati esiti non del tutto felici, quali possono essere le aspettative del Bergamo Festival per il futuro. Sarebbe auspicabile una decisa inversione di marcia con scelte più oculate artisticamente e un netto rinnovamento della compagine musicale, altrimenti tale Festival non ha ragione di esistere solo per il fatto che si svolga nella città natale del compositore.
POLIUTO [William Fratti] Bergamo, 17 settembre 2010.
Il Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti, giunto alla sua quinta edizione, inaugura la programmazione 2010 con Poliuto, opera scritta per il Teatro San Carlo di Napoli nel 1838, ma rappresentata postuma soltanto dieci anni più tardi, mentre la versione – e revisione – francese è in scena all’Opéra di Parigi nel 1840 con il titolo Les martyrs. Purtroppo poco rappresentata, la tragedia lirica di Salvatore Cammarano musicata da Donizetti è un vero capolavoro, che non ha nulla da invidiare alle pagine marziali e alle ambientazioni storiche di Norma o Nabucco e a cui Verdi ha sicuramente volto uno sguardo nel comporre “O qual soave brivido” in Un ballo in maschera, “Seguirti fino agli ultimi” ne La forza del destino e “Gloria all’Egitto” in Aida.
Lo sforzo della Fondazione e del Teatro Donizetti nel mettere in scena questo titolo va sicuramente premiato; purtroppo la prima di venerdì 17 settembre non è all’altezza delle aspettative e tutta la rappresentazione appare dozzinale ed approssimativa sotto ogni punto di vista. I “professionisti di grande fama” come cita il direttore artistico Francesco Bellotto nel libretto di presentazione della manifestazione, sono capitanati da un Gregory Kunde al suo debutto nel difficile ruolo del titolo, di cui porta a casa a malapena la pelle. Probabilmente messo in difficoltà da una regia apparentemente priva di idee e da una direzione alquanto superficiale, il personaggio sembra completamente inesistente, tanto che una recita in forma di concerto avrebbe sortito lo stesso effetto. Tutto il primo atto è eseguito senza vena né vigore, mentre il secondo riesce meglio, anche se dopo qualche bell’acuto e alcune interessanti variazioni nel da capo in “Veleno è l’aura… Sfolgorò divino raggio” – che strappa gli unici scroscianti applausi della serata – la stanchezza ha probabilmente iniziato a prendere il sopravvento. Il grave errore commesso è forse quello di voler forzare la voce drammaticizzando ed eroicizzando troppo un ruolo belcantistico, che invece necessiterebbe di suoni più eleganti e legati, di colori e sfumature più tipiche del Donizetti serio, piuttosto che di un canto spinto.
Il celebre tenore è affiancato da Paoletta Marrocu, debuttante nel ruolo di Paolina, di cui è possibile salvare soltanto la presenza scenica, purtroppo in parte compromessa da incomprensibili scelte di regia. La bella aria “Di quai soavi lagrime” e la cabaletta successiva “Perché di stolto giubilo” oltre ad essere tagliata, appare modificata di tonalità ed è soltanto l’inizio di un’esecuzione fortemente inadeguata, che vede il suo apice nelle urla di terzo atto, che portano il pubblico a rabbrividire, bisbigliare e dissentire ad alta voce. Soltanto qualche nota centrale emessa in piano segue una minima regola di canto ed è piacevole da udire, il resto è composto da acuti sguaiati, agilità appesantite, passaggi decisamente poco puliti.
Simone Del Savio è un Severo che si presenta con una vocalità brillante, ma col procedere della tragedia si mostra anch’egli in difetto nel colore e negli accenti, poco presente scenicamente e spesso coperto dalla compagine orchestrale. Il duetto con Paolina “Il più lieto de’ viventi” è forse la pagina meglio riuscita, purtroppo rovinata da un’assurda scena del tè: “gli eventi possono essere contenuti in un salotto privato, che si affaccia sul paesaggio, quella Melitene che si è proposta alla mia fantasia come un deserto roccioso e lontano” scrive Marco Spada nelle note di regia, anche se è difficile credere che Melitene si sia proposta a Spada, piuttosto è facile pensare che Spada si sia immaginato Melitene.
Andrea Papi gode di una bella voce scura ed ombrosa, ma non è perfettamente a suo agio nella parte di Callistene, la cui tessitura non gli è forse troppo congeniale, od è la direzione mediocre che lo mette in difficoltà. Completano il cast Massimiliano Chiarolla, Dionigi D’Ostuni, Pier Marco Vinas.
La guida di Marcello Rota è alquanto grossolana e superficiale, che sul podio di un’orchestra poco precisa non ha certo reso omaggio alla partitura donizettiana. Sufficiente è la prova del coro, senza infamia e senza lode.
Marco Spada mette in scena uno spettacolo, con scene e costumi di Alessandro Ciammarughi, apparentemente privo di senso, di idee originali, di eleganza, di drammaticità, di pathos. A tale proposito sono state pubblicate quattro pagine di note di regia – istruzioni per l’uso che nel teatro non hanno ragione di esistere, poiché la bravura di un regista sta anche nel riuscire a trasmettere chiaramente la propria idea – ma non si sono trovate notizie che spiegano in maniera esauriente la decisione – peraltro già vista decine e decine di volte – di mischiare costumi e ambientazioni di epoca romana e del XX secolo, per arrivare al grottesco, se non ridicolo, di mettere in scena delle statuine di centurioni, simili a quelle acquistabili nelle bancarelle accanto al Colosseo. Ciò che si sembra di evincere da tali note di regia, è che forse Poliuto di Donizetti non piace a chi lo ha dovuto mettere in scena; si legge: “quando Donizetti, con le difficoltà imposte da una censura ormai isterica, si addentra più e più nel testo spegnendo il proprio entusiasmo e teme di aver scritto qualcosa di troppo fracassoso non ha tutti i torti. Proprio l’atmosfera mistica manca, nonostante i coretti ripetuti in più punti dell’opera (e anticipati nella sinfonia), mentre più sentito è l’estroverso ambaradan che precede l’arrivo di Severo. […] Poliuto […] resta non realizzata in toto, […] è opera che sente un certo schematismo dei numeri chiusi e, a mio parere, di una certa insita freddezza, dovuta proprio al ridimensionato scavo psicologico dei protagonisti”. Malauguratamente, a quanto sembra e a quanto è parso al pubblico che ha fortemente contestato la messinscena al termine della rappresentazione, Marco Spada non è riuscito a trasmettere agli spettatori né maggior calore, né più intensa personalità ai personaggi.
Certo è che produzioni del genere non aiutano i teatri a far cambiare idea agli amministratori pubblici, circa il ridimensionamento dei finanziamenti agli spettacoli da vivo.
L’OCCASIONE FA IL LADRO [Lukas Franceschini] Milano, 22 settembre 2010.
Il Teatro alla Scala, come di consueto, riapre i battenti dopo la pausa estiva con l’opera allestita dai Giovani dell’Accademia Arti e Mestieri dello Spettacolo, quest’anno la scelta è caduta sulla farsa di Gioachino Rossini L’occasione fa il ladro. Lo spettacolo, con nostro sommo piacere, è la ripresa dell’allestimento del Rossini Opera Festival 1987 con la regia di Jean-Pierre Ponnelle, oggi ripresa da Sonja Frisell, e la straordinaria inventiva di un genio del teatro è ancora apprezzabile dopo oltre un ventennio. L’occasione fa il ladro, ossia Il cambio della valigia, inizia con il servo Martino che porta una valigia sul palcoscenico passando per la platea, vi estrae lo spartito che porge al direttore e dalla stessa, posta sulla buca del suggeritore, escono i cinque protagonisti.
Durante l’overture entrano gli attrezzisti, il quali montano la scena costituita da fondali dipinti pregevolissimi come si usava nell’ottocento. Ecco, il tutto è fatto! Una garbata, gustosa recitazione ed eleganti gag costituiscono uno spettacolo tra i più godibili e divertenti degli ultimi tempi. La Frisell segue a puntino le indicazioni dell’originale Ponnelle essendone stata assistente per lungo corso. L’opera in oggetto è la penultima delle cinque farse che il giovane Rossini compose per il Teatro di San Moisè a Venezia tra il 19810 e il 1813 e venne rappresentata il 24 dicembre 1812 in accoppiata all’opera Avvertimento ai gelosi di Stefano Pavesi. Tipico e riuscitissimo esempio di teatro comico-leggero in un atto (senza coro) e con i classici modelli nella distribuzione delle parti: una coppia di innamorati, una seconda donna comprimaria e un paio di bassi buffi. Sul podio abbiamo ritrovato il giovane Daniele Rustioni, emergente bacchetta italiana che tanto ci aveva convinto in un Barbiere veneziano. Anche in questa occasione ha confermato le sue peculiarità, anzi direi migliorate per spirito, garbo e brillantezza di concertazione, assieme ai giovani dell’Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala. Sul versante canoro la piacevole sorpresa di Pretty Yende brillante ed aggraziata Bernice e il robusto Parmenione di Massimo Cavalletti. Leonardo Cortellazzi era un musicale ed elegante Conte Alberto e Filippo Fontana uno spiritoso Martino. Completavano il cast la puntuale Ernestina di Evis Mulae e il simpatico Don Eusebio di Jaeheui Kwon. Pubblico sulle prime un po’ freddino, ma al termine ha tributato un convinto applauso, meritato, a tutta la compagnia.
MEDEA [William Fratti] Cremona, 1 ottobre 2010.
Il Teatro Ponchielli di Cremona inaugura la Stagione Lirica 2010 con un nuovo allestimento di Medea, tragedia musicata da Luigi Cherubini alla fine del XVIII secolo, permeata ancora dagli schemi di composizione barocca, ma già intrisa di spunti drammatici, che potrebbero essere affiancati a certe pagine mozartiane o addirittura sembrerebbero presagire taluni personaggi verdiani.
La regia è firmata da Carmelo Rifici e si avvale delle semplici ma efficaci scene di Guido Buganza e dei gradevoli costumi di Margherita Baldoni. L’ambientazione è trasposta in un immaginario museo al tempo in cui Cherubini compone l’opera e i personaggi diventano autori e al tempo stesso pezzi pregiati di un’esposizione itinerante, destinata a viaggiare nel tempo e nello spazio, sottolineando l’atemporlità di un dramma consumato secoli fa, ma ancora estremamente attuale. Contribuiscono alla buona riuscita dello spettacolo le luci di Paolo Calafiore, mentre le coreografie di Alessio Maria Romano non sono sempre piacevoli ed opportune, come il ballo delle teche, che più che avere un significato proprio, sembra essere un riempitivo scenico del tempo musicale.
Maria Billeri è una Medea intensa ed interpreta sapientemente il bipolarismo della protagonista, divisa tra l’amore per lo sposo e i figli ed il desiderio di vendetta. La vocalità del soprano pisano possiede le giuste tinte drammatiche, che servono a dispiegare le pagine musicali di un personaggio continuamente in bilico tra la supplica e l’ira, ma difetta leggermente della raffinatezza tipica del canto di fine Settecento. Già dalla prima aria “Dei tuoi figli la madre” si sa abbandonare al patetico, per poi lanciarsi nell’invettiva di “Nemici senza cor… O fatal vello d’or” nel duetto con Giasone, ma gli acuti non sono sempre puliti. Anche il controllo dei fiati non è dei migliori e ne risentono i pianissimi, quasi assenti dall’esecuzione. In terzo atto Maria Billeri appare stanca, ma termina la recita con vigore ed è accolta dal pubblico con applausi fragorosi e meritati.
Lorenzo Decaro è un Giasone corretto, ma non sembra trovare i giusti colori e gli appropriati accenti e la sua interpretazione si mostra piatta e poco brillante. La voce è ben impostata e forse basterebbe maggiore accuratezza nello studio del ruolo. Lo affianca la giovane Eleonora Buratto nei panni di una Glauce luminosa e piacevole nel personaggio, ma non sempre limpida nel canto, dove qualche acuto non è propriamente immacolato e alcune frasi sono un po’ troppo corte.
Luca Tittoto possiede un fraseggio elegante e un’accurata linea di canto e sa interpretare il ruolo di Creonte con la giusta vocalità, caratterizzata da un timbro caldo e morbido e da una buona tecnica, tanto nelle agilità quanto nei passaggi di registro. Alessandra Palomba è Neris ed esegue correttamente, con pathos e trasporto, la bellissima aria “Solo un pianto”. Il ruolo sembra calzarle a pennello, ma non riesce a nascondere completamente i seri problemi sull’acuto che recentemente attanagliano il mezzosoprano milanese.
Completano il cast le ancelle Arianna Ballotta e Maria Letizia Grasselli, che accanto al coro femminile sono purtroppo spiacevolmente disomogenee, oltre a Pasquale Amato nei panni del capo delle guardie del re.
Antonio Pirolli, sul podio dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali, non trasmette particolare eleganza alla partitura cherubiniana, né intenso vigore alle pagine più drammatiche, ma è sufficientemente lineare e regolare nell’andamento musicale. Non sempre privo di difetti è il Coro del Circuito Lirico Lombardo guidato da Antonio Greco. Il pubblico presente in sala concede scroscianti applausi per tutti al termine della rappresentazione, soprattutto per la protagonista Maria Billeri.
IL TROVATORE [Lukas Franceschini] Parma, 5 ottobre 2010.
Il Festival Verdi 2010 è stato inaugurato da una nuova produzione dell’opera Il Trovatore al Teatro Regio di Parma.
Titolo fra i più celebri e più eseguiti dell’intero melodramma, fu il vero grande successo del compositore in vita, ancor maggiore di Nabucco e per tutto l’Ottocento quello che critica e soprattutto pubblico ritennero il capolavoro verdiano. Tratto dal dramma spagnolo El Tovador di Antonio Garcia-Gutierrez non fu un’opera commissionata da un teatro, ma un puro istintivo desiderio del compositore. L’opera in un primo tempo si pensava destinata a Napoli per poi approdare Roma ove la prima si ebbe il 19 gennaio 1853. Composta parallelamente a La Traviata, questa commissionata da Venezia, in essa è emblematico il grado di maturità musicale raggiunto da Verdi dopo il precedente Rigoletto. La lunga e complicata corrispondenza con il librettista Salvatore Cammarano raggiunge alla fine una sintesi perfetta nello stile del melodramma, ovviamene eliminando parti e alcuni personaggi dell’originale dramma iberico. Il librettista viene a mancare prima di aver finito il lavoro, che verrà completato da Verdi stesso con l’aiuto del giovane poeta napoletano Leone Emanuele Bardare. Quello che contraddistingue ed eleva Il Trovatore rispetto a tutta la produzione verdiana è la “tinta” e per tale intendiamo il colore sinistro e notturno presente in ogni scena e personaggio di massima espressione romantica. Spesso l’opera è stata criticata per le troppe morti presenti nel dramma, ma del resto la vita è anche morte come lo stesso Verdi scriveva alla cara amica contessa Maffei. La grande aspettativa parmense era riposta sulla bacchetta di Yuri Temirkanov, in specie dopo la magnifica Traviata di qualche anno addietro. Purtroppo le attese sono andate deluse. Temirkanov, superbo direttore di estrazione sinfonica, non trova tra le sue corde il ritmo e la narrazione del romanzo epico-romantico. Certo non manca lo spessore del grande musicista e lo si sente soprattutto nell’introduzione e nel ritmo, l’orchestra poi è di buon livello come sappiamo e magnifico il coro, inaccettabile invece che al Verdi Festival venga eseguita tutta l’opera senza un “da capo” quando in locandina si scrive che viene eseguita l’edizione critica. Il cast non era particolarmente eccelso e dobbiamo anche registrare la pessima abitudine dei teatri di annunciare in sala a luci spente i cambi improvvisi del cast. Così abbiamo trovato la Leonora di Teresa Romano, giovane soprano con voce robusta e importante cui serve ulteriore studio per mettere a fuoco il settore acuto che risulta eccessivamente gridato; speriamo in una pausa a tal fine, perché a nostro modesto parere il materiale vocale è di prim’ordine come la personalità. Marcelo Alvarez avrebbe le carte in regola per essere un convincente Manrico ma non si sa se per pigrizia o per disimpegno è molto approssimativo, senza romanticismo o drammaticità ove serve e il canto “aperto” è sempre più evidente. Claudio Sgura è un baritono generico e poco raffinato, carente sia di nobiltà si d’accenti. Mzia Nioradze è un mezzosoprano solo in locandina, il settore acuto è anche svettante ma non prodigioso, il temperamento accertabile, le zone gravi un po’ forzate, il personaggio alterno. Cavernoso e gutturale il Ferrando di Deyan Vatchkov. Lorenzo Mariani opta per una lettura essenziale e cupa ma efficace, pochi elementi simbolici ben distribuiti e dove il clima è notturno impera uno squarcio di luna suggestivo. Geniale l’abbraccio quasi allucinato della zingara ad un piccolo del campo nomade. In tono le scene appropriate e i bellissimi costumi di William Orlandi. Successo molto tiepido per tutti con qualche “brontolio” per la Romano.
SALOME [Lukas Franceschini] Firenze, 12 ottobre 2010.
La stagione invernale del Teatro Comunale di Firenze inizia con un memorabile allestimento dell’opera Salome di Richard Strauss firmato da Robert Carsen.
Ultima tappa di una triplice coproduzione con Torino e Madrid, alla riuscita dello spettacolo vanno sicuramente ad aggiungersi le scene spettacolari di Radu Boruzescu e gli abbaglianti costumi di Miruna Boruzescu, quest’ultimi di ispirazione sia moderna sia biblica antica. Carsen attualizza l’opera mettendo a fuoco in maniera acuta ed azzeccata il binomio potere-denaro, il quale è da sempre denominazione comune di un certo tipo di vita sociale. Salome è ambientata in un caveau di un casinò, alle pareti innumerevoli cassette di sicurezza in acciaio lucido e al lato destro impera una cassaforte aperta. In questa lettura il potere acquisito da Herodes è frutto del tavolo verde (potremo trovarci ad esempio a Las Vegas), la figura della protagonista è privata della sua carica erotica e perversa trasformata in vittima dell’ambiente in cui vive, in particolar modo influenzato da una madre diabolica. La reggia non è altro che un luogo di vizio, lussuria e denaro ed è emblematica all’entrata di Jochanaan: si aprano le scene sul fondo ed egli avanza da un desolato deserto di biblica ispirazione. La celebre danza dei sette veli è realizzata da una coreografia nella quale Salome, vestita come Herodias, è circondata da sette uomini in preda all’eros più sfrenato, i quali nell’apice del vortice passionale si denudano. La protagonista è dunque vittima di un sistema del denaro, infatti, alle sue richieste della testa di Jochanaan si aprono le cassette alle pareti da dove cade polvere d’oro in quanto con l’oro talvolta si potrebbe ottenere tutto, ma lei è irremovibile e allora tutti i personaggi nella scena finale le portano la testa non su un vassoio ma in mano a loro stessi girovagando per il palcoscenico. Salome al termine scopare con la testa del Battista per lo stesso deserto da dove egli precedentemente era apparso. Carsen in linea con questa concezione si permette di fare una modifica: uscita di scena Salome sarà lo stesso Herodes ad assassinare con una rivoltella Herodias, considerata la vera colpevole del mondo lussurioso e deviato cui la corte e la figlia sono assoggettate. Salome è di per sé un’opera mozzafiato ma in questa realizzazione toglie decisamente il respiro! Purtroppo tale magnificenza non era altrettanto corrisposta dalla lenta, sfibrata, pesante e diafana concertazione di Ralf Weikert, venuto a sostituire il previsto Paolo Carignani. Una partitura come Salome richiede un ampio respiro orchestrale che il direttore non è stato in grado di imprimere pur avendo a disposizione un’ottima orchestra come quella del Maggio Musicale Fiorentino. Sul versante canoro abbiamo avuto una buona compagnia di canto sulla quale primeggiava Kim Begley, un Herodes insinuante, perfettamente calato nel ruolo e puntuale vocalmente. Janice Baird è stata una protagonista decorosa, tuttavia mancava in quel vigore e potenza vocale necessari nella zona centrale, ma era molto convincente scenicamente e con ottimo fraseggio. Irina Mishura estremizzava il personaggio di Herodias, probabilmente anche coinvolta dall’impianto registico, ma nei suoi interventi faceva valere il temperamento e l’efficacia canora. Ottimo lo Jochanaan di Mark S. Doss, un ruolo che ormai è diventato un suo cavallo di battaglia, come altrettanto il Narraboth di Mark Milhofer e il Paggio di Jennifer Holloway. Convincenti lutti gli altri numerosi componenti del cast. Al termine grandi applausi alla compagnia, tiepidi al direttore, e due “Buh” isolati, ignoriamo a chi fossero indirizzati.
I vespri siciliani [Lukas Franceschini] Parma, 20 ottobre 2010.
Il secondo titolo del Verdi Festival 2010 è stato I vespri siciliani, opera composta da Verdi nel 1855 per il Teatro dell’Opera di Parigi.
Prima di addentrarci nel dettaglio della serata è doveroso fare una considerazione: qual è la prerogativa di un Festival monografico come quello verdiano di Parma? Sicuramente, in sintesi, proporre i titoli del compositore nella loro edizione critica e versione originale, o versioni originali come nel caso specifico, cercando di recuperare il vero senso filologico e musicale delle opere auspicando una più prolifica collaborazione con il Centro di Studi Verdiani di Parma. Attese che sono andate del tutto deluse in questa produzione per i motivi che vado ad analizzare. È vero che I vespri siciliani non è opera di repertorio, ma un festival che si prefigge di essere tale e in aggiunta con la prospettiva delle celebrazioni verdiane del 2013, bicentenario della nascita dell’autore, avrebbe dovuto proporre l’originale versione francese. In locandina inoltre non figura neppure l’autore della versione ritmica del libretto di Eugene Scribe e Charles Duveyrier. Necessariamente si sarebbe dovuto provvedere anche all’inserimento del balletto, peculiarità d’obbligo nel teatro parigino dell’epoca, a cui Verdi acconsentì. Inoltre, altra grave lacuna, l’opera andrebbe eseguita nella sua integralità, non è questo lo scopo di un festival dedicato appunto a Verdi? Ultimo ma non secondario l’allestimento. In locandina si pubblica “nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma”. Ma nuovo non lo è affatto, è solo una rielaborazione di un precedente spettacolo dato al Teatro Verdi di Busseto qualche anno fa. Artefice della parte visiva è Pier Luigi Pizzi, al cui nome non serve aggiungere nulla se non riconfermare l’arte maestra di una lunga e celebrata carriera. Come in altre due occasioni Pizzi sposta l’azione dal XIII secolo originale al XIX recuperando quel senso patriottico italiano che contraddistingue sia la compagine drammaturgica sia il momento della composizione dell’opera. L’operazione però si era già vista e stavolta sarebbe stato più opportuno una collocazione storica precisa considerato che nell’opera gli usurpatori sono i francesi, nel risorgimento gli austriaci. Lo spettacolo, pur nella sua essenzialità, è molto bello e ben curato, anche se in taluni momenti Pizzi ricalca se stesso in una produzione scaligera del 1989. Bellissimi i costumi e di grande fascino il gioco di luci, la resa drammaturgica è di prim’ordine. L’unico aspetto che mi ha lasciato perplesso era la presenza in platea del coro e talvolta dei cantanti. A Busseto tale soluzione era necessaria considerata l’esigua capienza del palcoscenico, ma al Teatro Regio è francamente superflua e poco accattivante. Sul podio abbiamo trovato Massimo Zanetti, un professionista che si conosce da tempo. La sua lettura era pertinente ed incisiva, l’orchestra rispondeva al meglio e il respiro musicale era molto valido. Spesso però i tempi erano molto dilatati e non posso dire se per concezione del mesto oppure per “sorreggere” i cantanti nella difficile esecuzione dell’opera. Inoltre non mi è dato sapere dei numerosi tagli delle cadenze scritte, di alcune sezioni, la ripresa della cabaletta di Procida e dell’aria di Arrigo nel V atto “La brezza aleggia”, dei quali, riferendomi a quanto espresso sopra, non trovano giustificazione. Il cast rispecchia in parte l’attuale situazione canora italiana: tante ombre e poche luci. Daniela Dessì per la seconda volta nella sua carriera affrontava il ruolo di Elena. Decisione oggi poco opportuna considerate le ultime scelte di repertorio e anche del naturale logorio vocale. Ella però ha dalla sua una grande musicalità, la quale le ha reso possibile affrontare ancora una volta il ruolo seppure in un’eccessiva semplificazione dello spartito. La sortita non è stata veemente causa una zona grave vacante e un registro acuto ridimensionato che deve risolvere in falsetto, ma nell’aria del IV atto taluni risultati ci sono stati. Ovviamente, con tali prerogative naufraga platealmente nel celebre bolero. Arrigo era il giovane tenore Kim Myung Ho che sostituiva il previsto Fabio Armiliato, il quale pare oggetto di qualche contestazione alla prima. Questo giovane cantante è stato letteralmente catapultato sul palcoscenico ed essere riuscito a terminare la recita è un puro miracolo. La tecnica è ancora acerba, i colori inesistenti, il fraseggio approssimativo. Certo il materiale non manca, ma occorre ancora studio e soprattutto ruoli meno ostici per i debutti. Leo Nucci, Monforte, è quel grande artista che sappiamo, ma anche per lui il tempo passa inesorabile pertanto la voce è spesso nasale e gli accenti sottotono, resta lo stile che gli permettono ancora una dignitosa performance considerato che la parte di non è particolarmente acuta. Molto più apprezzabile il Procida di Giacomo Prestia, un basso forse leggermente ingolato ma di taglio verdiano appropriato e con un registro autorevole molto apprezzabile, al quale è stato riservato il più forte consenso della serata da parte del pubblico. Eccellente la performance del coro istruito da Martino Faggiani. Durante l’esecuzione il pubblico ha applaudito raramente, ma al termine ha decretato un discreto successo a tutta la compagnia.
I vespri siciliani [William Fratti] Parma, 24 ottobre 2010.
L’opera più attesa dai melomani al Festival Verdi 2010 è I vespri siciliani, non solo per il cast stellare dei protagonisti chiamati ad interpretare il difficile titolo, ma soprattutto per la lunga mancanza dal palcoscenico del Teatro Regio di Parma. Come recita la locandina, Pier Luigi Pizzi è chiamato a mettere in scena un “nuovo allestimento” che tale è tecnicamente, poiché nuova è la scenografia e parzialmente nuovi sono i costumi, ma l’idea drammaturgica e registica è la medesima del 2003 a Busseto, che in quest’occasione è rivisitata e certamente migliorata, ripulita e sviluppata. Scompare la copertura di stoffa nera, per lasciare spazio ad un pavimento di legno bianco; è eliminato il fondale a specchio, a favore di uno sfondo nero, con una specchiera incorniciata utilizzata soltanto in terzo atto. Inoltre fanno il loro ingresso alcuni elementi scenografici più importanti, come tavoli e panche, le sbarre della prigione e l’altare della cappella nel finale; mentre altri sono numericamente rinforzati, come le barche dei pescatori siciliani nei primi atti o i divani nel palazzo di Monforte. Anche le coreografie, qui affidate a Roberto Maria Pizzuto, sono notevolmente migliori delle precedenti, più adeguate e meno baroccheggianti. Lo spettacolo è pregevole e ben equilibrato, interessante nelle gestualità imposte dal regista, avvalorato dalle bellissime luci di Vincenzo Raponi, affascinanti e suggestive, ma se nella piccola bombonnière bussetana era un’esigenza di spazio utilizzare la platea per un’adeguata ed originale mise-en-scène, a Parma diventa una scocciatura per le centinaia di spettatori alloggiati nei secondi e terzi posti di palchi e galleria, che riescono a vedere soltanto ciò che avviene sul palcoscenico.
Come da tradizione l’opera è rappresentata in italiano con alcuni tagli, tra cui il balletto de Le quattro stagioni, una parte del concertato e l’aria di Arrigo “La brezza aleggia intorno”, sortendo le ire dei puristi che si aspettavano dal Festival l’edizione francese integrale.
La direzione è affidata a Massimo Zanetti, che si dimostra preciso ed equilibrato nel gesto e nel suono fin dalla sinfonia, mantenendo l’orchestrazione omogenea fino al termine dell’opera.
Daniela Dessì, una delle più grandi interpreti del repertorio verdiano e verista, non s’intimorisce nel mettersi in mostra col difficile ruolo di Elena, dopo trenta anni di carriera. La sua grande personalità e l’imponente presenza scenica contribuiscono a disegnare un personaggio altamente espressivo e ben delineato. L’aria di ingresso “In alto mare e battuto dai venti… Coraggio, su coraggio” è eseguita con perizia, più fedele allo spartito che alla consuetudine nell’uso dei colori, decretando la gioia dei puristi del canto, ma sollevando qualche leggero mormorio tra i tradizionalisti affezionati alle più efficaci, ma talvolta meno corrette, esecuzioni drammatiche. Il celebre soprano si abbandona al lirismo più raffinato nei duetti con Arrigo, eccellendo nella tecnica e nell’uso di piani e pianissimi, che fanno del suo canto uno dei più eleganti, arrivando ad eseguire integralmente al quarto atto la terribile “Arrigo! Ah! Parli a un core” senza apportare variazioni all’ardua cadenza, che va dal do acuto al fa diesis grave, mostrando una grande intelligenza professionale, un ottimo controllo dei fiati e una linea di canto tanto musicale quanto toccante nelle tinte e nel fraseggio. Durante i concertati sa dosare i forti e i fortissimi senza mai affaticarsi, facendo risaltare il carattere dolce e al tempo stesso combattivo del personaggio, ma rischiando talvolta di scomparire sotto la compagine orchestrale. Dopo quattro lunghi atti sembra perdere l’elasticità occorrente per affrontare il bolero, da Verdi inserito nella scena conclusiva, ma il terzetto seguente è una pagina toccante eseguita con maestria.
Nella recita di domenica 24 ottobre Daniela Dessì è affiancata da Kim Myung Ho che sostituisce l’indisposto Fabio Armiliato. Trentenne, studente al quinto anno del Conservatorio di Parma, esegue l’opera in maniera sufficientemente corretta, seppur abbassata di tono in certe pagine, ma è ancora scolastico e privo di colori e brillantezza. Il giovane tenore coreano va certamente premiato per aver salvato diverse recite e per aver avuto il coraggio di salire sul palcoscenico ad interpretare un’opera così difficile, ma la direzione del Teatro Regio, che nei giorni precedenti aveva già subito la disastrosa riuscita de Il trovatore, asserendo la motivazione che tracheite e mali di stagione avevano colpito alcuni interpreti, ha indubbiamente commesso una gravissima leggerezza nel non prevedere la copertura dei protagonisti in un’opera così poco frequentemente rappresentata e spesso assente dal repertorio dei grandi cantanti. Fabio Armiliato, udito durante la prova generale di giovedì 7 ottobre, ha dimostrato di saper fraseggiare con eleganza, donando intense emozioni alla parte di Arrigo, arricchita di colori raffinati e mezze voci delicate, sempre attento alla tecnica e alla corretta emissione vocale, pur avendo a che fare con una tessitura particolarmente ardua.
Leo Nucci è un Monforte di classe, dal fraseggio espressivo, dallo stile inconfondibile, dalla linea di canto morbida ed esemplare, dalle frasi delicatamente musicali. La lunga scena e aria “Sì, m’abborriva ed a ragion!… In braccio alle dovizie” è eseguita a regola d’arte e il cittadino onorario di Parma dona agli spettatori una vera e propria lezione di canto. Purtroppo, a causa di un testo che per tutti è difficile da memorizzare, in taluni passaggi si nota qualche incertezza nella parte, a cui forse sopperisce un suggeritore, ma ciò richiede all’artista una profonda concentrazione sulla parola, che sembra togliere peso all’interpretazione.
Giacomo Prestia è assolutamente perfetto nel ruolo di Procida, tanto nel personaggio quanto nella linea vocale brillante e carica di accenti. L’interpretazione è eccezionalmente efficace, adeguata e autorevole, mentre il canto è totalmente impeccabile, senza alcuna minima sbavatura. Al termine dell’aria d’ingresso “O patria, o cara patria, alfin ti veggo!… O tu, Palermo, terra adorata” il pubblico lo accoglie con acclamazioni e applausi interminabili, che decretano per il basso fiorentino un vero successo personale. Colpiscono l’eccellente intonazione, l’esemplare uso dei chiaroscuri, l’eleganza del fraseggio, che fanno dell’artista fiorentino – debuttante nell’Alzira fidentina alla prima edizione del Verdi Festival nel 1990 – uno dei migliori bassi verdiani nel panorama lirico internazionale.
Accanto ai protagonisti si cimentano dei comprimari esperti e di tutto rispetto, tra i quali si distingue per bravura il Danieli di Raoul D’Eramo, mentre risulta essere un poco stridula la frase di apertura “Evviva, evviva il grande capitano!” del Tebaldo di Roberto Jachini Virgili. Completano il cast Adriana Di Paola, Alessandro Battiato, Camillo Facchino, Andrea Mastroni, Dario Russo.
Eccezionale è il Coro del Teatro Regio guidato da Martino Faggiani, che risponde con maestria all’arduo compito di mantenere l’eccellenza della compagine parmigiana, capitanata dal tenore Eugenio Masino, anche in un’opera mai eseguita in precedenza, se non dagli artisti presenti nel Coro della Fondazione Arturo Toscanini nella precedente edizione bussetana.
ATTILA [William Fratti] Busseto, 21 e 27 ottobre 2010.
Attila è il titolo allestito sul palcoscenico del Teatro di Busseto, unica esecuzione del Festival Verdi 2010 svolta in versione integrale, senza tagli e con tutti i da capo previsti dalla partitura. La nuova produzione del dramma lirico del giovane Maestro delle Roncole è affidata a Pierfrancesco Maestrini, che torna a Busseto dopo un fortunato Il trovatore messo in scena nel 2005.
Il regista fiorentino si avvale anche questa volta di video proiezioni, affidate all’esperto Alfredo Troisi, in grado di raccontare la storia del Re degli Unni unitamente a quanto accade sul palcoscenico, come se fosse un film animato da personaggi veri e reali. Le scene, ma soprattutto i bellissimi costumi di Carlo Savi contribuiscono alla buona resa dello spettacolo, in una suggestione che richiama il cinema tridimensionale, avvalorato da un trucco tanto efficace quanto meraviglioso e dalle affascinanti luci di Bruno Ciulli.
La direzione precisa, puntuale e ricca di colori del giovanissimo Andrea Battistoni alla guida dell’Orchestra del Teatro Regio di Parma, mantiene costante il vigore del primo Verdi e risulta pienamente adeguata nell’accompagnamento dei solisti, evidenziando un contatto diretto e amalgamato tra la buca ed il palcoscenico.
Giovanni Battista Parodi è debuttante nei panni di Attila e pur non possedendo ancora le finezze e gli accenti propri di uno specialista del ruolo, sa disegnare un personaggio autorevole, mostrando spiccate doti drammatiche. La linea di canto è morbida ed omogenea, la vocalità è cantabile ed elegante, i numerosi acuti sono ben sostenuti e la tecnica appare solida e corretta. La gran scena e concertato “Spiriti, fermate” è sinceramente avvincente ed emozionante e il giovane basso genovese sa dosare correttamente l’emissione del suono, non permettendo che l’orchestra lo copra in alcun punto. Sarà indubbiamente un gran piacere riascoltarlo in futuro nel medesimo ruolo, di cui certamente si denoteranno la crescita e la maturazione.
Susanna Branchini, alle prese con la difficile parte di Odabella, mostra una presenza scenica importante, ed è imponente e autoritaria nel personaggio, ma la voce sembra essere poco misurata. La bellissima cavatina d’ingresso “Santo di patria” è pressoché cantata in forte, in alcuni punti quasi sfiorando l’urlo e in apparenza in difficoltà tanto negli acuti estremi quanto nelle note basse. Il colore ed il timbro del giovane soprano sono belli, ma la tecnica necessita di perfezionamento, soprattutto nell’intonazione e nel controllo dei fiati. Tali problematiche si denotano nelle parti più liriche, particolarmente durante la seconda aria “Liberamente or piangi… Oh! Nel fuggente nuvolo” dove la linea di canto sembra perdere di compattezza, i piani e i pianissimi sono poco presenti e raramente sostenuti e l’intonazione non è delle migliori. Pregi e difetti dell’artista si trascinano poi per tutta la durata dell’opera. Nella recita di mercoledì 27 ottobre la protagonista femminile è Maria Agresta, che dimostra subito di possedere una vocalità adatta all’arduo ruolo drammatico, con un registro centrale pieno e corposo, ben controllato nel passaggio all’acuto e che non si svuota scendendo verso quello grave. Il giovane soprano manifesta palesemente di conoscere la tecnica, pur avendo ancora bisogno di taluni miglioramenti, soprattutto negli acuti estremi, che talvolta non sono perfettamente puliti, e sui pianissimi, in apparenza non sempre del tutto controllati.
Roberto De Biasio è un Foresto molto musicale, sempre morbido, con una vocalità raffinata, dove l’uso della parola cantata è chiaramente messo in primo piano. Il tenore di origine siciliana sa mettere i giusti accenti senza spingere in alcun momento, passando dai centri agli acuti con omogeneità e scioltezza, dosando sapientemente piani e forti. La romanza di terzo atto “Che non avrebbe il misero” è eseguita a regola d’arte, carica di commozione ed impreziosita dall’uso di mezze voci, a ulteriore dimostrazione della professionalità del musicista, di scuola belcantista.
Sebastian Catana mostra fin da subito la maniera di cantare dei baritoni di una volta, come se appartenesse alla vecchia scuola italiana, prodigandosi in frasi e passaggi dotati di bellezza ed eleganza emozionanti. Il ruolo di Ezio ha una tessitura quasi tenorile, ma non mette in difficoltà l’artista rumeno, che gode di acuti ben saldi e sostenuti. La voce è armonica e pastosa, la tecnica è importante e robusta, mentre l’interpretazione è purtroppo carente, apparendo poco intensa e sentita.
Completano il cast Cristiano Cremonini, un Uldino efficace, musicale e dotato di buona intonazione, e Ziyan Atfeh, un Leone stentoreo e imponente nella voce e sulla scena.
Martino Faggiani è alla guida di un gruppo che non è composto dagli elementi più stabili del Coro del Teatro Regio di Parma, ma riesce ad amalgamare i professionisti del canto in un vero coro verdiano, soprattutto nella compagine maschile, che eccelle in “Qual notte!… L’alito del mattin”.
Lunghi, scroscianti e meritati applausi per tutti gli interpreti.
ATTILA [Lukas Franceschini] Busseto, 25 ottobre 2010.
Attila, terzo ed ultimo titolo del Verdi Festival 2010 allestito nel decentrato Teatro Verdi di Busseto, è col senno di poi il vero successo della rassegna.
Opera della prim’ora imprescindibile dalli tipica scrittura musicale della prima metà dell’ottocento trova una sua collocazione tra gli spartiti verdiani per l’accento e il gusto “quarantottesco” seppur corredata da un libretto lacunoso iniziato da Temistocle Solera e completato da Francesco Maria Piave. Molti studiosi, Budden in primis, si sono sempre meravigliati dell’attenzione che Verdi riservò a questo dramma di Werner poco edificante nonché appassionante. Verdi invece riesce, anche se di misura, a cavarne un’opera nella quale i personaggi sono sufficientemente scolpiti e metterli a dura prova con una scrittura particolarmente difficile, ma se ben eseguita di ampie soddisfazioni. Il vero punto debole sono testo e drammaturgia, sconnesso il primo, zoppicante la seconda, ma ciò non toglie che si possano apprezzare pagine di indubbio valore e negli ultimi anni da opera di nicchia è passata a opera quasi di repertorio. Pierfrancesco Maestrini rilegge il melodramma con l’ausilio di bellissime videoproiezioni, le quali generalmente non mi ha hanno mai entusiasmato, ma nel caso in oggetto reggono ottimamente perché effettuate con gusto nella chiara e non astratta vicenda storica. Le ristrettezze poi del palcoscenico di Busseto non avrebbero permesso allestimenti più imponenti. Le belle scene, ma ancor più i “selvaggi” costumi di Carlo Savi, ci riportano forse ad un immaginario stereotipato di Attila, ma ben venga rispetto a cervellotiche e irritanti realizzazioni modernizzate di indubbio gusto. I personaggi sono ben definiti, senza strafare, o meglio come ce li aspettiamo: un barbaro tiranno, una giovane guerriera, un romano viscido e avido di potere ed un giovane innamorato. L’unica perplessità è rappresentata nel far uscire di scena i cantanti rientrando poi per cantare i “da capo” delle numerose cabalette.
Sul podio il giovane Andrea Battistoni, giovane promessa veronese, il quale ha mantenuto anche in questa occasione le favorevoli impressioni che ebbi durante una Bohème nel febbraio scorso. Energicamente sostenuto nel ritmo egli dirige Attila con entusiasmo vigoroso, ci sono alcuni punti da raffinare, ma nel complesso la sua bacchetta funziona a meraviglia per stile e colore, ed è ipotizzabile che risultati ancor maggiori verranno in futuro. Inoltre, ed è un gran pregio, ha tenuto l’orchestra sotto controllo quanto al volume considerando lo spazio ed è cosa non facile, ridimensionando anche la parte corale, la quale era sostenuta dell’ottimo coro del Regio di Parma. Ha eseguito la partitura integralmente, contrariamente a Trovatore e Vespri Siciliani, dirigendo a memoria! Buona la compagnia di canto dove primeggiava il Foresto di Roberto De Biasio, tenore di ottima timbratura vocale che in questo ruolo a messo a fuoco un personaggio credibile e superato senza particolari difficoltà una parte di squisito lirismo. Giovanni Battista Parodi era un valente protagonista, mancavano forse accenti più forbiti ma nel complesso un’egregia prestazione. Un po’ monocorde l’Ezio di Sebastian Catana, ma egualmente preciso e meritevole di plauso nell’assolo del II atto. Resta infine Susanna Branchini, Odabella, la quale ha destato più di una perplessità, ma mi riservo di ascoltarla in altro ruolo e in un teatro diverso. Questo soprano ha voce bellissima ed importante, per nulla spaventa dall’ardua partitura che riesce a superare anche con facilità e i passi lirici sono ben eseguiti, peccato che il registro acuto sia urlato il che infastidiva parecchio, cui va a sommarsi una certa carenza di colore. Applausi entusiastici al termine.
MARIA STUARDA [William Fratti] Piacenza, 28 ottobre 2010.
La Stagione Lirica 2010-2011 del Teatro Municipale di Piacenza si apre con Maria Stuarda di Gaetano Donizetti, opera assente da diverso tempo dal palcoscenico piacentino. Per l’occasione la Fondazione Teatri di Piacenza, in coproduzione con il Teatro Comunale di Modena, sceglie l’allestimento dell’Opéra Royal de Wallonie di Liegi firmato da Francesco Esposito, creato in Italia per il Teatro Donizetti di Bergamo e messo in scena all’Opera di Roma e al Teatro Bellini di Catania.
Il celebre regista e costumista, che si avvale delle affascinanti e suggestive scenografie di Italo Grassi e disegno luci di Fabio Rossi, sa creare situazioni altamente evocative, dipingendo sul palcoscenico la vicenda infelice della Regina di Scozia. Purtroppo lo spettacolo appare molto statico, risultando a tratti noioso; è piacevole e interessante nell’aspetto visivo, ma sembra più un susseguirsi di belle fotografie, fisse e immobili seppur pregevoli, piuttosto che lo svolgersi di una vicenda.
Nel ruolo del titolo è Mariella Devia, considerata innegabilmente la miglior interprete del belcanto italiano da tutto il mondo della lirica. Il celebre soprano assente da Piacenza, se si esclude l’attività concertistica, dai tempi di Linda di Chamounix nella messinscena bolognese di diversi anni fa, incanta il numeroso pubblico accorso. La voce è sempre fresca e luminosa, la tecnica è da manuale, la linea di canto è perfettamente omogenea, le note sono uniformemente appoggiate in tutti i registri; degli accenti, dei fraseggi e dei virtuosismi nulla può essere criticato. Se in talune occasioni la signora del belcanto è stata rimproverata di freddezza nell’interpretazione, ciò non vale in quest’occasione, dove il personaggio di Maria Stuarda è dipinto in maniera eccelsa, dolce e arrendevole con Leicester, regale e autorevole nell’immaginario rapporto con Elisabetta, accogliente e rassegnata nei confronti della propria sorte. La scena madre dell’opera “Morta al mondo e morta al trono… Figlia impura di Bolena” concepita da Schiller e abilmente musicata da Donizetti, è resa con impeto ed intensità drammatica, mentre la preghiera “Deh! Tu un’umile preghiera il suono” è sinceramente commovente.
Mariella Devia è affiancata da Nidia Palacios nel ruolo di Elisabetta, credibile, imponente e maestosa nella presenza scenica. Purtroppo presenta fin dalla cavatina d’ingresso “Ah! Quando all’ara scorgermi… Ah! Dal cielo discenda un raggio” una vocalità molto leggera, poco corposa nei centri, arrivando ad essere quasi vuota nei gravi, che sono ingrossati, e negli acuti, che appaiono poco puliti.
Anche il Leicester di Adriano Graziani sfortunatamente non è dei migliori. Il giovane e promettente tenore, che era stato particolarmente chiaro e brillante nel ruolo di Edmondo in Manon Lescaut lo scorso aprile, qui appare opaco e poco squillante, sperando che si tratti solamente di un’indisposizione temporanea. L’aria “Ah rimiro il bel sembiante” strappa qualche mormorio nel pubblico, che poi esprime il proprio dissenso al termine dello spettacolo.
Il ruolo di Talbot è affidato ad un efficace Ugo Guagliardo, dall’accento e dal fraseggio belcantista, mentre Gezim Myshketa veste i panni di un valido e sicuro Cecil. Conclude il cast l’Anna Kennedy di una convincente Caterina Di Tonno.
Antonino Fogliani, sul podio dell’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna, non sa portare i musicisti alla raffinata precisione dell’orchestrazione donizettiana, privo di eleganza e con poca espressività nel suono e nei colori, risultando quasi dozzinale e approssimativo. Sufficiente è la prova del Coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Casati.
LA SONNAMBULA [Lukas Franceschini] Pavia, 29 ottobre 2010.
Vincenzo Bellini subito dopo il trionfo dell’Anna Bolena alla Scala, replica il successo al Teatro Carcano di Milano con La Sonnambula, l’onirico e delizioso melodramma su libretto dell’altrettanto capace poeta Felice Romani.
Fu un successo travolgente sin dalla prima e non solo per la musica, la quale sarebbe riduttivo definire sublime, ma anche per il soggetto “larmoyante” su un testo raffinato e soprattutto per un cast stellare: Giuditta Pasta e Giovanni Battista Rubini. Non ripercorro in questa sede la vicenda filologica dell’opera, sottolineo che sin dalla prima ripresa la parte del tenore fu abbassata dallo stesso autore, tant’è nessun altro cantante avrebbe potuto eseguirla. La prassi esecutiva prevedeva inoltre al tempo l’uso del falsettone, prassi che dalla fine del XIX secolo cadde in disuso come a tutt’oggi. La partitura della protagonista invece è stata “accomodata” a seconda delle caratteristiche del soprano o sul versante lirico o su quello di coloratura. Il giovane cast impegnato nella tappa pavese del circuito lombardo dell’Aslico ha presentato due soli elementi d’interesse: Jessica Pratt ed Enea Scala. Della Pratt, soprano australiano già da tempo operante in Italia, si sapevano alcune positive peculiarità, in questa produzione oltretutto debuttava nel ruolo. Nel complesso è stata un’esibizione meritevole, anche se talvolta la partitura, la quale contrariamente a quanto si crede è “bassa”, la metteva un po’ a disagio, e neppure il recitativo era del tutto forbito ma fiducioso penso che in futuro questi aspetti verranno sicuramente migliorati. Svettava nel settore acuto regalandoci un’entusiasmante finale atto II inoltre è cantante capace di espressione e colore, e con i tempi che corrono non è da poco. Il tenore Enea Scala non ha superato del tutto la prova perché a mio modesto avviso Elvino non dovrebbe essere, almeno per ora, un ruolo da affrontare, soprattutto nella versione integrale. Scala possiede una pregevole voce di tenore lirico, a tratti monocorde, ma sufficientemente impostato, voce piena, rotonda e pastosa. Purtroppo l’ardua partitura, e soprattutto la grande scena del II atto, lo mettono alle corde dovendo spesso estremizzare acuti forzati e nasali. Credo che in un repertorio più centrale, e comunque con ulteriore studio considerata la giovane età, dovrebbero arrivare risultati molto apprezzabili. Il giovane Alexej Yakimov era un imbarazzante Conte dovuto soprattutto ad una voce ancora acerba e legnosa. Nutro seri dubbi sulle qualità di basso di questo cantante, a me è parso più baritono, e ciò è provato dalla difficoltà nell’emissione della zona grave, in aggiunta ad una piattezza interpretativa disarmante. Marina Bucciarelli era una corretta Lisa che in questa produzione diventa coprotagonista in quanto esegue entrambi le arie, difetta nel registro acuto, molto stridulo, ma la voce è corposa e ha cantato con garbo. Bravi Nadiya Petrenko e Mihail Dogotari rispettivamente Teresa ed Alessio. Sul podio il maestro Massimiliano Lambertini ha diretto la partitura nella sua integralità, e stavolta magari qualche taglio non sarebbe stato poi del tutto arbitrario. Egli ha tenuto le fila del buon accompagnatore senza però soccorrere i cantanti ove sarebbe stato necessario, neppure ha cercato di contenere il coro spesso sopra le righe. L’orchestra dei Pomeriggi Musicali mi è parsa leggermente svogliata rispetto al suo standard, avrei gradito più raffinatezza e precisione. Stefano Vizioli, coadiuvato da Susanna Rossi Jost, realizza uno spettacolo credibile e con gusto di semplice narrazione, fortunatamente senza cadere in scellerate e cervellotiche drammaturgie psicoanalitiche, egli si attiene alla lineare narrazione dando giusto rilievo al dramma, per la nostra piacevole visione. Brillante successo al termine.
L’ELISIR D’AMORE [Lukas Franceschini] Venezia, 2 novembre 2010.
Al Teatro la Fenice, penultimo appuntamento della Stagione Lirica 2010, ritorna L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti, uno dei melodrammi buffi più eseguiti ed apprezzati.
Lo spettacolo, con la regia di Bepi Morassi, era una produzione del 2003 la quale si ispirava ai bozzetti del primo allestimento dell’opera alla Fenice. Spettacolo sobrio e lineare molto cromatico, costumi di Gianmaurizio Ferconi, si lasciava gustare per la freschezza dell’inventiva abbinata ad una simpatica spontaneità, senza ricorrere in inutili quanto bizzarre fantasie. Il quartetto di solisti era ben assortito. Désirée Rancatore era un frizzante e maliziosa Adina, molto disinvolta scenicamente. Trovo vesta meglio questi panni piuttosto recenti Lucie e Gilde, ed essendo cantante intelligente e musicale adatta la parte alla sua vocalità, che attualmente è totalmente proiettata in alto, la zona grave è assente, il centro ancora accettabile, trovando soluzioni appropriate e cadenze pertinenti. Celso Albelo si ritaglia un successo personale nell’esecuzione della celebre romanza, e comunque fa un Nemorino simpatico e sempliciotto non calcando mai la mano, semmai sarebbe da rifinire la parte mettendo a fuoco qualche colore. Roberto De Candia è un pregevole Belcore tutto tondo ed efficace mentre il Dulcamara di Bruno De Simone si è rivelato il migliore della serata. Cantante dalla voce non particolarmente imponente, ma ottimo attore sempre attento al gusto, non eccede mai in macchiette o stucchevoli portamenti, si è rivelato, non da ora, un vero buffo cantante, la squisitezza nel comico, la scioltezza nel sillabato ne fanno uno dei migliori del momento. Molto apprezzabile la Giannetta di Oriana Kurteshi, garbata e non leziosa. Il giovane maestro Matteo Beltramiha diretto con precisione ed energia, magari per mio gusto con tempi dilatati in taluni momenti, ma pur sempre con ottima professionalità. Grandi applausi al termine.
LA SONNAMBULA [William Fratti] Cremona, 5 novembre 2010.
Pur mancando da meno di un decennio dai palcoscenici del Circuito Lirico Lombardo, i Teatri Ponchielli di Cremona, Grande di Brescia, Sociale di Como e Fraschini di Pavia affidano all’esperto Stefano Vizioli un nuovo allestimento de La Sonnambula di Vincenzo Bellini.
Il capolavoro del catanese è un’opera del grande repertorio spesso presente sulle scene italiane, pertanto non occorreva produrre un ennesimo nuovo spettacolo, soprattutto in un triste e prolungato momento di crisi economica e culturale; ancor meno necessario se ideato senza alcuna originalità, mantenendo ferme e costanti le caratteristiche idilliache e pastorali volute da Bellini. Oggi purtroppo non è più possibile celebrare l’innocenza, la purezza e l’incontaminazione attraverso l’impiego della tradizione, mentre sarebbe auspicabile trovare sul palcoscenico nuovi spunti per un pensiero più contemporaneo e adatto all’attualità di un’umanità non sempre e per forza colpevole, impura e corrotta. Pertanto, anche nelle essenzialissime scene martello e chiodi di Susanna Rossi Jost, continuiamo a trovare un immaginario villaggio di campagna con la ruota del mulino e una stanza dell’albergo di Lisa con una portafinestra da dove entra la sonnambula.
La direzione di Massimo Lambertini, alla guida di un’approssimativa Orchestra I Pomeriggi Musicali, non contribuisce certamente a risollevare le sorti semplicistiche dello spettacolo – colorato solo nei costumi della Rossi Jost e nelle luci di Paolo Coduri de’ Cartosio – e subisce la disapprovazione del pubblico al termine della rappresentazione.
Jessica Pratt è un’Amina dolce e candida che non si abbandona ad inutili infantilismi. La vocalità del soprano di origine australiana è certamente importante, naturalmente dotata di agilità, di filati, nonché di facilità negli acuti e nei sovracuti e la linea di canto è piacevolmente morbida ed omogenea, soprattutto nel passaggio. Soltanto il fraseggio ha bisogno di essere reso più espressivo e forse la tecnica sugli acuti richiede alcuni miglioramenti: tali note fanno parte della bellezza innata della voce di Jessica Pratt, ma pur essendo ben sostenute, non sempre sono perfettamente pulite. Degne di nota sono le colorature nella cabaletta dell’aria di apertura “Sopra il sen la man mi posa” e nel finale “Ah! Non giunge uman pensiero”.
Enea Scala, giovane tenore agli esordi, già interprete de Il barbiere di Siviglia, L’italiana in Algeri, Il viaggio a Reims, Radoski in Sigismondo e Arbace in Idomeneo, si rivela carico di promesse. L’artista ragusano porta a termine l’impossibile parte di Elvino senza alcuna sbavatura, dimostrando di possedere una voce chiara e brillante, leggera e duttile, squillante e ben appoggiata sugli acuti, intonata e ben impostata, con una buona emissione e proiezione. Il difficile ruolo belliniano sembra calzargli a pennello, risolvendo l’altissima tessitura con estrema naturalezza. Si trova perfettamente a suo agio nell’angelica “Prendi l’anel ti dono” e nella successiva ed ardua “Tutto, ah! Tutto in quest’istante” ed è particolarmente intenso nel finale primo “Voglia il cielo che il duol ch’io sento”: sarebbe interessante udirlo in “A te, o cara” ne I puritani; la speranza è comunque quella di ascoltarlo presto in un altro ruolo.
Alexej Yakimov anche se possiede una buona intonazione ed esegue correttamente l’aria di sortita “Vi ravviso o luoghi ameni” resta molto scolastico. Le note gravi sono quasi completamente vuote, le agilità sono tutte legate, la voce è pressoché sempre coperta dalla compagine orchestrale e l’interpretazione è ai minimi termini, tanto che il pubblico disapprova apertamente la sua prova al termine dello spettacolo.
I panni di Lisa sono vestiti da Marina Bucciarelli, vincitrice del concorso As.Li.Co. Anche il venticinquenne soprano teatino è molto scolastico, ma mostra qualità vocali naturali degne di nota, che con il giusto studio tecnico potranno essere entusiasticamente espresse. La resa del personaggio è molto buona, seppur con una gestualità forse troppo marcata e Marina Bucciarelli risulta essere una Lisa davvero antipatica.
Nadija Petrenko, come sua consuetudine, mostra al pubblico una vocalità morbida e piena e la sua Teresa è tanto efficace quanto realistica. Il cantabile “Sapete che l’ora s’avvicina” è sinceramente gradevole ed espressivo.
Completano il cast l’Alessio quasi assente di Mihail Dogotari ed il traballante notaio di Luca Granziera. Sufficiente la prova del coro del Circuito Lirico Lombardo guidato da Antonio Greco. Spettacolo grazioso ma privo di intensità, da parte di tutti, eccetto per Enea Scala.
CARMEN [Lukas Franceschini] Milano, 12 novembre 2010.
L’ultimo titolo della Stagione al Teatro alla Scala è sta la ripresa della “Carmen” inaugurale, dicembre 2009, con cambio radicale di interpreti e direttore.
L’opera è eseguita nella versione critica di Robert Didon con i recitativi parlati, avvicinandosi il più possibile all’edizione originale data all’Opera Comique di Parigi il 3 marzo 1875, anche se nei recitativi vi sono presenti numerosi tagli. Lo spettacolo di Emma Dante, che cura anche i costumi, si riconferma uno dei migliori visti nell’ambito generale del teatro lirico italiano, anche se non tutto è riuscito alla perfezione. Trattasi di un’impostazione non tradizionale ma studiata e con grandi inventive. Ella colloca la vicenda in una città del sud Italia, probabilmente la Sicilia non essendoci iconografie riconoscibili di Siviglia, e fa svolgere tutto alla luce del sole, nulla è segreto nella tragedia di Carmen, compreso l’epilogo un omicidio in pieno pomeriggio nella piazza principale della città. E’ un’idea molto bella e assai ben resa, eccede talvolta nel gusto e nella “coreografia di contorno” come ad esempio la partoriente all’inizio atto I e nella scena dei bambini, danzatori eccellenti, che si staccano dalle spalle della garde montante per inscenare una piccola coreografia. L’aspetto religioso è onnipresente e con ostinazione eccessiva, è pur vero che la vicenda si svolge in luoghi altamente ancorati alla fede, ma tutto ciò in Carmen è sostanzialmente secondario e la presenza di un sacerdote e due chierici che accompagnano sempre Micaela mi pare superfluo, anche se la visione della regista è focalizzata nel fatto che la ragazza sogna il matrimonio con Don Josè ed ogni momento potrebbe essere opportuno. Altra incongruenza è la visione in foto gigantesca di un toro agonizzante durante la Canzone del Torero, abbiamo capito il senso anti-corrida ma nell’opera è assolutamente fuori luogo, dovremo dunque togliere la ghigliottina nell’Andrea Chénier perché siamo contro la pena di morte? E’ deludente infine la riduzione dell’entrata delle quadriglie nel quarto atto in una coreografia a dir poco banale, momento ove il folklore sia musicale sia scenico ha un suo spessore. A suo favore giova una drammaticità molto calibrata e cesellata, senza mai eccedere in stereotipi di costume, la protagonista è, infatti, donna libera, mai volgare, neppure gran dama ma donna vera capace delle sue scelte pagandone anche il prezzo estremo. Don Josè è il bravo ragazzo che perde il senno stregato dalla passione per Carmen, quasi un po’ ingenuo, ma trova momenti di grande teatro quando lega la protagonista nel primo atto avvinghiandosi casualmente nelle corde con lei, nella sofferta romanza cesellata come una preghiera e nel finale dove la perdita della coscienza lo porta quasi a stuprare Carmen prima di ammazzarla. Geniale far indossare a Micaela il vestito da sposa nel primo atto, la ragazza di paese che sogna il matrimonio e la famiglia, infranto dagli eventi. La scena della taverna è il momento registico più alto, per sintonia, vitalità e frenesia che rende a perfezione il clima. Sul podio abbiamo trovato la giovane promessa Gustavo Dudamel, al quale non è possibile non contrapporre la lezione di stile forgiata da Daniel Barenboim nelle recite inaugurali della stagione. Dico promessa perché anche se avviato ad una carriera internazionale il giovane Dudamel nelle occasioni operistiche da me ascoltato alla Scala (Don Giovanni e La Bohème) ha sempre destato qualche perplessità. In questa occasione purtroppo più d’una. Bisognerebbe sottolineare che il direttore operistico è a tutti gli effetti agli antipodi del direttore sinfonico, e pare che Dudamel non segua questa linea. La pesantezza dell’orchestra era evidente, nonché i tempi estenuanti non solo dei preludi ma anche dell’intera drammaturgia, mettendo non poco in difficoltà i cantanti e a farne maggiormente le spese è stata la Voulgaridou nell’aria del III atto. Al direttore non mancano certo qualità ma in un’opera come Carmen lo trovo troppo estraneo sia nello spirito sia nella narrazione operistica. Ad essere precisi anche la direzione di Barenboim era “lenta” ma là c’erano colori, risonanze, cura della singola nota e non mancava certo di “nervo” e drammaticità, qui era solo un dilatato accompagnamento tipicamente amorfo. Il cast, tolto la protagonista, è totalmente cambiato, e non sono mancate belle sorprese. Di Anita Rachvelishvili non posso che riconfermare le positive impressioni che ebbi sia nella rappresentazione del dicembre 2009 sia dell’esibizione areniana dell’estate scorsa. Strepitosa scenicamente, mai eccessiva, dotata di un organo vocale di ottima fattezza e potenza, curata nel recitativo, cui numerose recite hanno migliorato gli accenti e i colori, collocandosi come la migliore Carmen attuale. Andrew Richards è un buon tenore, cui va riconosciuto il merito di non aver proposto il solito Don José muscoloso e vociante ma ha cercato, nel limite delle sue possibilità, finezze interpretative vocali valide con una buona resa del personaggio. Convince Alexander Vinogradov, giovane basso dalla voce potente e ben regolata, cui mancherebbe solo un’estrosità scenica del personaggio più sfaccettata. Alexia Voulgaridou sarebbe cantante anche musicale ma limitata nell’accento, nei colori e soprattutto nel registro acuto. Tra le parti secondarie emergevano le due sigaraie Mercedes e Frasquita, a scapito degli scialbi contrabbandieri Dancario e Remendado, più bravi come attori che cantanti. Ottima la compagnia di attori tra cui spiccava il taverniere Lillas Pastia. Il coro sia principale sia quello dei ragazzi erano perfetti e puntuali come gli allievi della scuola di ballo del Teatro alla Scala. Pubblico stranamente molto freddo, al termine poche chiamate.
IL VIAGGIO A REIMS [William Fratti] Busseto, 13 novembre 2010.
Il viaggio a Reims, indiscusso capolavoro rossiniano riscoperto soltanto negli anni ’80 grazie al contributo della Fondazione Rossini, del Rossini Opera Festival, dei professionisti e degli artisti collaboratori del grandioso progetto, approda sul verdianissimo palcoscenico bussetano con l’allestimento della Fondazione Arturo Toscanini creato per il Teatro Municipale di Piacenza da Rosetta Cucchi, con scene di Tiziano Santi e costumi di Claudia Pernigotti.
La cantata scenica, ideata dal genio pesarese in occasione dell’incoronazione di Carlo X a Re di Francia, è forse la sua composizione più avveniristica, con schemi e stili ancora legati alla tradizione, ma con un uso più moderno dei colori e della messa in musica della drammaturgia. L’opera si avvale di dieci protagonisti impiegati in difficili e considerevolmente impegnativi numeri musicali, che solo una buona preparazione tecnica può contribuire a risolvere in maniera corretta e non approssimativa. Il lavoro svolto a Piacenza, nell’ambito del Progetto Lirica Junior del 2009, ha portato a selezionare alcuni giovani e talentuosi interpreti e taluni di loro oggi stanno conducendo un’interessante carriera internazionale.
Lo spettacolo di Rosetta Cucchi, chiaramente modesto per limite di risorse economiche, traspone la scena in una casa di cura psichiatrica, dove gli eccentrici personaggi, amabilmente costruiti e perfettamente cuciti addosso ai solisti, possono dare sfogo alle loro follie. L’idea è ben realizzata e riesce a raggiungere immediatamente due scopi chiaramente importanti: nell’avvicinare un pubblico giovane – numerosamente intervenuto in sala – e nello slegare l’opera dal difficile contesto storico dei festeggiamenti per l’incoronazione di Carlo X.
La Maddalena di Bettina Block – caposala della casa di cura – apre la cantata con buona e divertente presenza scenica, ma la proiezione della voce, soprattutto nei virtuosismi rossiniani, è pressoché ai minimi termini. La pagina introduttiva prosegue con un poco intonato Diego Arturo Manto, nei panni di Don Prudenzio – medico psichiatra – alle prese con la preparazione dei medicinali per gli assistiti.
Enrica Fabbri, annunciata indisposta prima dell’apertura del sipario, è una Madama Cortese – proprietaria della casa di cura – giustamente aggressiva, il cui personaggio è condotto a un limite tale da diventare uno dei più buffi. Purtroppo il malessere la costringe a tagliare la bellissima aria “Di vaghi raggi adorno” e ad eseguire in maniera scarsa la cabaletta “Or state attenti, badate bene”. Meglio interpretati sono i successivi concertati, in quanto l’intonazione e la linea di canto del soprano sono tecnicamente corrette, mentre le sbavature causate dall’indisposizione sono chiaramente coperte.
Elena Bakanova è una Contessa di Folleville in possesso di belle agilità e di una voce limpida e brillante. Le colorature sono ben eseguite, come pure le frasi più liriche, in “Partir, o ciel! desio” e il fraseggio gode di sfumature adeguatamente espressive.
Il successivo sestetto, particolarmente arduo dal punto di vista tecnico, mette in mostra le abilità dei baritoni Salvatore Selvaggio e Marco Filippo Romano nei panni del Barone Trombonok e di Don Profondo, nonché del mezzosoprano Silvia Beltrami e del tenore Enrico Iviglia nei ruoli della Marchesa Melibea e del Conte di Libenskof. Completano il pezzo d’assieme Enrica Fabbri e il baritono Davide Bartolucci nelle vesta di Don Alvaro. L’attacco di “Arpa gentil” della Corinna di Natalia Lemercier Miretti – una buffissima figlia dei fiori dedita alla meditazione – non è dei più puliti, ma la ripresa è fortunatamente repentina e il soprano si prodiga nei suoi migliori filati, con un canto raffinato ed elegante affiancato ad un personaggio davvero divertente.
Segue l’interessante assolo in costume del lamento d’amore di Lord Sidney per Corinna ad opera del talentuoso flauto di Sandu Nagy, che introduce Graziano Dallavalle nell’aria “Ah! perché la conobbi?… Invan strappar dal core”, ben eseguita nel cantabile. Il bass-baritone piacentino è però leggermente in difficoltà durante la cabaletta, non tanto per le agilità, quanto per la tessitura acuta, che poi lo costringe a passare rapidamente al grave e le note basse risultano essere poco corpose.
Nel duetto tra Corinna e il Cavalier Belfiore, il tenore Alessandro Luciano interpreta il donnaiolo francese con voce piena e buona intonazione.
Marco Filippo Romano, che sta facendo di Don Profondo uno dei suoi ruoli d’elezione, si cimenta in “Medaglie incomparabili” con vocalità limpida e brillante, riuscendo a piegarla nell’imitazione degli accenti europei e nel motteggiare i compagni di viaggio, senza cadere in inutili gigionerie e senza venire a discapito del canto. Il baritono nisseno è talmente partecipe nell’interpretazione del personaggio e nella ricca gestualità che lo porta a correre da una parte all’altra del palcoscenico, che arriva al termine della celebre aria col fiato corto, ma la sua bravura pareggia, anzi supera, l’eccesso di zelo.
Il gran pezzo concertato a quattordici voci è una pagina musicale di altissimo livello, chiaramente complessa nell’esecuzione, ma gli interpreti guidati dalla bacchetta di Aldo Sisillo la risolvono con la dovuta cura.
Enrico Iviglia – nella sua uniforme russa – attacca “Di che son reo?” con una luminosità già mostrata nelle pagine precedenti, e nel duetto con la Marchesa Melibea rivela un registro acuto ben condotto ed appoggiato e una preparazione tecnica assolutamente degna di nota. L’esibizione non è completamente priva di sbavature, ma che possono essere dimenticate se si tiene conto della difficoltà del ruolo, che il tenore astigiano sa arricchire di deliziosi colori e raffinati pianissimi, soprattutto in “Ah! no, giammai quest’anima”. Silvia Beltrami – alle prese con il suo immaginario cagnolino – lo affianca con una vocalità piena e morbida, omogenea nella linea di canto e tecnicamente precisa, soprattutto nella successiva polacca, breve, ma decisamente ardua.
Nella conclusiva scena dei brindisi, Salvatore Selvaggio dimostra di possedere un bell’acuto, ma è leggermente in difficoltà nel grave. I compagni lo affiancano intonando ognuno il proprio inno, esibendo le medesime caratteristiche vocali del corso dell’opera.
Aldo Sisillo dirige con polso l’Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna. Al termine dello spettacolo il pubblico accoglie tutti gli interpreti con lunghi, scroscianti e meritati applausi.
DIE ENTFÜHRUNG AUS DEM SERAIL [Lukas Franceschini Berlino, 17 novembre 2010.
La Staatsoper unter den Linden si è trasferita temporaneamente allo Schiller Theater causa i lavori di ammodernamento che si protrarranno per circa 3 anni.
Nella stagione in corso viene ripresa la produzione de Die Entführung aus dem Serail, musica di Wolfgang Amadeus Mozart, che esordì nel 2009 curata da Michael Thalheimer. Il singspiel in oggetto è la prima grande affermazione di Mozart, al Burgtheater di Vienna, nel genere comico e l’argomento si rifà a Belmonte e Konstanze di Christoph Friedrich Bretzen, un testo di ambientazione turca che tanto era divenuto di moda nell’Europa di fine XVIII secolo. Il libretto è molto differente rispetto l’originale, cui si deve solo come fonte ispiratrice. E’ invece l’inventiva del compositore che sorprende per la ricchezza melodica e strumentale, distaccandosi notevolmente dal testo teatrale, riuscendo più che in un singspiel comico, in un dramma ove il comico, il patetico ma soprattutto la morale o meglio il perdono prendono il sopravvento. La partitura, curata in ogni dettaglio, offre un saggio smagliante di sonorità e drammaturgia che vano dal caricaturale al drammatico in un duplice binario ora il pathos dell’opera seria ora la buffoneria dell’opera comica, ma anche il colorito esotismo e la cristallina performance acrobatica vocale. Lo spettacolo berlinese era rappresentato in un sol tempo, senza intervallo, con notevoli tagli sul testo recitato. La scena ridotta all’osso, solo qualche parete monocromatica di Olaf Altamann, non ci soggiogava sicuramente per l’ambientazione turca, anzi rappresentava probabilmente un deterrente alla nostra visione cui va aggiunta una personalissima introspezione dei personaggi il cui denominatore comune è la supremazia del potente sui suoi sottoposti. Nel concetto le cose funzionavano, semmai mancava d’espressione e decisamente carente dal punto di vista buffo, la quale è componente tale e quale quanto il drammatico. Costumi tradizionali nella trasposizione dell’opera in tempi moderni. Sul podio abbiamo trovato Christopher Moulds un direttore preciso ed attento, molto brillante sullo spartito e sui tempi che ha retto ben fila con la Staatskapelle Berlin, impagabile orchestra, e l’ottimo coro della Staatsoper. Più infelice il cast dove il solo Kenneth Tarver pareva all’altezza della situazione. Non che questo tenore abbia un canto raffinato e per giunta le mezze voci non sono proprio il suo campo eletto, ma quanto meno è preciso, musicale e di ottima presenza scenica, inoltre Mozart gli è molto più congeniale che Rossini serio, dove si è spesso abituati ascoltarlo. Delude in parte Christine Schafer, dottissima cantante e raffinata stilista, oggi però non più in possesso di un registro acuto sfolgorante per reggere l’ardua prova. La Blonde di Cornelia Gotz è stridula ed incolore, si distingue Kevin Conners per vivacità di personaggio ed accenti, Reinhard Dorn è un Osmin imponente ma molto approssimativo. Ottimo l’attore Sven Lehmann nel ruolo di Selim, anche se la sua recitazione, probabilmente dovuta all’impostazione registica, è spesso sopra le righe. Ottime accoglienze al termine.
NABUCCO [William Fratti] Fidenza, 19 novembre 2010.
Nonostante i continui tagli e la chiusura dei rubinetti nei confronti di un’associazione che da venti anni porta sul palcoscenico fidentino spettacoli d’opera più che dignitosi, talvolta memorabili, il Gruppo Promozione Musicale Tullio Marchetti riesce a mettere in piedi nella Stagione 2010 una sola recita di Nabucco, senza troppe pretese nell’allestimento, ma con un cast di protagonisti – seppur non tutti nomi internazionalmente conosciuti – che molti teatri, anche importanti, avrebbero voluto avere per poter sentire cantare così bene.
La serata di venerdì 19 novembre si apre con l’annuncio, da parte dell’Amministrazione Comunale di Fidenza, dell’apertura ufficiale delle Celebrazioni per l’Unità d’Italia, onorando non solo il compositore che più di tutti ha espresso il grido del desiderio di liberazione degli italiani dal giogo straniero, ma anche il primo deputato del collegio di Borgo San Donnino nel primo Parlamento dell’Italia Unita. L’orchestra intona immediatamente l’Inno Nazionale e tutto il pubblico presente in sala si alza, cantando con aria sentita le parole di Goffredo Mameli sulle note di Michele Novaro.
L’allestimento interamente firmato da Artemio Cabassi è tradizionale, molto semplice, chiaramente prodotto in economia ma assolutamente efficace allo svolgersi della vicenda. Occorre sottolineare che l’artista parmigiano è da sempre un valente costumista, che sa vestire gli interpreti e colorare il palcoscenico anche con ridotte disponibilità pecuniarie, ma dovrebbe avvalersi di collaboratori esperti della professione drammaturgica nello sviluppare le proprie regie, che appaiono povere nell’azione e nella gestualità.
Marzio Giossi è un Nabucco dal timbro luminoso e liricissimo, che sa distribuire in maniera molto intelligente le proprie qualità vocali, risultando morbido e molto musicale nel canto spianato, intenso quando occorrono accenti più drammatici, come nel finale atto primo o nel finale atto secondo, in possesso di una linea di canto sempre omogenea e di un fraseggio altamente espressivo. Il baritono bergamasco è sempre felicissimo nel passaggio all’acuto, comunque mai in difficoltà nelle note più gravi, che appoggia ed emette con la dovuta perizia tecnica.
Anna Pirozzi è Abigaille e già da “Prode guerrier! D’amore conosci tu sol l’armi?” dimostra di che pasta è fatta. Innanzitutto è evidente che il giovane soprano ha tutto sotto controllo e sa chiaramente ciò che fa, in ogni singola nota. La vocalità drammatica sa districarsi lungo le insidie del ruolo senza alcuna difficoltà, dai numerosi acuti, ciascuno perfettamente pulito e ben appoggiato, compreso il tradizionale re naturale, ai bellissimi filati, ben distribuiti solo nelle seconde strofe o nei da capo, con ottimo controllo del fiato, dalle agilità giustamente costruite e pronunciate, agli accenti ben marcati. Anche nelle zone più gravi dell’impervia tessitura, dove è più debole, soprattutto nella proiezione, Anna Pirozzi non cerca di ingrossare, mantenendosi omogenea e forse consapevole di poter perfezionare in futuro tali passaggi con la dovuta cura tecnica.
Enrico Iori è Zaccaria ed interpreta il gran pontefice degli Ebrei con tale ricchezza di colori ed accenti da poter essere considerato uno specialista del ruolo. Non tutti i bassi riescono a perfezionarsi in questa parte, che ha un’estensione dal fa diesis acuto al fa grave e necessita di una vocalità drammatica, ma l’artista parmense riesce a disegnare un personaggio intenso ed autorevole con un canto preciso ed emozionante ed un fraseggio particolarmente degno di nota. Le tre difficili arie, molto diverse tra loro, vengono eseguite con particolare trasporto, ma è “Del futuro nel buio discerno” che riscuote i maggiori consensi del pubblico, con applausi lunghi e fragorosi.
Cristina Melis veste i panni di Fenena e si presenta con una vocalità morbida dalle tinte ombrose, particolarmente adatta all’effetto del personaggio, e la difficile e quasi totalmente scoperta “Oh dischiuso è il firmamento” è ben eseguita. È affiancata dall’Ismaele di Giuseppe Talamo, voce luminosa e smagliante, morbido nei passaggi, intenso negli accenti; sicuramente una voce da riascoltare.
Stefano Giaroli dirige con vigore e partecipazione sinceramente sentita. La sua esecuzione non può essere annoverata tra le migliori, ma sicuramente può essere considerata una delle più generose e cariche di sensibilità. L’orchestra e il coro – diretto da Emiliano Esposito– si avvalgono di professionisti provenienti dalle masse del Teatro Regio di Parma e di altre istituzioni locali e il risultato finale ne risente positivamente.
DON PASQUALE [Lukas Franceschini] Bergamo, 3 dicembre 2010.
Il Bergamo Musica Festival presenta l’opera Don Pasquale, secondo titolo donizettiano della stagione autunnale 2010, nel nuovo allestimento di Francesco Bellotto, direttore del Teatro bergamasco, con scene di Massimo Cecchetto e costumi di Cristina Aceti.
In parte si tratta della rielaborazione registica di uno spettacolo andato in scena al Teatro Olimpico di Vicenza, nel giugno scorso, cui vengono aggiunte le scene (là faceva da fondale lo splendido spazio palladiano) e i costumi quasi simili. La regia di Bellotto non si fa certo ricordare per particolare fantasia o inventiva, si limita a narrare mancando uno stile e un’ambientazione non ben delineata, ad esempio, su una scenografia classica, Ernesto gioca con l’I-pod, il protagonista pare più un Lord inglese con tanto di tight, e Norina è una dama del primo ‘900. La scena è fissa delimitata ad angolo da due fondali dipinti ma non crea suggestioni né fantasie, slavo letteralmente cadere al III atto quando il protagonista si vede beffato e avvilito per il matrimonio, ottima trovata teatrale! Il tutto è comunque decoroso e non vi sono trovate cervellotiche tanto in voga nel teatro d’opera odierno, ma un pizzico di brio e una minore staticità non avrebbe guastato. Sul versante musicale dobbiamo registrare purtroppo la cattiva esibizione dell’Orchestra del Bergamo Musica Festival, un ensemble che abbisogna con urgenza di particolari cure. Se la rassegna vuole prendersi qualche spazio nel panorama operistico italiano, deve necessariamente consolidare o meglio ristrutturare le fondamenta, perché è inaccettabile oggigiorno ascoltare stonature degli ottoni così evidenti nell’overture e altrettanto del violoncello nell’assolo del III atto. Stefano Montanari è un direttore che ha anche lo stile per dirigere Donizetti, e taluni risultati si sono sentiti, altri intuiti, peccato non abbia fatto eseguire i “da capo” e in qualche momento mancasse di mordente. Del cast si è messo in luce il solo Paolo Bordogna. Salvo errori credo fosse al debutto nel ruolo, lo ascoltai nel ’98 a Verona in Malatesta. Egli è un basso-baritono di ottime finiture vocali e tecniche, qui confermate assieme ad un’interpretazione impeccabile, di gusto, mai caricata e resa con eccellente mestiere al quale da tempo egli ci ha abituato. Credo inoltre che questo ruolo entrerà a pieno titolo nel suo repertorio, magari alternandolo ancora con Malatesta, e che in occasioni a venire, con altra compagnia, possa essere reso ancor meglio. La Norina di Linda Campanella è squisita interprete e tutto sommato decorosa cantante, peccato che il registro acuto sia così stridulo, tale da infastidire sovente. Christian Senn è un Malatesta piuttosto anonimo, ma non crea danni, mentre Ivan Magrì sarebbe anche un tenore musicale e quasi ideale per il ruolo di Ernesto, ma come ribadito per “Il giorno di regno” di Verdi a Parma, necessita ancora di studio tecnico per sopperire alle lacune soprattutto nella zona di passaggio, mentre le qualità timbriche non mancano ed il personaggio è ben reso scenicamente. Successo cordiale al termine.
TOSCA [Lukas Franceschini] Firenze, 10 dicembre 2010.
Al Teatro Comunale di Firenze Tosca è l’ultimo titolo della Stagione Operistica 2010, spettacolo che assieme alla precedente La Forza del destino andrà presto in tournée con il direttore stabile Zubin Mehta.
Dal prossimo anno si cambia programmazione: la risposta del Maggio Musicale Fiorentino ai tagli governativi sulla cultura è elevata, un anno di opere e concerti da gennaio a dicembre. Ci saranno una sezione “invernale”, poi il Festival del Maggio ed un’appendice autunnale. Da non sottovalutare le varie possibilità di abbonamento annuale (ottimo il rapporto qualità e prezzo per tutti gli eventi) e a sezioni. Tornando all’opera la ragione di questa Tosca è la sola presenza del Maestro Mehta. Ma ciò non basta. Zubin Mehta ama Tosca in modo particolare, lo si sa, quattro edizioni solo a Firenze e tre incisioni discografiche tra le quali primeggia quella con Leontyne Price. La compagine orchestrale fiorentina si fa sempre apprezzare per un elevato professionismo, un suono “raccolto” e il coro compie il dovere a par suo. La bacchetta del maestro indiano non indugia in sonorità ora romantiche, ora infiammate e tese, mai uscendo dal binario di drammaticità e tensione che costituisce l’articolazione del melodramma. Ma tutto ciò, seppur al meglio, non è sufficiente, perché in questa produzione mancano i cantanti! Violeta Urmana, che non ascoltavo da qualche tempo, mi ha sorpreso per la disastrosa condizione del registro acuto, cui è inutile cercare mediazioni: è gravemente compromesso sfociando nel solo urlo. Inoltre, la cantante non essendo particolarmente spigliata sulla scena non può trovare nessuna alternativa ad un ruolo che oggi le sta decisamente “stretto”. Marco Berti è il tenore che sappiamo, non certo raffinato, voce squillante ma monocorde, si è espresso più in una gara di polmoni piuttosto che in un’interpretazione. Resta infine Ruggero Raimondi, il quale arrivato alla soglia dei dodici lustri, per ovvie ragioni naturali, non ha più nulla da aggiungere a quello che ha dato. La sua è solo una decorosa interpretazione teatrale (compromessa in parte da una strana camminata) e vocalmente deve quasi sempre scendere a patti ed accomodamenti. Decorosi le voci dei comprimari, tra i quali non si mette certo in evidenza il caricato sagrestano di Fabio Previati. L’allestimento di Mario Pontiggia con scene e costumi di Francesco Vito era dei più classici e tradizionali, il che talvolta non guasta. Molto coreografico, in perfetto stile con il dramma, si lasciava apprezzare con garbo e gusto del non retorico, creando suggestive immagini soprattutto nel II atto. Bellissimi i costumi. Successo cordiale al termine.
DIE WALKÜRE [Lukas Franceschini] Milano, 14 dicembre 2010.
Con l’inaugurazione scaligera 2010 il binomio Barenboim-Cassiers aggiunge il secondo tassello al monumentale Der Ring des Nibelungen iniziato la scorsa primavera e che si concluderà nel 2013, anno delle celebrazioni per il 200° anniversario della nascita di Richard Wagner.
Die Walküre, seconda opera delle quattro che costituiscono il ciclo, è la più centrale, ovvero quella dello snodo della vicenda. Il compositore, nella duplice veste di librettista, richiamandosi alla tradizione nordica dei poemi dell’Edda e del Canto dei Nibelunghi, prosegue il suo racconto mitico a molteplici chiavi di lettura che vanno dalla metafora di un presente in crisi per crollo dei valori fondamentali, alla rappresentazione del potere illusorio e distruttivo del desiderio senza controllo fino allo scontro tra le energie primordiali del cosmo che regolano l’esistenza di uomini e dei. L’opera introduce anche il tema dell’incesto che, non nuovo in ambito mitologico, in realtà va letto secondo una valenza simbolica: Siegmund e Sieglinde in realtà più che fisicamente, sono gemelli in senso ideale e spirituale, si integrano a vicenda realizzando quella congiunzione tra principio maschile e femminile che forma l’entità completa dell’Eroe. Il tema dell’incesto non è raro nella mitologia; parecchi dei si sono sposati con le loro sorelle e simbolicamente questo rappresenta la stretta parentela fra le coppie divine, ma questa relazione è quasi sempre impedita agli umani. La parola Walkiria significa “scegliere sul campo di battaglia.” Brünnhilde pertanto oggi dovrà combattere per le sue scelte, ma sarà l’eroe capace di varcare il cerchio di fuoco a risvegliarla, quel cerchio voluto dal padre di lei Wotan, colui che sfida la legge per una moralità più elevata. Lo spettacolo curato da Guy Cassiers, autore anche della scenografia, è un linguaggio teatrale molto personale, all’interno del quale la tecnologia ha l’effetto sorprendente di rendere le emozioni più profonde relazionando arte, politica e potere. Obiettivamente in questa occasione le idee sono più originali e meglio sviluppate rispetto al precedente Rheingold scegliendo comunque una dimensione neutra della vicenda pur con una perfetta aderenza al testo wagneriano. Le spettacolari proiezioni riempiono suggestivamente la scena, basti pensare alla “scultura” di cavalli inermi che domina il secondo atto. Di impagabile emozione l’arrivo sia di Sigmund sia di Hunding attraverso i vetri sfumati della porta. Sulla stessa linea atemporale gli elaborati costumi di Tim van Steeenbergen, che seppur non particolarmente originali, donavano un ulteriore tocco d’impressione. Sul versante musicale un plauso particolare va al maestro Daniel Barenboim per una concertazione, che seppur non perfetta, era di altissimo livello. Caratterizzata da una costante lentezza tuttavia era il particolare a meravigliare, per tanta cura di cesello, sfumature e soprattutto colore. Talvolta gli ottoni non erano puntuali, ma resta di fondo una lettura particolarmente drammatica, disarmante, cui la narrazione è il fulcro di tutto il lavoro musical-orchestrale. Tra le voci soliste devo fare la doppia sezione: bravi e cattivi. Tra quest’ultimi John Tomlinson ruvido, sfogato ed inespressivo Hunding, cui accoppiamo lo stentoreo e spesso limitato Siegmund di Simon O’Neill. Un discorso a parte merita Vitalij Kowaljow, Wotan, che sicuramente non possiede di suo il peso specifico vocale della parte, ma riesce per un pregevole fraseggio, e un misurato senso teatrale, anche se nell’Incantesimo del fuoco avrei voluto più consistenza ed accento. Tra i buoni tutte le parti femminili, tra le quali spiccava la Fricka di Ekaterina Gubanova, per l’omogeneità del registro, linea di canto e temperamento. Nina Stemme, oggi probabilmente la migliore Brünnhilde, sfoggia la sua luminosa voce, in un’esibizione non perfetta ma decisamente vissuta ed appassionata. Infine, Waltraud Meier, cui inutile negarlo il raffronto con la sua esibizione del 1994 è palese, ma se allora era perfetta ora non può essere altrettanto, non perché la grande artista non sia più tale, ma per inesorabile passare del tempo. Resta comunque una cantante di altissimo livello, un’attrice di straordinaria comunicatività, alla quale se oggi qualche acuto non riesce come ieri devo constatare che è il personaggio ad aver preso più consistenza e penetrazione. Brave ma talvolta non in sintonia le otto Valchirie. Ovazioni al termine con interminabili chiamate al proscenico.
LA VEDOVA ALLEGRA [Lukas Franceschini] Verona, 15 dicembre 2010.
La stagione Lirica invernale al Teatro Filarmonico di Verona è stata inaugura dall’operetta di Franz Lehár Die Lustige Witwe ovvero La Vedova allegra nella versione ritmica italiana.
Questo spartito è probabilmente il più famoso nel suo genere, conosciuto universalmente. Molti registi cinematografici hanno voluto portare sullo schermo questa simpatica e romantica operetta, von Stroheim e Lubitsch ad esempio, e il suo fascino resta immortale. La Vedova allegra rappresenta a pieno titolo un mondo di belle époque borghese tanto in voga nel XIX secolo con l’affermarsi della borghesia, ma non si deve cadere nell’errore di considerare questi lavori inferiori all’opera, gli sono di pari importanza salvo il classico happy-end. Lehár è un compositore viennese di formazione, ungherese di nascita ma l’impero al tempo era immenso, e dalla sua musica traspare tutto il profumo della capitale austriaca, un modo di vivere e soprattutto il valzer, emblema simbolo della città. Anche se l’operetta è ambienta a Parigi, resta musicalmente viennese, nell’altra capitale era Offenbach, tedesco di nascita ma parigino di formazione, a possedere lo scettro del genere. Questo gioiello musicale ebbe una fortuna immediata ed incontrastata negli anni successivi, creando anche un caso diplomatico in Italia quando nella prima rappresentazione triestina, anche se la città faceva parte dell’impero asburgico, perché gli irredentisti interpretarono il regno immaginario del Pontevedro, paese natale della Vedova, come una parodia sul reale regno di Montenegro paese natale di Elena di Savoia. La questione a parte qualche attrito scivolò pacatamente nel dimenticatoio. Stefano Vizioli, regista, sposta con arguzia ed invenzione la vicenda al 1929 anno del grande crollo delle borse internazionali, perché il denaro è, purtroppo, la chiave che apre tutte le porte. È il denaro che riscatta le umili condizioni della protagonista, e sarà il denaro, rinunciato, a farle ritrovare il primordiale amore. Tutto questo si svolge nella hall della borsa di Parigi, ovviamente! L’idea è a tratti originale e anche ben strutturata, inoltre il regista ha il pregio di sfoltire i dialoghi, spesso pesanti e di logora comicità, e fa recitare con buona pertinenza tutti gli interpreti. Quello che manca a questo spettacolo è la magia e la lucentezza. Le scene di Edoardo Sanchi sono cupe, i giochi di luci inesistenti, la staticità opprimente: il coro, ovvero i cortigiani e i nobili parigini, sono delle comparse immobili e insignificanti, quando invece dovrebbero essere l’essenza sotto taluni aspetti di un mondo febbrile e spensierato. Nei cambi scena, anche se poi tale restava, veniva calato un sipario di plastica accecante che sminuiva notevolmente l’ambientazione sfarzosa della quale era più logica una continuazione. I costumi di Giovanna Buzzi erano molto raffinati non sempre rispecchiano l’epoca dell’ambientazione. La direzione di Julian Kovatchev è sobria ed elegante, ha nervo e si adagia amorevolmente sui valzer e ritmi della partitura anche se in taluni casi le sonorità sono spesso altalenanti e alcuni settori orchestrali non al meglio. Il cast, in generale, deve fare i conti con un consumato mestiere che inevitabilmente segna una certa usura. L’elegante e affascinate Patrizia Orciani glissa sovente il settore acuto con impropri falsetti, Armando Ariostini, classe da vendere, recupera più nella recitazione che nel canto seppur sempre sobrio e Bruno Praticò mostra evidenti segni di opacità e secchezza. Ilaria Del Prete è una flebile e limitata Valencienne, mentre Angelo Scardina si impone positivamente per linea di canto ed interpretazione nel ruolo di Camille. Buone le parti di fianco, spigliato e divertentissimo, oltreché ottimo attore, il Njegus di Gennaro Cannavacciuolo. Le coreografie, delle quali è impossibile affermare quanto fossero originali, erano piuttosto banali, e l’utilizzo di un corpo di ballo avrebbe preteso esiti ben diversi. Successo cordiale al termine.